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Presento qui il ricordo di due persone di famiglia, mia nipote Annalisa su La Trebbia settimanale diocesano di Bobbio il 25 novembre 2010 e di mio cugino Sandro papà di Lorenzo (v. p. "Terre" 2 Trieste)

In questa pagina la memoria di persone care iniziando da Annalisa, figlia di mio fratello, per proseguire con Sandro mio cugino primo, di due anni più giovane di me,  poiché, avendo avuto un ingaggio in Liguria suo figlio Lorenzo, vincitore nel 2002 della Barcolana e poi più volte in predicato per l'Oscar della vela, veniva spesso a trovarmi facendosi il viaggio da Trieste con la  moto potente che si era comprato. Su suo desiderio lo accompagnammo a vedere i Forti di Genova ed è per questo motivo che ho iniziato la pagina "Storia" con la recensione che li riguarda.

Proseguirò con la poesia che Anna De Michelis, cognata di Ninetta mia compagna di banco al Liceo D'Oria, ha scritto per  lei e con la poesia che scrisse anche per Chicca Conte Bernardi altra nostra compagna di Liceo, quindi con il ricordo di professori di quel tempo, il più formativo per la nostra giovinezza assetata di conoscere.

Carlo Fontanini un giornalaio

e di fianco l'articolo che scrissi (grazie alle sue indicazioni) 

sui giornalai il  Giornale 27 dicembre 1985

 

Ma prima il ricordo di Carlo Fontanini, edicolante, perché chi lavora in una giornale sa che la catena informativa ha bisogno di questo terminale che è l'Edicola e che dalla gentilezza del giornalaio dipende anche la diffusione del giornale e inizio con una reminiscenza lontana.

Il mio secondognito era alle elementari e gli diedero il classico tema "La mia mamma". Scrisse: "la mia mamma ha i capelli gialli (bionda naturale), ha i brufoli in faccia (qualche volta, correggo io onde non esser ritenuta un mostro completo),  e fa la giornalaia".

Da quel tempo quando ero alle prime armi del mio giornalismo dopo esser stata eletta ad honorem nella categoria "giornalai" che per esperienza credo sia più simpatica al grande pubblico di quella dei "giornalisti" (per i quali tante volte mi è capitato di dover chiedere scusa a qualcuno dei miei informatori o a chi mi rivolgevo per notizie e incominciavano con un "ma perché quel titolo?" e il titolo non lo scrive chi ha scritto il pezzo e così via...), metto qui il ricordo del mio edicolante che non è più. Non è stato pubblicato e lo metto ora qui, ma è stato lui a darmi le informazioni sui loro problemi, le loro festività (scarsissime) e chi fossero i più vecchi in Genova, articolo quello dei miei esordi e che fu pubblicato con mia grande soddisfazione. Questa volta ho dovuto accontentarmi di leggere il pezzo di Feltri nelle pagine nazionali del Giornale, almeno lui si è ricordato di questi anelli  importanti, indispensabili, della catena di montaggio e distribuzione che contribuisce a diffondere i giornali.

A Nervi quest’estate se ne è andato un amico: Carlo Fontanini che cominciò a lavorare da ragazzino nell’edicola della madre all’incrocio tra via Oberdan e via del Commercio e che dopo di lei vi è stato più di mezzo secolo. Quando venne in uso l’euro aveva pochissima vista ma un giorno che gli chiesi come distinguesse con assoluta sicurezza le monete, mentre noi tutti faticavamo, mi mostrò di riconoscerle facendo scorrere il pollice sul bordo. Fontanini è stato un gentile signore d’animo. Quando si ritirò con la moglie Gina che lo aiutava e insieme hanno vissuto 45 anni di matrimonio, in molti di coloro, che ogni mattina passavano per il giornale e un commento sulle notizie (il giornalaio è un veritiero ufficio stampa),vollero festeggiarlo:  focaccia e un piatto d’argento con la dedica “gli amici”.

Un giornale è prodotto complesso di una  catena di montaggio con l’edicola per termine. Un posto privilegiato per i rapporti umani che non ha trovato l’eguale altrove. Quando nell’85 un’iniziativa degli editori per aumentare la disffusione portò alla legge che allargava i punti di vendita, Fontanini mi chiese di scriverne e mi mise in contatto con l’allora decana dei giornalai, Enrichetta Reverberi, che a 74 anni ogni pomeriggio era ancora al lavoro nel negozio di Piazza Pontedecimo. Enrichetta mi raccontò che in quello stesso posto suo nonno vendeva giornali già ad inizio Novecento e la nonna andava a ritirarli con ogni tempo alla vecchia stazione di San Biagio, portandosi in spalla i pesanti pacchi. La sua edicola vendeva 400 copie al giorno.

 

Ecco mia nipote Annalisa nel suo fiore che l'articolo di giornale non può rendere e a fianco la foto mia e del cuginetto Sandro, bambini a Trieste. Di Annalisa notate gli occhi bellissimi eredità di mia nonna Gisella Rossi Bressani, occhi di un azzurro liquido mentre quelli di mia figlia Ida tendono al verde acqua. Grazie nonna.

Ninetta, figlia del professor Durand, è stata mia compagna di banco al Liceo D'Oria e in altra pagina ho già scritto che è una delle persone più buone che mi sia capitato di conoscere. Metto qui la Poesia per lei della cognata Anna De Michelis anche lei nostra compagna di liceo.

In una vacanza andarono con Ninetta e suo fratello Nanni insieme al mare, mi pare all'isola d'Elba. "Partirono in tre e tornarono in due" come mi disse Ninetta perché intanto tra Anna e Nanni era scoppiato l'amore e lei era ormai esclusa dal loro cerchio magico.

Ad Anna ho chiesto anche di mettere un ricordo di Chicca Conte Bernardi che non è più da un paio di mesi. Era sua cara amica amica delle sue sorelle. Glielo ho chiesto perché non ritrovo quella lettera che tanto mi piacque e che Chicca mi spedì per il mio libro sulle Scrittrici (ma sono archivista di carte e carte per me importanti, pur se un po' caotica, e magari con calma la ritrovo). Chicca è stata infatti persona quanto mai disponibile verso noi compagni, sostenendoci, apprezzandoci nelle nostre iniziative  e tornata da Trieste dove suo marito era stato direttore generale dello Stabilimento Fincantieri e quindi vi avevano abitato per anni non mancava d'invitarci tutti, noi compagni, alle sue cene in terrazza così piene di calore e di allegria. E di Chicca che era così bella con i capelli biondi e gli occhi azzurri (come i viaggiatori inglesi ricordavano le donne ligure nel Settecento) e così piena di calore umano che vale anche più della bellezza, ricordo soprattutto la signorilità e il fatto che era lei sola ad accompagnarmi talvolta da Ninetta quando questa ormai era immobilizzata in un letto ed abirava in Nervi.

  

"A Ninetta Durand Carpanini" e "A Chicca Conte Bernardi"

di Anna De Michelis

                                                                         

 

    

Ecco ora in una sua lettera il ricordo di Emilia Maciocco Tassi, mia insegnante di lettere alle medie al D'Oria.

Aveva inseguito i miei genitori giù per la scalinata del Doria (alle medie va scritto così in quanto la dedica è diversa che per il Liceo) dopo avermi interrogato all'esame di ammissione, pregandoli di iscrivermi nella sua sezione perché le era piaciuto come eseguivo l'analisi logica.

M'insegnò ad essere un po' più pratica, magari anche utilizzando il vocabolario  di latino Campanini - Carbone che al Doria era in odore di eresia in quanto dicevano contenesse degli errori, ma ogni dizionario è aiuto sufficiente all'allievo se questi lo utilizza nella maniera giusta e non spera di trovarvi la traduzione completa del testo latino. M'insegnò la lettura ragionata sottolineando le parole importanti di una pagina (ed è un abito che non ho dismesso se anche nel Sito scrivo in rosso ciò che per me va sottlineato) e come a me così al resto della classe.

Mi capì e quando incominciavo a scrivere Bressani con tre "s" nei temi in classe suggeriva ai miei genitori di farmi staccare e riposare. Da giornalista ultimamente mi firmavo Bressanik e se da un lato inorridivo pensando alle risate di chi avrebbe letto se non me ne fossi accorta in tempo, dall'altro mi sembrava di aver acquisito l'identità che sognavo per me.

Quando mia madre si ammalò di Parkinson e andandola a trovare mi confidai  con lei, mi tranquillizzò: "Anche mio marito ha avuto il Parkinson ed è morto poi di un'altra malattia, quindi fatti coraggio e curala come meglio sai e i medici ti diranno".

Voglio ricordare a proposito di questa malattia che comunque molto incide anche su chi presta assistenza, che mi misi a frequentare tutti i convegni sul Parkinson per imparare, per capire sempre sognando una cura risolutiva. Un signor Riva di Milano, pensionato, più che ottantenne e con la moglie malata e immobile ormai in un letto che doveva far nutrire con la cannuccia, mi scrisse per ringraziarmi per un mio articolo sul Settimanale diocesano e se lui mi era stato grato perciò che avevo scritto, io mi sentii forse più grata per le sue parole.

Ricordo che quando mia madre rimase vedova perché il papà che l'accompagnava in bagno una notte era caduto e lei sopra di lui e papà aveva avuto un ictus per cui poi entrò in coma e morì dopo un mese, allora l'avevo messa provvisoriamente in una Casa di riposo vicino a casa mia, in una stanza a due letti perché il papà una volta ristabilito potesse andarvi e seguire la terapia di riabilitazione avendo lei al suo fianco. Per tener compagnia alla mamma andai a dormire con lei le prime notti scoprendo che le infermiere del turno di notte staccavano i campanelli e così via, però c'era anche una buona assistenza ed una rete di figli vigili per cui quando papà morì lasciai lì la mamma dato che mio marito non voleva prenderla in casa  a motivo di una salita e scale da farle fare per uscire e di due figli ancora all'università. I figli poi si alternarono con me al tavolo della mamma quando scoprimmo che  la mamma non mangiava più da sola e capimmo perché il papà quando passavamo  da loro all'ora di pranzo smetteva di mangiare e lei pure:  questo perché papà non voleva farci sapere che doveva imboccarla. A me lo disse un signore ospite anche lui della Casa di riposo qualche giorno dopo il ricovero di mamma. Ma farla aiutare al tavolo avrebbe significato spostarla nel reparto di persone tutte un po' fuori di testa e così ci alternammo, io quasi sempre, i figli se proprio non potevo, per imboccarla e questo per i primi due anni.  Alla domenica la portammo sempre con mio marito e fino alla fine  a casa nostra dato che  il giorno festivo era quello di minor vigilanza nella  Casa di riposo come negli ospedali d'altra parte. Dopo mi organizzai affiancandole  Vittoria, una ragazza peruviana, ottima e affettuosa, e continuando a passare là sette ore della mia giornata cioè tutto il tempo in cui mamma era fuori dal letto.

Perché vi tedio con queste cose? Perché mi è affiorato un ricordo gustoso. Un giorno venne in visita alla Casa di riposo il cardinale Dionigi Tettamanzi. Vestii la mamma con una bella camicetta, procurai della carta da regalo ad una signora che voleva regalare sigari al cardinale (sigari che un figlio le aveva portato da Cuba) ma non avendo quella carta mi aveva chiesto se poteva fasciarli in quella igienica, "pulita" aveva precisato.

Quando fummo  al tavolo della cena (ore sei del pomeriggio) il cardinale si era già presentato nell'atrio ed aveva incontrato una bella signora anziana cui aveva chiesto "quanti anni avesse" e lei lo aveva subito redarguito con un "non si chiede l'età alle signore". Al tavolo dissi al cardinale che era mia la tesi sui Vent'anni del Settimanale diocesano (gliela avevano recapitata) . Il prof. Garancini della Cattolica mi aveva chiesto di svolgerla in modo critico dato che non va bene se un giornale vive sempre del solito numero di copie e di abbonamenti, ma quando mi rivelai al cardinale come l'autrice, Egli si scatenò con un "ma allora è lei che mi ha fatto tanto arrabbiare con ciò che ha scritto". Le anziane signore incominciarono a guardarmi perplesse (e d'altra parte proprio loro, quelle anziane signore, mi hanno insegnato a reagire, a saper fare le proprie ragioni come un dovere). Mia madre iniziò a tremare più che mai e il cardinale (che in Genova ha fatto politica e questo a me non piace pur se per questo ha anche avuto tanti sostenitori e ammiratori e pur se il cardinal Canestri mi aveva già detto una volta in passato che "la politica è il miglior servizio che un cristiano può rendere alla comunità e questo valeva anche per i preti", però io penso che per un sacerdote sia più importante da svolgere carità che non politica) si fermò e cambiando espressione mi disse: "Coraggio, pensi alla mamma e continui a scrivere come ritiene giusto". Non dimenticherò mai le sue parole, il tono della sua voce pieno di pietas ed è lo stesso sentimento di condivisione che ho provato quando Rita Levi Montalcini avendo avuto la fortuna di conoscerla e intervistarla mi disse alla mia confidenza sulla malattia della mamma: "Mi dispiace che sua mamma abbia il Parkinson" e la sua voce vibrava davvero di comprensione consapevole.

 

 

 

 

 

 

 

Fulvia Bardelli

 

 

XLVIII Cammeo Il Cardinal Tettamanzi

in visita alla Casa di Riposo dove era mia madre:

"la politica o la carità del Sacerdote è il miglior servizio alla Comunità?"

Questa foto è stata scattata sulla scalinata del Liceo D'Oria in vigilia di maturità. In alto si vedono terzo e quarto da destra guardando la foto Pino Barreca ed Enrico Crocetta già nella pace del Signore. Come Ninetta Durand in seconda fila proprio al centro il cui faccino spunta tra le teste di altre due compagne. E non ci sono pù anche Maria Rita Vielmetti, Carlo Besta e Sergio Stecco come pure il marito di Puni, Sandro Minuto che avevamo accolto come fosse nostro compagno.

Per il resto era il momento dei sogni e della giovinezza splendente come attestano i sorrisi delle belle ragazze in prima fila. E quindi è un po' una foto in memoria di noi come eravamo.

E poiché il nostro Liceo D'Oria ha plasmato generazioni di giovani inserisco ora la recensione di un libro che un compagno di mia nipote Annalisa, classe 1966 e allievi in quello stesso nsotro Liceo ha scritto dedicandolo anche a lei: Il libro è Meridiano di Greenwich (edizioni Coosfera) di Carlo Musso.

Gina De Benedetti nel ricordo

di Miriam Piatrasanta Bossi - Bordighera 4 febbraio 1992

Gina amava mettere in contatto i suoi alllievi e quando fui a Milano per un anno e mi iscrissi alla Scuola Superiore delle Comunicazioni Sociali (l'anno dopo tornammo a Genova con la famiglia) mi mandò a conoscere Miriam che in questa lettera dice di rendersi conto che ho vent'anni meno di lei e che potrei essere sua figlia e che il ricordo da me scritto per Gina in morte non gliela restituisce appieno come l'ha conosciuta per  lunga condivisione di vita. Perciò metto qui le sue parole che mi sembrano bellissime e Gina è stata certo una delle insegnanti più amate da tutti noi allievi. Della lettera di cinque pagine ne riporto solo lo stralcio più significativo e riassumo in breve la sostanza di quella loro amicizia nel tempo. Miriam non trovava infatti sufficienti le mie parole (e a Gina ho dedicato un ricordo con i miei racconti nel libro le "Scrittrici") in quanto la loro conoscenza si era approfondita in oltre 50 anni d'amicizia: l'aveva conosciuta ancor prima d'averla insegnante al ginnasio e nei primi anni Miriam aveva "adorato" Gina, poi ne era nato un legame profondo e corrisposto che aveva coinvolto tutta la sua famiglia (sorelle, amiche) . Gina aveva apprezzato moltissimo anche il marito di Miriam e a me, ad esempio, disse che riteneva quel loro amore simbolo di un amore perfetto per la reciproca comprensione tra coniugi.

Ecco qui di seguito lo stralcio e poi  - umilmente -l'inizio di un mio articolo in memoria di Gina.

In questo bell'altare di Edoardo Rubino in marmo rosa con gli angeli stilizzati in preghiera di fianco la scritta dice: "Videte si est dolor sicut dolor meus"

C'è un piccolo cimitero montano a Laval (val Troncea) dove una lapide ricorda 97 minatori morti e dove la vita dura ha fatto pensare questa epigrafe con cui chiudo e di fianco metto la foto di una testa dell'artista Margherita Ricaldone. Chiudo così dopo aver fatto seguire alla lettera "Caro Papà" la foto di famiglia dei mei suoceri con i loro otto nipoti (e questo perché il "Caro Papà" inzia con una frase che mi suocera soleva dire), quindi  due lettere dei miei genitori quando si conobbero e poi tre foto a famiglia  ricostituita nell'immediato dopoguerra, dove in quella in cui bambina sono in spalla a mia madre con la testa fasciata si capisce la mia assoluta dipendenza da lei.

Donna Letizia diceva: "E' più intelligente il bimbo che a tre anni cammina sempre da solo anche da stanco o quello che preferisce farsi portare?"

Quanto al turbante di fasciature che ho in capo, avrò preso una botta cadendo e allora (metodo che poi usai anche con i miei figli) sulla botta si mettevano fette di patata e poi si fasciava.

Questa lettera "Caro papà" non so se l'ho spedita, né perché sia balzata fuori tra i miei articoli di giornalismo insieme a stanze di Montanelli, Cervi, scritti di Baget Bozzo come di Raboni. Non ho idea del perché e ora mi tocca inquadrarla per l'eventuale lettore.

 

Tre i momenti che intendo ripercorrere:

1) Mio padre ed io (nell'infanzia): due fiumi carsici nelle rispettive collere.

2) La clinica neurologica del prof. Loeb dove ricoverai la mamma per cinque giorni per mettere a punto la terapia per il Parkinson

3) Un articolo di Vittorio Zucconi in morte di suo padre: "Dite al vostro che è 'il migliore' , ha bisogno di sentirselo dire e io non l'ho fatto" si rimprovera il figlio giornalista.

Spero di essere sintetica e non "sbrodolare" nei ricordi dove uno ne tira un altro.

 

Mi piace ricordare ora due maestri di giornalismo che nella mia memoria sono accomunati dalla serietà come dal senso di humour. L'umorismo Andrianopoli lo esterna nelle sue polemiche con "Aristarco, fesso  giorno e notte"; Umberto Merani, esperto di economia, non mancava mai di riuscire a strappare un sorriso al lettore per come riusciva a parlare di ogni argomento fin il più serio e inoltre lo faceva sempre con grandissima umanità.

Mi capitò questo fatto al mio primo articolo proposto al Giornale a Massimo Zamorani (credevo di trovarvi Vassallo e invece questi stava male, così vi trovai Zamorani), e si trattava "dell'integrazione all'equo canone", argomento fuori dai miei interessi (salvo che genericamente il mio vivo interesse per "il sociale") ma per cui avevo avuto una dritta da un compagno "Dc" del mio Liceo di un tempo. Appena avuto da Zamorani il benestare scesi al bar sotto la redazione  (allora era in una via laterale a corso Buenos Aires) per prendere appuntamento, al telefono a gettoni,  con l'assessore Acerbi in Regione (sempre la dritta del mio compagno di Liceo). Un signore che stava sorseggiando un caffé al banco occhieggiava di soppiatto come ascoltasse la mia telefonata. Ne fui un poco infastidita e poi dimenticai. Scrissi l'articolo e un mese dopo averlo consegnato, Zamorani mi telefonò per dirmi che lo aveva ripescato in quanto Umberto Merani che si occupava della Regione l'aveva trovato interessante. Merani era il signore visto al bar.

Poi su proposta di Merani dovetti occuparmi in Regione dei Contributi europei per la Zootecnia che in Liguria non essendoci allevamenti venivano stornati per altro. Andai e dovetti tornare in Regione altre tre volte perché c'erano leggine che facevano riferimento ad altre precedenti e così mi toccava andare a ritroso per averle tutte sottomano e poter capire. Finito l'articolo dissi a Merani: "ho tutte le leggi, le interessano?" Insomma volevo dimostrargli che non raccontavo storie, ma lui imperturbabile mi guardò e poi il viso gli si spianò in un sorriso come chi sa d'aver combinato uno scherzo: "ma io le ho tutte le leggi" e pensai che avrebbe potuto darmele prima lui risparmiandomi l'andirivieni in Regione, anzi con vera improntitudine di chi incomincia a lavorare avevo osservato che guadagnare così poco per tre pomeriggi spesi nella ricerca più il tempo impiegato a scrivere mi sembrava una stranezza. Per quell'articolo vale anche un commento di mio padre: "Si vede che non è la tua specializzazione". Ora dovessi riscriverlo sarei in caccia del come venissero stornati quei contributi, allora manco avevo afferrato il nesso e l'esigenza etica per la Regione del non fare così.

Poi con Merani ebbi ancora contatto quando gli chiesi se potevo parlare del Difensore civico ed era un articolo che faceva lui per solito, ma me lo affidò senza batter ciglio e, quella volta, dopo che ormai mi ero conquistata un po' di fiducia dandomi tutto il suo materiale al riguardo. 

Poi ancora una volta che lui sostituiva Zamorani (il quale accentrava sotto di sé le giovani collaborazioni  e però insegnava anche..., faceva formazione giornalistica) e gli chiesi allora di poter parlare dei motorini truccati, argomento che in casa mia era diventato di moda causa un figlio appassionato di ciò e di gare. Quando consegnai e Merani lesse, disse: "Ce ne fosse uno al giorno di questi articoli". Anch'io avrei desiderato scrivere un articolo al giorno, ma non mi fu dato anche se poi riuscii a farne sempre cinque alla settimana collaborando però a giornali diversi. In quell'indagine sui motorini avevo scoperto parlando con un vigile il cui fratello giovane era morto in moto che quei pali e quei luoghi della città adorni di fiori dove è avvenuto un incidente loro li chiamano "i tabernacoli": sono i luoghi dell'offerta di una giovane vita al gran Moloch della strada, o i luoghi della Croce, loro e altrui, di chi resta a piangerli. Quel capo dei vigili in quella chiacchierata mi suggerì molti insegnamenti da dare a mio figlio.

Infine ritrovai  Merani in un momento in cui ero fuori dal Giornale e collaboravo al Settimanale cattolico . Veniva presentato in Provincia un libro su Pertini direttore del Lavoro (v. p. Politica: Sinistra, Destra) e c'era a presentare anche un emergente Veneziani che tenne un discorso fuori dal coro rispetto agli altri.

A Merani la mia indelebile gratitudine perché grazie a lui entrai a collaborare al Giornale anche se quella volta del libro su Pertini capii che mi guardava come volesse chiedermi qualcosa, magari "un perché". "Perché perde tempo nella stampa cattolica e non collabora più al nostro Giornale?", ma c'è anche un orgoglio silenzioso da patte della "vittima" e un guardare comunque avanti.

  

1) Mio padre ed io: due fiumi carsici nelle collere

Sono stata concepita in Sicilia dove mio padre era richiamato e portata a nascere a Trieste (cosa che spiega quel mio interesse nella prima delle pagine "Terre" per  la Sicilia che mio padre definisce "bellissima").

A Trieste mio padre arrivò che ero già nata, poi ci portò in Sicilia e quando avevo sei mesi lui dovette andare in Tunisia con il suo Reparto. Drammatica la lettera in cui descrive la notte in cui da capitano doveva predisporre la partenza del Reparto e quella di mia madre per il lungo viaggio fino a Trieste, da sola e con due bimbi piccoli, e il suo salto verso "il buio" come definisce il passaggio in Africa.

In Sicilia so che mi mettevano sotto un albero in un giardino di casa ed ero felice, mentre se osavano portarmi a spasso strillavo a più non posso. Amo la vita tranquilla.

Rividi mio padre a tre anni e mezzo a Bobbio dopo che le comari incontrandomi mi  chiedevano sempre: "quando torna tuo padre?" Si pensa che i bimbi dicano tutto, ma rispondevo: "mio padre è di pietra" perché lui aveva mandato una cartolina con una statua di faraone ad un ingresso e due sentinelle nere accovacciate al fianco di essa ed io avevo pensato che mio padre fosse quella statua. Così le comari curiose si zittivano con un "povera bambina, il papà non torna".

Poi tornò. Mi sottrasse la mamma che prima sentivo mia proprietà, non era zitto come il faraone di pietra. Sgridava e correva sempre con gambe lunghe come il vento ed io che dovevo corrergli dietro inciampavo e cadevo e lui diceva: "ma tua madre non ti ha insegnato a camminare?"

A Trieste mi vendicavo di ciò e quando mamma usciva per la spesa o altro, mi buttavo sulla porta d'ingresso a braccia allargate come un Cristo e gridavo finché lei non tornava. Mio padre era generoso, mi ha educato con severità ma anche all'ideale, alla voglia d'assoluto, all'umiltà e alla disciplina. Se c'era un'interrogazione importante mi svegliava alle cinque di mattina, aveva sempre pronto un libro in mano da darmi, un professore di rincalzo se a scuola veniva un supplente perché l'istruzione doveva essere il massimo, il meglio. Lui che aveva vinto un concorso ventenne e si era messo subito a lavorare poi non si laureò ed aveva desiderato di farlo in economia politica . Pensava che con un titolo di studio si è facilitati nell'avanzamento di carriera e nella vita.

Mi portò i libri accompagandomi a scuola fino alla maturità, con una breve sosta in Chiesa ogni mattina per una preghiera, lui che si confessava e comunicava una volta l'anno e che quando inziai a collaborare al Settimanale diocesano mi disse: "Non mi farai la bigotta..."

Papà non alzò mai la mano per uno schiaffo (e spesso mi son sentita dire che qualche schiaffo non mi avrebbe fatto male), però se disapprovava mi puniva con silenzi di giorni e mia madre cercava sempre di mediare, lei che magari inseguiva me e mio fratello con il battipanni come la signora Tordella intorno al tavolo di sala e poi si fermava a ridere con noi.

Quando mamma si ammalò di Parkinson e lo fu per 25 anni e quando la malattia progrediva e si faceva sempre più pesante, mio padre non delegava a nessuno l'assistenza. Mi chiese di andarla a tenere al posto suo quando dovette fare un ciclo di applicazioni di chemio ed una volta tornando a casa disse: "Un tempo correvo per strada più veloce di tutti, oggi mi superavano tutti, sono stanco". Però anche allora, pur sembrandomi incredibile, se ritenevo che per la mamma si potesse fare qualcosa di più, fronteggiavo mio padre e risentivo esplodere in me il "furore bambino".

Poi un giorno lui che credeva nella disciplina e riteneva che la mamma non dovesse saltar su dalla poltrona in cui stava seduta se squillava il campanello e con il rischio di cadute quasi certe (per lui era questione di autocontrollo, di disciplina) mi telefonò: "mamma si è alzata dalla poltrona, è caduta, non ho la forza di tirarla su, corri".

La mia casa era a mezz'ora d'auto da loro. Corsi con il cuore in gola. Mamma era seduta per terra e rideva come avesse combinato una maracchella, lui sbrigava le faccende in cucina. Allora dissi a mio padre che doveva portarla alla clinica universitaria del professor Loeb che l'aveva in cura per rimettere a punto la terapia tanto più che quando le veniva il momento di freezing era impossibile muoverla e sostenerla. Papà non voleva. Telefonai a Loeb che non ravvisava quella necessità, ma lo convinsi.

 

2) Alla clinica universitaria

Era la prima volta che mamma da ammalata andava a soggiornare e dormire fuori di casa, poi dopo la morte di papà avrebbe conosciuto la Casa di riposo ma fino ad allora era sempre stata protetta fra le quattro pareti. La portai in clinica nel tardo pomeriggio. Le diedero subito un diuretico e si bagnò tutta per cui dovetti cambiarla. Poi restai con lei per la cena e quando doveva prendere le medicine della sera venne un'infemiera con le mani piene di pastiglie. Le dissi: "Non l'ho mai vista prendere tante medicine così. E' sicura?" Andammo insieme a consultare il libro delle prescrizioni del dottore e si capì che l'infermiera aveva messo insieme quelle della sera e del mattino (e meno male che il ricovero era proprio per capire il dosaggio delle medicine...così se avesse preso quella dose sarebbe sato tutto inutile ed incomprensibile per il dottore curante). Mi pregò di non denunciarla. La pregai di star più attenta ma non credete che se un vecchio indifeso è affidato a mani terze e si protesta questi poi possa subire ritorsioni? Quindi non avrei denunciato in nessun caso.

Nella clinica mamma era in camera con una signora non anziana che aveva delle ferite in capo e la sorella sosteneva che fossero dovute alle percosse del convivente, uno straccivendolo e rigattiere. Poi vicino al suo letto c'era la signora Ricaldone che era caduta a terra per strada colpita da un ictus proprio quando si era appena comprata un paio di scarpe nuove. Il marito diceva che sua moglie era stata compagna eccezionale capace di farlo ridere anche nei momenti più cupi e dovunque. Progettava come portarla a casa ed attrezzarsi per affrontare la sua invalidità prima di una definitiva riabilitazione. Voleva mettere un maniglione nella doccia. Si era già informato. Parlava e teneva tutti allegri.

Un giorno che c'era il cambio di turni per la pausa pranzo e non c'era nessuno squillò il campanello, andai a vedere e dall'altra parte della porta lo straccivendolo mi pregava di farlo entrare. Dissi che non potevo e lo vidi molto amareggiato. Nel tempo si seppe che la signora aveva delle metastasi in capo e non ferite da percosse e non molto dopo morì. Anche la signora Ricaldone tornata a casa non visse a lungo, però ricevetti dalla figlia  Margherita, artista , alcune riproduzioni di sue opere eccellenti di scultura e pittura, non ricordo se in morte della mamma o poco prima, per gli auguri natalizi.

Un pomeriggio  che ero seduta vicino al letto di mia madre, il signor Ricaldone parlava a ruota libera per tener su l'atmosfera. Dovevo fare un articolo da consegnare a Pippo Zerbini al Giornale (uno dei giornalisti cui sono rimasta più affezionata per la sua correttezza e sensibilità) ed è stato l'articolo che poi ha avuto come titolo "Mille canoe al Porticciolo di Nervi". Mi attardavo a rispondere e non scrivevo e mia madre mi riprese severa: "Tu...fai il compito" e così feci.

Ma fu allora che scoprii il concentrato d'umanità, anzi l'esaltazione dell'umanità che s'incontra in questi luoghi dove si è accomunati dalla sofferenza.Poi la ritrovai alla Casa di Riposo dove incontrai la saggezza dei "vecchi" e promettevo: "quando non verrò più, vi ricorderò sempre e scriverò dei problemi e anche delle soperchierie che vi trovate ad affrontare".

Promessa mancata, però sarebbe da mantenere.

C'è tanto da fare per gli anziani come per i bimbi, cioè per i più indifesi.

3) Qualche volta dite a vostro padre:

"sei il migliore"

Ho riso quando la nuora, madre di  ben tre miei nipotini, mi ha riportato una frase della figlia, la maggiore, anni dieci, "che loro sono i peggio genitori che potevano capitarle". Era la bimba che da piccina se non vedeva la mamma subito piangeva (come facevo io da piccola quando gridavo appiccicata alla porta di casa a Trieste). Questo mi ha fatto riflettere su ciò che mi capitò al Giorno.

A me capitò di collaborare al Giorno alla pagina cultura e ne fui molto orgogliosa però dopo un poco mi accorsi che i pagamenti (di cui ero curiosa dell'entità) non arrivavano. Mentre non sapevo cosa fare, a chi rivolgermi, cambiò il direttore e al posto di Enzo Catania venne Guglielmo Zucconi. Allora gli scrissi dato che l'avevo sentito, riportandone buona impressione,  una volta che era venuto a parlare alla Scuola delle Comunicazioni Sociali della Cattolica dove aveva insegnato ma non negli anni in cui la frequentai io. Mi telefonò una segretaria d'amministrazione per dirmi che mi sarebbe arrivato un assegno e che i miei compensi erano stati equiparati a quelli dei loro migliori collaboratori anche tenendo conto che si trattava ormai di arretrati e che lavorando a Genova per certi articoli avevo  dovuto spedire foto. Era ancora un tempo in cui dettavo gli articoli per dimanofono e spedivo le foto per fuorisacco, non c'era il computer e non c'erano  le attuali tecnologie. Si scusò per Catania che aveva detto (pare): "Questa la facciamo collaborare ma non la paghiamo", infatti il giornale navigava  in cattive acque ed" il Giorno era una gran bella  vetrina per un giornalista che volesse farsi conoscere: cura d'impaginazione, intelligenza, professionalità autentica, ecc.". Poi mi capitò che quando cercavo altre collaborazioni e dicevo "al Giorno mi pagavano tanto così...", rispondevano: "Ma noi non possiamo" ed è chiaro che mi accontentavo di quel che davano.

Scrissi a Zucconi per ringraziarlo e avevo spedito da poco quando lessi che era ricoverato in ospedale dove morì e quindi non so se mai abbia saputo del mio "grazie". Poi lessi l'articolo del figlio Vittorio che si diceva dispiaciuto di non avergli mai detto. "Papà sei il migliore". Ripensai ad uno dei dialoghi con mio padre negli ultimi anni quando ero andata a trovarli a Bobbio e lui aveva preparato da mangiare anche per me, ma a tavola avvenne tra noi due una discussione e lui si alzò e disse: "Com'è la vita! Un padre può fare tutto ma i figli sono sempre della mamma". Mettere insieme le Lettere è stato un modo per dirgli in ritardo "papà eri il migliore come dicevi tu, scusami "

 

 

  

INDICE  IN MEMORIA

Annalisa Bressani mia nipote, 19 novembre 2010: Articolo su La Trebbia 25 novembre 2010

Foto Annalisa, foto mia e cugino Sandro bambini a Trieste

Sandro Bressani mio cugino  4 ottobre 2011 (omelia funebre) e di fianco foto Sandro e Chiaretta, sua sorella, da  bambini

Carlo Fontanini un giornalaio agosto 2010 e di fianco articolo che scrissi (grazie alle indicazioni di Fontanini) sui giornalai Il Giornale  27 dicembre 1985

Ninetta Durand Carpanini poesia della cognata Anna De Michelis  primavera 2004

A Chiccca Conte Bernardi poesia di Anna De Michelis  settembre 2013 e di fianco sua foto da sposa

Foto III C vigilia di maturità scalinata Liceo d'Oria

Carlo Musso Meridiano Greenwich con dedica "Alla mia famiglia e ad Annalisa"

Altare di Edoardo  Rubino  Chiesa Santo Edoardo di Sestriere: "Videte si dolor est sicut dolor meus"

Lettera di Emilia Maciocco Tassi mia insegnante alle medie donna pragmatica e comprensiva. Silvano D'Orba 7 agosto 1978

Tata: Tina Macellari vedova Cara, mancata il  12 dicembre 2007

Foto 2003 di Tina con Maria, mia prima nipotina

LX Cammeo. Il Cardinal Tettamanzi in visita alla Casa di Riposo dove era mia madre:

"la politica o la carità del Sacerdote è miglior servizio alla Comunità?"

Foto dalla Casa di Riposo dove mamma fu per quasi cinque anni

Miriam Pietrasanta Bossi ricorda Gina De Benedetti Lettera da Bordighera 4 febbraio 1992

Gina nel ricordo di M.L. Bressani in "A due Voci" di Scrittrici del '900 italiano, Lo Faro, Roma 1991

Paolo Antognetti, un compagno di Liceo, ricorda la "nostra" Gina nel suo L'arte di vivere a lungo Edizioni Mediterranee Roma 1996 

Foto di Fulvia Bardelli con il Nobel Samarago 

Fulvia Bardelli, la mia alunna Il Giornale 30 novembre 2012

LXI Cammeo. Due maestri di giornalismo: mons. Luigi Andrianopoli e Umberto Merani.

Una domanda: "perché perde tempo con la stampa cattolica e non è con noi al Giornale?"

Mons. Andrianopoli è ricordato  a M.L. Bressani. Il Giornale  1 ottobre 2011

Umberto Merani è ricordato da Rino Di Stefano Il Giornale 23 novembre 2006

Adriano Bausola il rettore che rese grande la Cattolica di Luca Doninelli Il Giornale 29 aprile 2000

Piero Raimondi è ricordato da Dario G. Martini Il Giornale 22 ottobre 1993

Papà ed io: due fiumi carsici

La clinica neurologica universitaria del prof. Loeb

Dite a papà: Sei il migliore

Caro Papà

LI Cammeo per me il più personale: Come finì la storia d Edi e Ida

Lettera Ida ad Edi nel 1934 (con foto)

Lettera Edi ad Ida nel 1934 (con foto)

Tre foto Ida e bambini immediato dopoguerra

Testa (scultura) di Margherita Ricaldone

Cimitero di Laval in Val Troncea (Sestriere- To): iscrizione sul frontespizio

 

    

Dato che la lettera precedente inizia con un accenno a mia suocera prima delle foto della mia famiglia d'origine inserisco questa di lei che si chiamava Lidia come la mia ultima nipotina insieme al marito, nonno Cesare. In foto guardandola da sinistra il mio Cesare (ma anche gli altri due nipotini in foto si chiamano Cesare), quindi in braccio al nonno il mio Edgardo e sotto di lui la mia Ida.

Con nonno Cesare ebbi fin dall'inizio un rapporto di grandissimo affetto data la sua unicità di galantuomo, nato a fine Ottocento (tutta un'altra pasta da chi veniva così da lontano ed era brava persona), con mia suocera un rapporto più tribolato finché un giorno  ormai poco prima che si spegnesse ebbe per me parole di grande apprezzamento che non riporto (eravamo quattro nuore e magari lei poteva aver detto  a tutte lo stesso complimento come Salomone con il suo anello). Mi sentii compresa e mi dissi mentalmente: "mamma, perché abbiamo perso tanto tempo prima di capirci?"

Voglio anche conlcudere su come finì la storia di mio padre e mia madre: in breve perché ne ho già scritto nelle Lettere.

 

 

 

 

 

Era l'anniversario del loro 56esimo di matrimonio e da Bobbio dove erano non rispondevano al telefono. Fu Ottavio, allertato, ad andare a vedere e a trovarli riversi sul pavimento: a mio padre era venuto un ictus mentre accompagnava la mamma in bagno, di notte.

Lo raggiunsi che era già ricoverato a Piacenza per una Tac e il giovane medico mi disse allora una cosa che "proprio mi mancava". "Suo padre ha già avuto degli ictus-ischemie acute, due o tre, ma suo padre non deve essere così intelligente come ritenete voi figli perché ha il cervello piccolo come quello di una donna". Questa notizia mi mancava, era certo la più importante in quel momento!.

Poi papà tornò a Bobbio in ospedale e lì mi disse: "vai dalla mamma (anche lei ricoverata all'ospedale), lei ha più bisogno di me".

Dopo qualche giorno li portammo a Genova: la mamma nella Casa di Riposo in camera a due letti dove papà avrebbe potuto esser messo per la riabilitazione, lui alla clinica neurologica. Passò da lui mia nipote Annalisa, dottoressa, per fare il foglio di ricovero e mio padre le chiese: "Cosa ho?". Lei tergiversò, ma lui le strappò di mano il foglio e lesse. Chiuse gli occhi, zitto di colpo. Ormai sapeva e la mattina dopo  - lui così indipendente - era in coma profondo. Circa un mese dopo dissi al medico che l'assisteva: "Mio padre capisce, ne sono certa, sembra ascolti i nostri discorsi e quando c'è mamma lui si acquieta, diventa tranquillo (poco prima aveva avuto la febbre alta, smaniava, ecc.)" Il medico rispose: "paradossalmente lei ha ragione". Uscii dalla stanza dove erano rimaste Annalisa e la sua mamma e avevo il cuore che cantava.Speravo. 

Fu il miglioramento di cui si racconta che interverrebbe prima della fine? La mattina dopo mio padre non era più.

A me rimaneva il dolore di non essergli stata vicina nel momento in cui se ne andava, lo stesso dolore che provai per mamma che si spense in Casa di Riposo dove essendo di sabato giorno in cui nel pomeriggio andava mio fratello l'avevo lasciata al mattino dopo averle fattto bere una cioccolata calda da una macchinetta.

Mamma si spense soffocata, al pranzo con la ragazza peruviana al fianco, dato che come poi capii con Giovanni Paolo II avremmo forse dovuto farle fare una tracheotomia, ma nessuno ci aveva avvertito di ciò.

E penso ad un'altra figlia, Tullia, che  invece in quella Casa di Riposo tenne nell'agonia della mamma  per cinque ore la sua mano  tra le sue, mentre un vecchietto, un altro ospite, turbato dal'atmosfera di morte incombente si soffermava davanti alla porta aperta della stanza masturbandosi.

Poi invitai Tullia alla presentazione dei tre espistolari di guerra, lunedì 23 aprile 2007 alla Biblioteca Universitaria, tra cui quello di Padre Gheddo su  suo padre capitano in Russia e Tullia mi disse: "Come facevi a sapere che mio padre era anche lui in Russia?" Non lo sapevo ma quel libro le fece del bene come un buon libro può farne tanto, basta leggere!

Della Casa di Riposo metto qui un ricordo che scrissi in note nelle Lettere dato che ho letto che in questi giorni a Genova è in corso una Mostra sul Rex.

Pasquale Vasquez (è il signore che mi disse che mamma non riusciva a mangiare da sola) aveva suonato a lungo sul Rex. Suonava ancora in Casa di Riposo, iniziava sempre con La strada nel bosco, dedicandola alla mia mamma poiché era stata la canzone sua e di Edi e subito dopo attaccava con Mamma. "Vasco il nostro amico" così lo chiamava Elvira Felisi, dagli occhi azzurri,amica del pittore Novello di cui ci raccontava, e  compagna di camera della mamma. Elvira aveva il buon uso di lavarsi i piedi prima di andare a dormire e non essendoci bidet doveva farlo alzando la gamba fin nel lavabo, cosa quasi da acrobata perché piccolina e rimasta com'era in gioventù quando la chiamavano "bambolina". Era anche accanita fumatrice ed io ero pregata di dire alle infermiere dove nascondesse le sigarette (lo faceva sempre in posti diversi) perché temevano potesse provocare un incendio notturno. Qualche volta lo feci, ma non sempre perché mi spiaceva tradirla e so che di notte si alzava per quietare la mamma che tremando faceva tintinnare il letto di ferro.

Questa ricchezza umana è il bello di luoghi come questi per i vecchi spesso tanto soli in famiglia.

E quanto all'episodio orrido della morte della mamma di Tullia, che era stata ottima pianista, la morte come la vita dovrebbero avere una sacralità e invece spesso così non è. Si può anche pensare però alla mescolanza di sacro e profano, all'odore che saliva, ad esempio, dalla porcilaia dove Grotowski, il polacco inventore del Teatro povero, si nascondeva per leggere il Vangelo, allora libro proibito da loro in Polonia.  E penso soprattutto ad una frase di Giovanni Raboni:"...Credo nella Comunione dei vivi e dei morti: è l'unica forma di fede che conosco". Una madre in agonia appartiene già a quel mondo degli assenti, ma nel dialogo con loro che c'è allora anche senza parole e che sopravvive nelle parole dei nostri morti che continuiamo a risentire in noi si realizza la più autentica religiosità, come pure l'uomo non è solo spirito, anche materia con il suo peso: sacro e profano, indissolubilmente uniti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L Cammeo, il più personale:

Edi e Ida come finì la loro storia.

Poiché prima della Lettera di Emilia Maciocco Tassi che tanto mi confortò dicendomi di suo marito anche lui afflitto dal Parkinson ma morto di altra malattia, ho parlato della Casa di  Riposo dove mamma trascorse quasi cinque anni dopo esser rimasta vedova, inserisco qui alcune foto di quel tempo.

La prima riguarda l'estate del 1994 a Bobbio, prima estate da vedova. Con lei Ottavio, uno dei tre moschettieri di mio padre a Bobbio, la moglie Marta e sulle ginocchia di mamma il loro nipotino Manuel che è stato protagonista del cortometraggio vincitore alla Festa del film per la Scuola a Roma (v. p. "Cinema" e anche pagina "Terre 2: Bobbio".

Quindi al compleanno dei suoi 82 anni in Casa di Riposo con mio fratello Ferruccio e Vittoria la ragazza peruana che le avevo affiancato.

Quindi mamma con Fedora che aveva un negozio di tessuti e che rimase vedova quando con suo marito stavano per compiere un viaggio anniversario. E' la signora che voleva regalare i sigari al cardinal Tettamanzi e guardate con quanto affetto tiene la mano di mamma. Quindi mamma ed io nella sua ultima estate a Bobbio dove appunto la portavo ogni estate (morì nel '98  il 10 gennaio) e vedete che è ferita sopra l'occhio: mi era caduta mentre le facevo vedere qualcosa da un cassetto e mentre io ero girata con la sua solita incredibile leggerezza (che contrastava con i momenti di blocco totale quando diventava pesante come granito) si era alzata dalla sedia e subito era caduta. Ecco perché una Casa di Riposo attrezzata è spesso meglio del soggiorno a casa dove gli incidenti si moltiplicano. Per fortuna al pronto soccorso le diedero solo dei punti. A fianco Pasquale Vasquez che ricordo appunto a fine di questa pagina quando torno a parlare della Casa di Riposo, il signore che suonava sul Rex in una foto di gioventù che ci regalò.

Ora ricordo prima Tata e poi di nuovo Gina De Benedetti che una volta chiamai "mamma" perché è stata un'altra mamma, spirituale, come tanti per noi del ginnasio al D'Oria.

 

Tata: Tina Macellari Cara mancata a 93 anni il 12 dicembre 2007

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Torno al discorso "importanza delle Case di Riposo" purché funzionanti e purché diventino accessibili non solo ad un ceto medio che ha risparmiato tutta la vita e che talvolta per permettersi quell'asilo deve vendere la propria casa.

In quella dove misi la mamma c'era una "Tata" che i signori o datori di lavoro (chiamateli come volete), grati per l'aiuto che avevano da lei ricevuto, aiutavano a pagarsi la retta della Casa supplendo a ciò che la pensione non arrivava a coprire. Si chiamava Maria.

E qui voglio ricordare Tina Macellari, vedova Cara, donna di Ponte Organasco in Valtrebbia (quindi la valle della mia mamma) che appunto mia madre mi aveva affiancato quando dovevo trascorrere la gravidanza in riposo assoluto per non perdere il bimbo che aspettavo. Poi è stata una bimba, Ida cui abbiamo dato il nome di mia madre. Tina si fermò da me con un'assistenza per varie ore della giornata finché il mio terzo figlio compì tre anni, poi continuai da sola pur se può sembrare démodée per una donna che ha studiato e che anche lavora (da giornalista sempre 4 o 6 articoli di ricerca alla settimana, cioè articoli per cui ci si deve documentare).  Tina era venuta da me già in età, voleva esser chiamata "Tata" e nel periodo che ci aiutò nella collaborazione domestica si sposò (a più di 65 anni) con un grande invalido di guerra che era suo padrone di casa e che voleva  lasciarle la possibilità di vivere nell'appartamento che aveva nel centro storico in via della Maddalena a Genova. Ma Tina allora non mi disse del matrimonio per pudore. Me lo raccontò prima di morire.

La storia di Tina è questa per sommi capi: figlia di primo letto, suo padre rimasto vedovo, si risposò e per altro Tina fu anche affezionata ai nuovi fratelli, però da Ponte Organasco venne a Genova poco più che diciottenne per non sposarsi in un matrimonio  imposto. Si mise a lavorare in una mensa (cucinava benissimo). Da me quando non avevo ancora bimbi ed ero immobilizzata a letto mi faceva a mezzogiorno minestrine varie e mi fece scoprire quanto è buona la tapioca. Al pomeriggio cuciva bottoni alla federe del mio corredo che se no sarebbero rimaste per sempre senza. Quando ci fu l'alluvione a Genova andò a piedi da Nervi fino a casa sua, appunto nel centro storico, con un altro gruppetto di lavoratori. Quando in seguito toccava a me cucinare, lei  che era frugale amava pane e noci, ma so che una volta la sentii racontare di come fosse buono il mio "bagnetto verde" che le avevo fatto apposta. Quando un giorno le chiesi se poteva tenermi per un poco la bimba (di pochi mesi) perché prima che la farmacia chiudesse volevo andare a comprare il mangiare per lei (cioè la farina lattea), Tina commentò: "E brava se adesso va a comprarle il cibo in Farmacia...".

E Tina era anche rigorosa per le buone regole: ad esempio se dopo aver messo a posto trovava in giro giocattoli di bimbi li sgridava: "Cos'è la terra? il guardaroba grande?" Insomma non le mandava a dire.

I bimbi nei loro primi anni tendevo a non volerli lasciare mai, fu Edgardo, il terzo, che lasciai a dieci mesi per insegnare. Così mi capitò di dirlo alla mamma di una compagna che commentò: "Ah, allora è lei quella che per non lasciare mai la figlia  ieri se l'è portata in discoteca e l'ha affidata alla guardarobiera..." (Non ero io ma ricordo bene come sposa a 21 anni allora e per anni mi fossi sentita un po' limitata benché avessi scelto io di sposarmi rispetto a compagne molto meno impegnate e quindi più occupate in svaghi).

A mio figlio il più piccolo che talvolta d'estate Tina accompagnava a Bobbio (lui era già liceale e poi studente universitario e io lavorando non potevo) non mancava in seguito quando andava a trovarla di fargli il pesto e per tale scopo faceva correre un suo nipote  a comprare il basilico speciale in un negozietto della Maddalena.La foto che inserisco qui sotto è della mia prima nipotina, Maria, figlia appunto d'Edgardo che questi le portò in visita quando aveva pochi mesi.

Poi Tina, che raggiunse più di 90 anni, un giorno cadde e la portarono al Galliera. Il nipote, quello del basilico, me lo fece sapere subito e andai di corsa a trovarla. Era sera  d'inverno e il padiglione stava in un posto isolato. Tina quando stavo per tornare a casa era preoccupata per me  che al buio non mi capitasse di fare brutti incontri. Poi, per la riabilitazione, la portarono in un luogo che è a qualche fermata d'autobus da casa mia e così lì andavo ad aiutarla a mangiare e lì mi disse che quando si erano dichiarati con il marito, il signor Cara, decidendo di sposarsi, lei era arrivata da lui con un mazzo di violette e lui l'aspettava pure con un mazzo di fiori. E poi aggiunse: "Era il momento di esser felici, invece il figlio di Cara morì e poco dopo il padre, non reggendo il dispiacere, lo seguì".

Tina da giovane aveva avuto fama d'esser bellissima però mi racontava di quando ad una balera estiva un ragazzo le aveva chiesto di ballare dicendo: "Tu grassa vuoi ballare con me?". Invece Tina era alta, snella con belle gambe , soltanto il  seno un po' rilevato e un'innata distinzione ma questo apprezzamento per spiegarmi che dalle sue  parti l'ambiente contadino era un po' rozzo mentre in città c'era più educazione.

Nella stanza dove l'avevano messa a Quinto, nella Casa Protetta di  via Bolzano, per la riabilitazione c'era una simpatica figlia, Roberta, che  abitava vicino a me,  e teneva compagnia alla sua mamma lì ricoverata. M'informava se dovevo correre o se Tina non aveva troppo bisogno.  Un giorno  a Tina volevano farle una Tac ma non c'era verso di convincerla e diceva: "Cos'è questa storia? Non si può far vedere proprio tutto di sé".

In quel periodo mia figlia Ida aspettava la sua Lidia e dato che era la mia primogenita e Tina le si era affezionata quasi fosse figlia sua e anche perché le piaceva come carattere, sostenendo che "Idina ha il senso del giusto", mi ripeteva spesso: "Mi sembra così lunga questa gravidanza, non vedo l'ora di stringere la sua bimba tra le braccia". Lidia nacque il 20 febbraio 2008 e Tina  era morta il 12 dicembre 2007 perciò quel suo grande desiderio non si realizzò: si spense nella carrozzella dove la lasciavano dopo il pasto per facilitare le digestione e quella volta le avevo dato da mangiare io così quando mi chiamarono la trovai ancora lì come dormisse.

La foto di Tina davanti alla  casa di suo padre a Ponte Organasco me l'ha regalata un altro nipote che abita nel piacentino e con la moglie sono venuti a trovarmi a Genova apposta per farmi scegliere quelle che volessi.E ancora quest'anno quel nipote mi ha telefonato per gli auguri di Natale.

Al funerale a Ponte come chiamava il suo luogo natale il prete disse che si era fatta voler bene ed apprezzare dovunque aveva prestato servizio e fu una dolce, commossa cerimonia tra la gente del posto, parenti ed amici. 

 

"Avete mai camminato col vento nelle orecchie e intorno la luce del sole che improvvisamente splendeva di un segreto fulgore?

....Tu andrai attraverso la terra, o anima forte e attraverso innumerevoli cieli..."

Da Spoon River: Arlo Will

 

 

 

Emilia Maciocco Tassi, mia insegnante alle Medie,

donna pragmatica e comprensiva

Lettera da Silvano d'Orba 7 agosto 1978

 

XLIX Cammeo. Due maestri di giornalismo:

mons. Luigi Andrianopoli e Umberto Merani.

Una domanda: "Perché perde tempo con la stampa cattolica

e non è più con noi al Giornale?"

Umberto Merani

è ricordato in morte da

Rino Di Stefano

Il Giornale 23 novembre 2006

Pensando alla lapide del Cimitero di Laval

in Val Troncea che chiude questa pagina "in Memoria"

Cesare e Lidia Ferrero e i loro 8 nipoti

Paolo Antognetti, un compagno del mio Liceo

ricorda la "nostra" Gina nel suo "L'arte di vivere a lungo - per ringiovanire, per non invecchiare, per vivere meglio" Edizioni Mediterranee, Roma 1996

Due parole di introduzione: Paolo, figlio di professore medico, è stato uno dei più giovani professori unversitari dei suoi tempi e dopo esser andato a lavorare nella Silicon Valley, tornò  come Direttore di Ingegneria Elettronica all'Università di Genova (v. anche p.16: "Guide"), ma si è anche dedicato alla studio e alla diffusione di filosofie e pratiche di cura orientale e di alimentazione naturale, ora è imprenditore in Svizzera.

In questa p.131 del suo libro ricorda di aver partecipato ad un Seminario che applicava il metodo della psichiatra Elisabeth Kubler-Ross sul tema della "tanatologia" per cui chi ha assistito per anni malati in punto di morte, constata che diventa per se stessi un cammino di compimento di ciò che avevamo lasciato come a mezz'aria: non c'è contraddizione tra la guarigione interiore di chi assiste e la morte fisica dell'assistito. Le persone in punto di morte o per anni gravemente malate stimolano le nostre pene interiori e la nostra stessa paura della morte. Sono paure da risolvere e secondo il metodo della psichiatra un artificio spicciolo ma immediato per portare alla luce frustrazioni ed esorcizzarle è percuotere violentemente con un bastone un cuscino immaginando al suo posto una persona che ci ha dato "fastidio" fino ad arrivare alla liberazione del "perdono, il saper perdonare". Così Paolo si trovò a percuotere anche lui quel cuscino ma mentre vi imaginava un antico compagno di giochi o un collega o uno sconosciuto automobilista sentiva di scendere ad un livello "assai basso della sua personale scala di valori", finché immaginò di percuotere la sua antica insegnante del ginnasio, Gina appunto, fino ad una catarsi che si ritrova nel perdonare e perdonare se stessi. Ecco le sue parole.

Gina nel ricordo di M.L.Bressani (ricordo in morte dell'89

inserito in "A due Voci" racconto per lei in Scrittrici del '900 italiano,

Lo Faro, Roma 1991)

Immagine di felicità e  poesia
eri quando la prima volta ti vidi...
un angelo caduto dal Cielo
affascinata dall'Amore.
Odiavi l'ingiustizia e la superficialità
e, come me, avresti voluto
redimere il mondo.
Ma quanta fatica e sofferenza
nonostante il sorriso dei bimbi.
Non noi e i nostri affanni
possono salvare un mondo che va...
alla deriva.
La follia del secolo tentò di travolgerci!
Ma noi, constanti in fede ed amore,
in terra o in Cielo,
non lasceremo mai chi
ci ha guardate una volta
con gioia ed amore sincero.
 

Chicca

  Anna De Michelis   2004

Anna De Michelis 2013

L'articolo che avevo potuto scrivere sul Nobel Samarago era stato sul Corriere Mercantile 25 maggio 2000 poi come accenno in questo articolo e racconto in altra parte del Sito non mi fu possibile raccontarne di nuovo all'occasione della fulgida foto sopra scattata

Adriano Bausola

il rettore che fece grande

la Cattolica

di Luca Doninelli

Il Giornale 29 aprile 2000

Ricordo di mons. Luigi Andrianopoli Il Giornale 1 ottobre 2011

Le avevo mandato il mi primo libro Begonza edito con Lalli nel 1978 e di cui avevo avuto 40 copie e senza alcuna pubblicità l'editore ne vendette tre (una la comprò una mia compagna di Liceo) le mie copie le regalai, anni dopo  ricevetti le altre invendute per svuotamento magazzino da parte dell'Editore stesso e le misi quasi tutte in un cassonetto della spazzatura. Bellissima però secondo me la prefazione a quel libro da parte di Angiola Sacripante che lavorava per Lalli e quello che capitò a me succede spesso oggi che tanti pubblicano ma è come se avessero trovato uno stampatore o tipografo delle loro carte e non un Editore che valorizza il testo e l'autore e si batte per diffonderne l'opera e la fa arrivare nelle librerie o oggi anche nelle edicole.

A fianco Tina con in braccio Maria figlia di Edgardo; sopra Tina che stringe un'anatra tra le braccia come fosse un bene prezioso ed è davanti alla sua casa natìa in Valtrebbia

Ricordo di Fulvia il Giornale 30 novembre 2012

Piero Raimondi è ricordato da Dario G. Martini

Il Giornale 22 ottobre 1993

Il 5 di ottobre di quel 1993 era appena mancato mio padre e, nel leggere un articolo in memoria, a dieci anni dalla morte riguardante il mio professore di italiano  al liceo, aggiunse dolore  a quello profondissimo per il mio papà. 

Ripenso però a Raimondi con le parole di Ludovico Ariosto per  Gregorio da Spoleto:"mi fu più che padre" perché l'aveva aperto alla vita dello spirito e a Raimondi devo le basi di quell'amore per la letteratura (prima della maturità ci portava ciclostilati testi dei quattro grandi del Novecento: Saba, Ungaretti, Quasimodo, Montale  ancora quasi  mancanti dai libri scolastici di testo) che poi ho coltivato nel tempo, per tutta la vita.

E se devo l'interesse costante alla scrittura femminile è stato per la spinta di Raimondi: è stato lui a suggerirmi come esercitazione-ricerca da presentare all'Università quella sulle scrittrici del Rinascimento, in particolare su Gaspara Stampa - che per altro detestai perché "chiusa nell'orto chiuso del suo amore per un uomo" mentre nel mondo l'amore può indirizzarsi a temi anche più grandi, molto più gandi del rapporto uomo-donna e proprio ogni giovane donna fin da bimba dovrebbe essere educata a sognare sì il suo amore e di diventare sposa e mamma, ma deve anche sapere che può avere un altro ruolo nella Società, come in effetti ha sempre avuto: un ruolo determinante di guida, del segnare la via, anche quando le donne erano molto più ignoranti di quelle di adesso e svolgevano lavori umili.

Poiché in questa omelia funebre per suo fratello Sandro viene nominata mia cugina Chiaretta, ve li propongo insieme e potete notare la facetta da "sbira" della cuginetta (che più piccola del fratelll di un paio d'anni si è messa su un gradino più alto per sovrastarlo o almeno essere alla pari) e quella da "buono" di Sandro.

Chiaretta mi è molto cara perché è la mia unica cugina mentre di cugini maschi abbondo quasi fosse Rosa Campbell e gli otto cugini libro della mia memoria infantile.

Chiaretta dagli splendidi occhi grigio acqua di nonna Gisella.

Questa l'omelia funebre per mio cugino Sandro detta in una Chiesa sul lungomare di Barcola e poi il figlio Lorenzo ha sparso in mare le sue ceneri.

Carlo Musso Meridiano di Greenwich con dedica:

"Alla mia famiglia e ad Annalisa"

Il Liceo D'Oria ha formato generazioni di allievi che nel tempo conservano spesso un forte legame.Carlo Musso, classe 1966, mentre sta scrivendo questo suo nuovo libro Meridiano di Greenwich (ed. Coosfera) apprende che Annalisa, sua compagna in quel liceo, poi dottoressa dietologa e mamma di quattro figli, sta morendo di cancro. La storia d'inizio, prima di altre sette, gli ricorda, pur ambientata in anni lontani e in America, la vicenda della cara compagna di un tempo. La modifica un poco per fare una di due storie umane. Poi, una volta edito, invia il libro che porta la dedica "alla mia famiglia e ad Annalisa", ai genitori di lei, sperando - come spiega con sensibilità nella lettera allegata - di non rinnovare troppo il loro dolore.Un libro originale, profondo, conciso. L'autore, un giovane laureato in fisica, vive a Roma con moglie e figlio, è responsabile del Centro studi di Finmeccanica, ma ha già registrato successi di pubblicazioni: il suo Fil Rouge è stato finalista al XXVII Gran Giallo Città di Cattolica.Le sue otto storie iniziano tutte alla stessa ora, che però in riferimento al Meridiano di Greenwich è diversa nelle varie parti del mondo dove si stanno svolgendo. A quattro ore dall'inizio ognuno dei protagonisti incontra la Morte.La storia di Lisa, la prima, si volge in California dove la protagonista ha vissuto e lavorato da infermiera, dove nella stanza in cui si sta spegnendo ascolta musica jazz che le ha sempre messo allegria. Pur se in quel momento il dolore- e ad esso non ci si abitua- è una bestia "che ti mangia la pancia dal di dentro". E lei, Lisa come è stato per Annalisa, prova "voglia infinita d'incontrare Dio per tornare a casa".Non parole a caso: ognuno dei protagonisti delle storie si troverà poi a rapporto da Dio.La seconda storia ci proietta al momento dell'assassinio di John Kennedy. Ne riviviamo l'emozione per il riaffiorare di particolari incisi nella memoria: dal tailleur rosa di Jacqueline che, nell'attentato quando si trova a reggere non il capo ma il cervello del marito che ne è fuoriuscito, s'inzuppa di sangue. E lei quel tailleur poi non vuole toglierlo, dice: "il mondo veda cosa ha fatto Dallas a mio marito". Anche queste non parole a caso: Kennedy era in tour elettorale in un Sud che lo accolse con feroci scritte "contro". Gli Usa, come la nuova Europa, un Paese somma di tanti Paesi, di contrasti accesi, di mentalità diverse.E poi c'è Ginevra del Cern dove Zichichi ebbe l'idea di far lavorare insieme scienziati occidentali e del blocco comunista. Quel Cern proposto nel 1949 dal Nobel Louis De Broglie che registrò il primo esperimento nucleare nel 1957 e costituì la nuova frontiera delle particelle elementari. A Ginevra i due giovani ricercatori di questa storia non solo si dicono che "al Cern si costruisce il vero futuro d'Europa al di là delle ideologie", ma si soffermano a discutere con passione del gioco del rugby e degli All Blacks nel loro tour britannico del 1963. Il rugby assurge a simbolo di coesione al di là di quanto i gallesi erano soliti dire: "gli inglesi ci prendono il nostro carbone, la nostra acqua, il nostro acciaio, si comprano le nostre case e ci stanno solo un paio di settimane l'anno". Però finita la partita gli atleti siedono alla stessa tavolata: "uomini, uguali nella dignità, diversi nell'identità".A proposito di "umanità", il ricercatore racconta del professore di filosofia che mostrò agli allievi un barattolo riempiendolo di ciottoli. Chiese se fosse pieno, risposero "sì", allora aggiunse sassolini (nella famiglia umana: lavoro, studio, cultura) e il barattolo sembrò più pieno, poi aggiunse sabbia (divertimento e altro), infine un allievo, giocatore nella squadra di rugby, fece saltare il tappo di una Guinness e ve la versò dentro, dicendo: "nella nostra vita, zeppa d'impegni e cose importanti, c'è sempre posto per una birra con gli amici".Un libro ben documentato. Dalla storia che si svolge in Cina apprendiamo che il condannato a morte deve pagarsi fin la pallottola d'esecuzione; dal racconto tra gli aborigeni il loro Dio, il serpente arcobaleno, ci sembra ben vero, anzi uno modo profondo in cui l'Eterno si è fatto conoscere loro come tratto dal sogno degli antenati. Dal linguaggio scarno, scientifico o cronistico, emergono molti temi profondi: la sana competizione che spesso degenera in guerre, una giustizia da essere riparazione all'offesa, lo scandalo dell'aborto... Poco più di 120 pagine, un libro giusto, a misura d'uomo moderno che va di fretta, ma pagine piene di senso della vita e dell'uomo. Inoltre sorrette da interessante bibliografia, inclusi Siti Internet.Permettete un ricordo personale. Al mio ginnasio al D'Oria Gina (=Regina) De Benedetti, l'insegnante di Lettere già direttrice della scuola ebraica, ci definiva la prima classe al livello culturale di quelle prima della distruzione della guerra. Leggendo questo libro di un giovane, generazione dei "figli", trovo che rispetto a noi ci sia stato un forte salto di qualità. Ritengo perciò il nostro Paese, al di là di ogni crisi, possa ben sperare. Maria Luisa Bressani

Il Liceo D'Oria di Genova

“Gli editori si aspettavano un aumento di centomila posti vendita, ma fu un flop e la diffusione crebbe solo del 2% senza compensare le spese affrontate. Anzi negli ultimi dieci anni in provincia di Genova hanno chiuso 50 edicole”, spiega Romano Ramos che ebbe prima un’edicola in via Galata, poi per 41 anni nel negozio di Albaro di fronte ad Odone e che è presidente del sindacato giornali Snag-Confcommercio (sede in via Cesarea 8). “Molti poi hanno rinunciato, non valeva la candela alzarsi alle cinque di mattina, ma una successiva legge sancì che solo chi aveva fatto quella sperimentazione poteva vendere giornali e acquisirono un diritto per legge”. “Duro tuttora il lavoro dell’edicolante”, tiene a precisare. “Sveglia all’alba per ricevere, disporre i giornali e fare le rese, rientro alla sera tardi; nei chioschi orario continuato perché è più faticoso ritirare i giornali e riposizionarli per il pubblico che prendersi la pausa pranzo; niente week-end, cinque feste l’anno e 15 giorni di ferie”.

“Almeno qualche volta ci facessero una festa” era il rimpianto della settuagenaria Enrichetta.

“Una festa l’abbiamo avuta. Il 20 settembre ’92 per sensibilizzare gli editori, in accordo con le organizzazioni sindacali Repubblica-Il Lavoro ci organizzò una minicrociera lungo la costa ligure sulla motonave Corsica Regina”.

“Ebbe successo?” “Per le presenze sì, era tutto pagato, ma non cambiò niente! Tenga conto, quanto a concorrenza, che la legge proibisce all’edicolante di favorire un giornale e chi trasgredisce può esser punito con il carcere”.

Per inciso, dalla parte del lettore, ricordo che il nostro Giornale fuori dal coro ha sempre incontrato ostacoli e, di recente, fin nelle rassegne stampa della Rai. Restiamo un manzoniano Paese di Azzeccagarbugli.

Ora il più antico edicolante di Genova, pur se ha di poco passato la sessantina, ma come impresa la sua  è quella da più tempo iscritta alla Camera di Commercio (stando ad una ricerca della gentile signora Galleano), è Pierluigi Deferrari con l’edicola in via Piacenza. Mi dice: “Mia madre aveva nel 1932 due edicole: questa che poi passò a mio fratello e l’altra a San Gottardo, data a mia sorella.  Aiutavo la mamma fin da quando avevo 12 anni, sostituendola al pomeriggio, poi, pur studente d’ingegneria, per necessità dovetti subentrarvi a tempo pieno. Adesso vendo circa 250 copie, fino a qualche anno fa 500. Compenso, in parte ma non del tutto, con la vendita dei settimanali. I giovani leggono solo sport e per le notizie vanno su Internet. Però i tanti amici e il rispetto incontrati sono per me gran soddisfazione pur se mia moglie sogna che andiamo in pensione. Da alcune settimane siamo diventati nonni di Flavio, nato a Roma dove lavora nostro figlio, laureato in filosofia. Per fortuna, da quando con la copertura del Bisagno ci siamo spostati in un negozio, è un’altra vita. Apriamo alle 6, ma possiamo tirar giù la saracinesca per la pausa pranzo e abbiamo più spazio”.

Vorrei chiudere questo sguardo veloce sul difficile mestiere dei giornalai – tanto lavoro, poche feste, introiti in calo e lo star sempre in pubblico, sempre al servizio degli altri – ricordando l’affetto che il più piccolo dei miei tre figli ebbe per il giornalaio di Nervi. A mio figlio Fontanini mise in mano alcuni dei mitici fumetti che sono stati la fantasia, il parco-sogni, forse la più profonda alfabetizzazione del Novecento. In casa mi è rimasta una collezione di X-men, Fantastici Quattro e inserì diverse slides di Topolino nella sua tesi ad ingegneria. Ricordo il giorno della sua laurea quando una giovane professoressa Paola Girdinio (oggi preside di Facoltà), con sensibilità femminile, le commentava sorridendo con l’austero collega in modo che l’allievo non incappasse in qualche incomprensione. Mio figlio continuò ad andare a trovare Fontanini in pensione anche quando ormai lavorava a Torino in Fiat (unica Fabbrica che allora assumeva perché i tempi di crisi sono sempre stati). Ne conobbe il figlio Massimiliano, laureato in legge, oggi con un posto dirigenziale, ma che non ha mai voluto fare l’avvocato ritenendo “si debba essere troppo cattivi”. Tornava da quelle visite pieno d’ammirazione per il giornalaio: “Sapessi che cultura ha quell’uomo, com’è profondo”. E condividevano la passione per la musica perché Fontanini aveva diretto un complesso di fisarmoniche. Penso che con mio figlio e con altri ragazzini e ragazzine del quartiere il giornalaio si sia comportato come se offrisse loro il nostro mondo tale quale ci balza incontro annunciando il Tg1.  Finestre che s’illuminano su luoghi, fatti e persone. Grazie Fontanini, caro amico nostro e di molti nerviesi.           

                  Maria Luisa Bressani

 

      
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