top of page

Questo sopra è stato il mio primo articolo suscitato dalla pietas e di fronte al magnifico Trebbia che pur sapendolo da racconti materni non potevo credere così pronto a trasformarsi in tragedia. L'articolo, 1978, mandato anonimo tramite un mio figlio bambino, fu pubblicato a fianco alle parole del Vescovo ma devo ad allora il pensiero di scrivere per gli altri e diventare giornalista. Nel '78 era direttore alla Trebbia, settimanale diocesano di Bobbio, il giovane don Guido Migliavacca. Oggi è il più anziano direttore di Settimanali cattolici poiché lo è dal 1966 e dice sorridendo: "Ero direttore bambino, sono nato direttore". Per questo pubblico ora la recensione al suo primo libro che mandai al bravissimo Gianni Buosi (uno dei giornalisti che ricordo con più stima e riconoscenza in quanto mi aveva ammessa a collaborare al Giorno Cultura alle pagine allora dirette da Paolo Garimberti (poi vicedirettore a Repubblica e  poi prestigiosa carriera in RAI)). L'articolo purtroppo quella volta non passò e lo metto ora in questa pagina per me forse una delle più care in qanto legata alla mia formazione di penna.

Una volta qualche anno or sono ero al tavolo al Piacentino di Bobbio con don Guido Migliavacca e il direttore FISC (Federazione settimanali cattolici) e qualche altra personalità e si scherzava e il discorso sfiorò la politica cadendo come al solito su Berlusconi. Don Guido  - ma la sua era una battuta - disse: "Che non sappia che sono il Direttore della Trebbia, non vorrei esser rimosso" ed invero talvolta La Trebbia ospita anche pezzi di quell'anima romagnola che è rimasta molto legata - sembrerebbe - ancora a "falce e martello" ma succede in altre zone d'Italia specie dove c'è uno zoccolo duro e campagnolo. In fondo fino a pochi anni fa nella piazza principale di Bobbio a fianco all'edicola esisteva una bacheca dove era esposta quotidianamente l'Unità.

Qualche anno fa a Bobbio, su invito dei Lions, tramite monsignor Piero Coletto e facendo il mio nome venne Mario Cervi  con la moglie a tenere una conferenza. Poco prima Mario Cervi - nel 2003 - era stato alla Berio di Genova a presentare le Lettere dei miei genitori insieme alla scrittice Minnie Alzona, a Frano Bovio, ex direttore Carige e a Renato Delle Piane preside del King.

Cervi prima di venire a Genova aveva voluto vedere le bozze del libro e solo dopo aveva accettato. Credevo che non avrebbe tenuto l'impegno come accade spesso ai famosi invece venne e ci chiese solo di andare a prenderlo all'aeroporto (arrivava da Napoli) e così con mio marito lo andammo ad accogliere e poiché la conferenza iniziava un po' dopo lo accompagnammo a casa di Minnie Alzona da cui si vedevano le finestre della Berio. Cervi si complimentò per il gusto d'arredamento con pezzi preziosi e poi chiese alla scrittrice se poteva riposare un poco e lei lo fece accomodare in salotto su un divanetto. Cervi si tolse le scarpe, incrociò le mani sul petto e chiuse gli occhi come fanno - si dice - i camionisti ma anche manager abituati a viaggiare molto per lavoro e abituati a brevissime pause di viaggio. Stava completamente immobile ma con una signorilità, una compostezza che rivelavano in lui l'antico ufficiale e che ho riscontrato solo in Italo Londei mentre vegliava in morte mio zio Alfredo. Alla Berio Cervi parlò da impareggiabile mettendo in risalto di mio padre il carattere che gli era piaciuto, che cioè "non le mandava a dire anche ai suoi superiori ed era invece attentissimo alle esigenze dei soldati di cui era capitano". Per Cervi la colpa della nostra disfatta in guerra è da attribuirsi ai generali mentre le nostre truppe contavano tanti soldati e subalterni eroici. Poi, prima della fine della conferenza, si accomiatò e mio marito lo accompagnò al treno per Milano, con mia cognata Mirella, vedova da poco, che rientrava a Savona. Mirella mi disse poi che Cervi le aveva fatto coraggio condividendo la sua pena e questo aveva commosso lei e mi commosse-

 

 

 

 

 

 

 

 

Mario Cervi quel giorno ai Lions di Bobbio fu molto festeggiato ma ci fu anche uno dei fondatori, il marito di Anna Bianchi, che si comportò da constestatore.  (Anna Bianchi ha fatto cose  egregie per il "Film nella scuola" facendo recitare gli studenti adolescenti  e vincendo perfino con un cortometraggio il premio alla Festa del "Cinema per le scuole" a Roma)

Analoga contestazione ci fu come mi dissero per Piero Ostellino. Ragion per cui dopo inserisco anche un Cucù di Marcello Veneziani  che lo riguarda  ed uscito nell'ottobre 2013 sul Giornale: è sempre la stessa solfa degli intolleranti di coloro che non ammettono ascoltare pareri divergenti dalle proprie idee.

Invito anche a leggere il ben diverso articolo di Irene Malacalza riportato su La Trebbia dopo la visita di Cervi per i 20 anni dei Lions a Bobbio (v. Pagina Terre 2- Bobbio) e anche il Cammeo XXIV alla pagina "Autori" dove descrivo come fu accolto il mio libro delle Lettere all'Istituto della Resistenza a La Spezia dove ero stata invitata a parlarne. Dico anche di Giampaolo Pansa che stufo di contestazioni non presenta più in pubblico.

Ma è possibile? Siamo nel 2013 e la guerra finì nel 1945 e non dimentichiamo che c'è ancora in Europa e ad esempio in Tunisia dove ebbi modo di constatarlo di persona chi ci ricorda come "traditori". Forse qualche riflessione è da fare.

Ecco questa è l'anima intollerante di certa sinistra, quella che non vuol dare diritto di parola e quindi pur se allora lasciai perdere , poi ne scrissi su Archivum Bobiense nel saggio dedicato a Alberto Nobile.

In un mio precedente saggio, dedicato a Italo Londei, fondatore di GL in Valtrebbia e capopartigiano di mio zio, diciottenne quando tornò in Bobbio con la Monterosa, mi capitò di parlare di una mostra di disegni del Londei dedicati a Bobbio: ne espose 52 nel Chiostro dell'Abbazia e nell'ora di colazione né lui né la figlia potevano fare la sorveglianza che il Comune a sua volta non poteva svolgere: gliene rubarono 23 su 52, per cui quando il sindaco, l'ottimo Roberto Pasquali, chiese a Londei se poteva dare in donazione i suoi acquerelli per decorare il corridoio nobile del Municipio, Londei rispose: "No, che se no me li rubano". Ecco l'intolleranza e in più la ladroneria (anche camuffata da tasse ai ricchi) che anima una certa tradizione di sinistra quella che vorremmo dimenticare per sempre, per essere davvero civili e non dei sanculotti da rivoluzione francese.

Al di là dell'ultimo, Filosofie della morte e della vita

di Virgilio Melchiorre

Virgilio Melchiorre è stato Preside alla SSCS (Scuola Sup. di Comunicazioni Sociali)  quando vi studiavo (1981/82) e soprattutto è sempre stato persona specchiata e anche disponibile al buon consiglio. A lui mi rivolsi, quasi piangendo, al mio primo giornalismo quando, avendo chiesto di scrivere su un "volontariato ospedaliero organizzato in Nervi" dal sacerdote, don Trabucco, che aveva dato la prima Comunione ai miei bimbi, il caporedattore mi disse dopo essersi gettato sulla macchina da scrivere per mettervi cinque righe di sua iniziativa: "Se lei accetta di finire l'articolo dicendo che il volontariato dà fastidio alle sinistre, domani il suo articolo è in pagina". Declinai (conobbi poi anche un volontario per il servizio anziani che da sempre aveva in tasca la tessera del PCI e la cui moglie era aiutante di don Trabucco) però rimasi allora turbata perché in ciò che diceva il capo c'era un serio fondamento di verità che era culminato nell'estromissione di suore e preti dagli ospedali per sostituirli con chi lavorava e teneva d'occhio l'orologio per non sforare sull'orario.

Così andai da Melchiorre e questi mi disse: "Non rinunci mai alla sua identità" e mi sentii inpace con me stessa. Però il mio primo articolo andò in pagina  solo un anno dopo perché quando il caporedattore mi aveva adetto: "O lei s'impegna qui o alla scuola",  scelsi la Scuola perché mi sembrava mi desse di più come formazione.

Giorgio Van Straten lo sentii parlare sulla storia della sua famiglia (e questo era il libro) all'Adei-Wizo di Genova dove m'invitava sempre la cara amica Lelia Finzi Luzzati, cugina maggiore di Giorgio Bassani e soprattutto  gran signora d'animo, donna di garbo, e bravissima conferenziera da cui credo di aver imparato qualcosa. Almeno so, avendola ascoltata e vista in azione, come si può catturare l'attenzione del pubblico, affezionandoselo come se si fosse nel salotto di casa propria. Ammirai quella storia  raccontata da Van Straten ricordando un nonno   che in famiglia aveva aiutato tutti i giovani, anche chi credendo nel paradiso comunista si era recato in Urss sperimentando quanto poco paradisiaco fosse. Soprattutto nel narrare il dramma della sua famiglia ebrea ai tempi delle leggi razziali, Van Straten aveva voluto, oltre a raccontare storie, mettersi davanti al muro del pianto per dire solo i nomi di chi non era più e questo per sfuggire alla retorica che è il rischio avvertito anche da alcuni  intellettuali ebrei pur avendo subito come popolo  un torto così grande. Così sucede anche per gli esuli giuliano-dalmati: c'è qualcuno che avverte nel ricordo il premere sull'acceleratore della compassione e ancor più dell'autocommiserazione. E pur nel torto infinito che si è subito di ciò bisogna essere avvertiti. Questo articolo lo scrissi per il Giorno per le pagina Cultura il 5 giugno 2001.

Finalmente ho sostituito la foto della mamma con l'originale. L'altra veniva dal libro delle Scrittrici dove l'avevo fatta inserire a libro già stampato prima della parte che riportava qualche mio racconto a me particolarmente caro e la motivazione del perché  avessi voluto scrivere. Mi vergognavo per la mia consueta fretta per cui la pagina dedicata a lei come mia prima maestra portava una mia svista "sotrie per storie"  proprio in questa frase premessa alla foto: "Bambina venivo da te in cucina a raccontarti le mie storie e quando ti commuovevi entravo nel cuore del mondo". Anche la dedica del libro era per lei: "A te mamma che m'insegnasti per prima a disegnare la rosa di macchia..." Ora riparo con lei rimettendo anche in questo Sito lei in quella foto del suo splendore giovane.

Inserisco la pagina finale dell'introduzione di Giorgio Barbèri Squarotti al suo libro Le colline, i maestri, gli dei. Pagina che è dedicata al gennaio in cui morì sua madre e che non manca di commuovermi perché anche la mia si spense in una mattina nevosa il 10 gennaio 1998.

      

Senz'altro nella formazione di ciascuno è importante quella scuola che si segue da dopo le elementari e come nel mio caso fino alla maturità: per me il Liceo classico D'Oria di Genova. Inserisco qui il ricordo di questo Liceo della storica e nipote di Montale, Bianca Montale, che ha scritto un libro su questo Liceo negli anni della sua esperienza facendo presente però che ogni allievo delle diverse generazioni che vi è passato ne porta un ricordo diverso. A Bianca Montale resto particolarmente grata perché quando le chiesi di presentare le lettere di miei genitori al Lyceum di Genova acconsentì subito e lo fece ottimamente.

Caro D'Oria di Bianca Montale

"La scuola che formava e non indottrinava"

Ai piedi di un ulivo 

Gina De Benedetti

di Ferdinando Durand

Bianca Montale, Caro D’Oria, Sabatelli (I libri di Resine), luglio 2005, Euro 12.

In questo libro autobiografico a colpirci è la personalità dell’autrice, allieva del D’Oria tra il 1938 e il ’45, liceo dove tornò da insegnante di lettere tra il‘51 e‘54. Questo secondo momento è raccontato nell’ultimo capitolo con un confronto amaro fra scolari attenti ed educati degli anni ’50 e quelli di scuole e Università disastrate dopo la svolta del ’68.

Bianca, una timida ragazzina che ammessa al Regio Liceo Ginnasio (il liceo classico era la sola scuola che dava accesso a tutte le facoltà universitarie) coltiva l’amore per l’alta montagna e il tifo calcistico per il Genova. Due passioni  “lontane dall’ideale di donna di casa così come la si voleva in quei tempi preistorici”. Tali parole del testo non vanno disgiunte da un’osservazione sullo studio che resta in primo piano: “oggi una promozione è salutata con plauso e regali; nel mio itinerario scolastico, sino alla laurea e alla libera docenza, si è ritenuto fosse un dovere comportarsi bene a scuola”. In quel momento Bianca aveva saltato la seconda liceale e, con esame, era stata ammessa alla classe finale; conseguì la laurea presto e con lode, poi si affermò all’Università: ordinario di Storia del Risorgimento a Parma e Genova e direttore dell’Istituto Mazziniano genovese. Il libro non racconta questo “dopo” ma ci suscita nostalgia per un mondo perduto, un bene perduto. A mezzogiorno a scuola si recitava l’Angelus, Bianca frequentava l’Apostolato Liturgico, i professori dell’ora di religione al D’Oria erano Siri e Gian Maria Rotondi, i compagni: Manciotti, Fenga, Cicciarelli, Tina Villa la compagna di banco... Sentimenti, ideali, senso del dovere e della quotidiana decenza.

Nel libro vediamo crescere la ragazzina che mai dimenticherà “Genova bombardata bruciare illuminata a giorno” (22 ottobre ’42), che intuisce la “censura sui giornali” di fatti come questo o della tragedia della Galleria delle Grazie ove centinaia di persone terrorizzate morirono per soffocamento.

Nel ’44, dopo la presa di Roma, inizia a “sentir parlare di repubblica, ma non quella di Salò; quella di cui ci aveva parlato Mazzini”; incomincia anche la militanza, discreta, nel gruppo femminile che affiancava i reparti agli ordini del Comitato di Liberazione. Lucidamente scrive: “un momento di cui negli anni più tardi, di riflessione e di disillusione, ho visto anche le ombre”; e dell’inverno ’45 quando la Germania era in ginocchio: “in questa fase c’è stato, piuttosto tardivamente, un accorrere nelle file della resistenza, un si salvi chi può...”

Per definire la propria militanza, che riconosce “modesta e un nulla”, usa parole di zio Eugenio: “Nulla abbiamo disperatamente amato più di quel nulla”. Il grande zio è ricordato, incisivo ma come sulla soglia, attraverso altre due riflessioni: “scuola e cultura corrono su binari paralleli che non s’incontrano”; “a scuola si dovrebbero insegnare la lingua italiana e la buona educazione: tutto il resto è facoltativo”.

Il libro si chiude con un “grazie, caro D’Oria”: è la scuola che le ha insegnato “a ragionare”, che “formava e non indottrinava”. Nella prefazione Gianni Di Benedetto concorda con questa riflessione: “Esempi di ben più soffocante ideologizzazione, di diverso segno, ci vengono offerti dal mondo della scuola d’oggi”. Ricorda anche Aldo Bassi che nel libro dedicato nel 1920 agli allievi morti in guerra scrisse: “li educammo ad essere italiani con la parola di Virgilio e di Orazio, con la dolcezza suasiva di Mazzini”.

                        Maria Luisa Bressani

 

 

 

AI PIEDI DI UN ULIVO

Seppellitemi ai piedi di un ulivo:

il mio corpo alimenti

un'altra vita:

e sian foglie d'argento

più belle e più splendenti

alla forza del vento,

siano a primavera

fiori infiniti sui rami,

siano in inverno frutti

ricchi d'olio odoroso.

Ancora luce

ritornerò nel mondo;

rischiarerò le veglie

dell'umile gente fra i monti sperduta,

e forse sarò su un altare

di povero borgo, fiamma d'amore che risale a Dio.

 

Da "Terra e cielo" 1964.

 

Il professor Ferdinando Durand a lungo insegnante al D'Oria nel corso A è stato il papà della mia compagna di banco Ninetta e per lei posso dire come mio cugino Claudio ha detto per mia madre che è stata la persona più buona da me conosciuta. Ninetta è già nella pace del Signore stroncata da un brutto male e nella pagina "In Memoria" la poesia che le ha dedicato la cognata Anna De Michelis sempre nostra compagna nel Corso C e segnalo la poesia non solo perché bella anche perché raramente le cognate (e forse è sempre l'invidia femminile) sono così solidali come è sempre stata Anna per Ninetta.. Del suo papà ho una pubblicazione che mi diede Ninetta dove Stefano Verdino ne consegna un bel ritratto riguardo al poeta che esordì giovanissimo e fu valorizzato dapprima da Thovez - quindi un onore- su cui aveva esordito con una monografia nel 1933 (v. Saggio di Stefano Verdino su A Compagna n. 3 e 4 del 1990) Durand ha continuato a scrivere nel tempo poesie e  a raccoglierle in libri.

Una che poi riporterò qui di seguito l'ha dedicata a Gina De Benedetti nostra insegnante nel corso C al ginnasio e forse una delle più amate dagli allievi.

E' intitolata "Donna ebrea". Gina si definiva con Itala Mela "sorelle di latte". A lei in morte Liana Millu dedicò versi che furono ritrovati nel giubbotto di Hannah Senesh paracadutata in Jugoslavia per l'Haganà la Resistenza ebraica. Fu catturata, uccisa e nel giubbotto le trovarono appunto questi versi che Liana lesse per Gina: "Beato il fiammifero ... beati i cuori che seppero spezzarsi con onore".

Torna l'onore quel concetto che oggi sembra così démodé per certa politica proveniente da radici di sinistra.

Ricordo che anni addiero dopo aver pubblicato con la Lint le Lettere dei miei genitori ebbi voglia, pur se in ritardo, di vedere i luoghi dove era stato in guerra mio padre, in Tunisia nei pressi di Kairouan. La nostra guida, B.Mahmoud Medhi, un giovane islamico di bell'aspetto e molto preparato sui mosaici d'eredità romana, cui  avevo chiesto di portarci nei luoghi dove avvenne " la resa con l'onor delle armi" di mio padre e del suo battaglione, fece orecchio da mercante e ci accompagnò (eravamo solo in sette e quindi poteva aver agio di spostare il programma di viaggio dato che tutti erano d'accordo) a vedere un cimitero di guerra americano ancora adesso tenuto perfettamente con soldi Usa e dove un addetto registra i nomi dei visitatori, poi ci condusse a Monastir per farci notare al sepolcro di Bourguiba che questi  in morte aveva voluto intorno a sé sei alleati ed amici fedeli. In pratica ci ricordava che in guerra noi eravamo stati traditori e benché questo fatto sia osannato come una conquista della Resistenza, lui  mostrava di avere idee diverse e un po' mi vergognai di fronte ai suoi occhi determinati di essere italiana come pure quando ci parlò di turisti che entrando nelle moschee non mostravano reverenza per un luogo di culto e ancora quando ci disse un po' sprezzante che i loro iman si mantenevano da sé lavorando non come i nostri sacerdoti. Differenze di mentalità ma molto profonde e troppo ignorate da chi esaltò le Primavere arabe e nel momento in cui scrivo le vede naufragare nella guerra civile e in un bagno di sangue.

Del professor Durand ricordo che mi chiamò a commemorare il mio professore d'italiano del Liceo, Piero Raimondi e fui felice di farlo. Alla fine venne  a salutarmi    Aidano Schmuchker      che ha scritto per Mondani Editore un bellissimo libro  Teatro e Spettacolo in Genova (sulla storia dei teatri genovesi)  e libri su qualche realtà rurale della Liguria tra cui Avegno, il paese della moglie, (libro che ho potuto consultare per la mia ricerca "Forni e pane" su Archivum Bobiense). Mi disse che avevo parlato bene e che Raimondi per lui era stato un caro amico, però quanto al parlar bene e alla necessità di prepararsi anche se poi si può dar l'idea di farlo a braccio Durand aveva voluto vedere per scritto cosa avrei detto e mi aveva tagliato diverse parti come raccontava anche il prof. Gianfranco Bianchi per il suo primo articolo di cui al giornale dove collaborava salvarono solo la parte centrale: entrare subito in argomento, cioè "scrivere andando al cuore delle questioni e non ricamare" ed evitare di ripetersi. Il lettore  non è così sciocco da ripetergli le cose due volte e scusate se talvolta lo farò perché chi legge questo Sito può farlo solo riguardo la pagina che lo attira e certe cose a me sembrano importanti da dire.

Nel 2007 sarà il 50esimo anniversario dalla morte di Itala Mela e, non a caso, i Vescovi Liguri hanno scelto tra le persone di fede Itala Mela come “testimone del Novecento”. L’indicazione, nell’approssimarsi del convengo ecclesiale di Verona, è stata richiesta dalla Chiesa italiana ad ogni conferenza episcopale regionale.

Itala Mela è stata una laica che si dedicò al pensiero mistico ed alla spiritualità trinitaria. In vita ebbe tanti amici ed un’amica, Angela Gotelli, le fu legata fino dagli anni del liceo alla Spezia e poi della militanza nella Fuci. Le due ragazze furono così unite che quando per la guerra e i bombardamenti la famiglia di Itala fu costretta a sfollare da Spezia, venne accolta ad Albareto presso Parma in una casa della famiglia di Angela. I loro cammini di donne poi presero indirizzi diversi: Itala si dedicò alla vita spirituale, Angela alla vita sociale e politica, partecipando ai lavori del Codice di Camaldoli e alla nascente Democrazia cristiana per la quale venne eletta all’Assemblea Costituente. Fece poi parte della Camera dei Deputati e del Governo, fu una delle prime donne a conseguire questo risalto politico. Non a caso, Itala e Angela, furono in seguito accostate all’esempio che ci arriva dal Vangelo di Maria (vita contemplativa) e Marta (vita attiva).

Se delle frequentazioni di Itala questa è stata la più divulgata, tra le sue amiche - “sorelle di latte” si definivano-  ci fu anche Gina (Regina) De Benedetti.  Direttrice a Genova della scuola ebraica, nel clima che faceva presagire le leggi razziali, convinse a condensare due anni di studio in uno e a conseguire in anticipo la maturità alcuni allievi che le hanno conservato indelebile gratitudine. Poi fu insegnante di lettere a Parma e quindi, a lungo, al ginnasio del Liceo D’Oria.

Itala e Gina, ragazze, si erano scambiate il libro base delle loro rispettive fedi: Vangelo e Bibbia. Ricordo questo fatto perché ero presente quando la mia antica professoressa, molto malata  e vicina a morire, affidò ad un’allieva, dedicata alla spiritualità benedettina, la Bibbia, tutta annotata a mano da Itala che questa le aveva restituito. Le chiese di portarla al Monastero spezzino dove si stavano raccogliendo reperti della sua vita, essendo in corso il processo di beatificazione.

Col V voto (11 giugno 1933, Festa della SS. Trinità) Itala si era impegnata a vivere personalmente e a far conoscere agli altri la realtà dell’Inabitazione Trinitaria. Era già legata ai voti privati perpetui di conversione dei costumi, obbedienza, castità, povertà secondo la Regola di San Benedetto. In uno scritto indirizzato a monsignor Luigi Pelloux (28/5/’35) racconta l’esperienza mistica che la portò all’impegno del V voto: “il vedere tutte le cose in Lui, con un solo sguardo, in un’unità misteriosa; l’abbracciare il mondo delle anime in un solo istante, cioè il vederlo come Lui lo vede”.

                                Maria Luisa Bressani

 

  

                         Itala Mela e Gina De Benedetti

 

Le due splendide icone sopra riportate sono state eseguite alla scuola iconografica che Lino Calcagno (fratello del Cardinale che è stato tesoriere della Curia a Roma  e che quando era Baloo degli Scout veniva chiamato "il Donca") tiene presso il PIME di Nervi e ora alla Chiesa di Samt'Erasmo.

Il prof. Calcagno per anni è stato l'anima di un giornale Sapore di Mare dove ha racchiuso tutte le notizie storiche, umane, di ogni Chiesa, associazione, perfino degli scogli della Baia di Capolungo a Nervi che hanno tutti un nome attribuito dalla fantasia popolare. Lo ha fatto come altri, giornalisti professionisti, non hanno mai saputo fare così bene. Ora si dedica a questa Scuola mettendo in risalto però il messaggio cristiano secondo cui un'icona va fatta  secondo precisi canoni e così deve essere  anche il messaggio che l'icona deve saper trasmettere..

Perché ricordo qui il prof. Calcagno? Per una recensione che dedicò alle mie Scrittrici del Novecento italiano (dove ho inclusa la foto della mia mamma) proprio su Sapore di Mare e dove in non tantissime righe seppe condensare il succo del libro e colse anche un tratto del mio essere: una malinconia congenita (ed è per questo che mi piace ridere, sorridere e scherzare anche leggendo libri che possono suscitarmi questo stato d'animo e vedendo spettacoli di questo tipo). Gli sono grata di avermi capita.

Sul filo della malinconia perché anche scrivendo s'incontrano difficoltà, prevaricazioni, ecc. riporto ora la mia recensione ad un testo del prof. Enrico Bonessio di Terzet  che ebbi modo di ascoltare anni or sono ad una conferenza apprezzandone l'intelligenza e notando di quanta stima godesse e delle cui opere però da allora fino a questo libro non ho più avuto notizie.

XLV Cammeo: 1) L'intolleranza e  "Mario Cervi a Bobbio"

 

 

 

Da Le colline, i maestri, gli dei di Giorgio Bàrberi Squarotti (Santi  Quaranta 1992)

 

 

L'Utilità dell'Arte Poesia

di Ettore Bonessio di Terzet

Un tuffo da un trampolino altissimo, così è leggere L'Utilità dell'Artepoesia di Ettore Bonessio di Terzet (Aracne editrice, collana di Semiotica dell'Arte "Riflessi", diretta da Tiziana Migliore dell'Università di Urbino).

Per non incorrere in un impatto violento, una capocciata seppur con scintille, prima della risurrezione-risalita (perché questo libro insegna a respirare di nuovo dopo l'apnea),bisogna tener fermi alcuni "parametri personificati" che proprio da esso ci vengono in aiuto.

Non ci può infatti bastare a capire la definizione finale: "L'artista poeta tenta Poesia come superamento dello spaziotempo, tenta l'eternità, l'Eterno che è la vera meta di ogni azione artisticopoetica". Definizione tra l'altro "finale solo per il momento" dato che il libro è  evoluzione del concetto con arricchimenti continui attraverso scritti di Bonessio ed altri sedici artistipoeti da lui scelti come riferimento e presentati con poesie ed immagini di opere dal 1960 al 2012. Per gli scritti dell'autore si riscontra una cesura del 1968 al 1978, poi la sua ricerca riprende fino al 2000. La convalida "rafforzativa" al suo pensiero degli altri sedici autori, inizia con  Auden che molti ricorderanno emozionante per la sua poesia più nota "Funeral Blues" nel film Quattro matrimoni e un funerale: "Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono...lui era il mio Nord, il mio Sud..."  Auden da Bonessio è citato con versi  in cui definisce Dio (il Dio, tensione di tutti i popoli all' oltreumano, al "gottlich", il divino), come "Sire, nemico di nessuno che tutto perdoni". E riprende questo concetto, ricordando di sé "Quanto ho sofferto per cattiverie e maldicenza, le ingiustizie patite..." Voler accostarsi all'arte-poesia, capirla, tradurla in immagini e parole, è anche cammino di dolore dell'artistapoeta. Nel libro, dalle splendide riproduzioni dei sedici artisti selezionati risalta l'ansia di Dio e la solitudine dell'uomo in cerca d'infinito che prorompono in "Dove sono?" ed "Errante" di Fettolini.

Il libro è anche mille fuochi d'artificio di definizioni folgoranti: "Bacon o dell'attuarsi pittorico di certo Nietzsche",  "Burri il coraggio di bruciare una vita", "Mirò: giocare sempre coi propri demoni è economico per l'arte?", "Henry Moore il Grande Druido", "De Chirico che continua a fare cavalli selvaggi su spiagge sponsorizzate dal Club Méditerranée". Altre sono riflessioni: "Metafora, la grande menzogna", "Fotografia videotele non mentono mai, niente dicendo la superficialità è sempre rassicurante". Ecco perché è un tuffo con il rischio di smemorarsi in tali fuochi d'artificio, scoppiettanti d'intelligenza.

La Parte III del libro reca le riflessioni di Bonessio dal 2009 al '12 e s'intitola "Il DopoNietzscheDuchamp", i due nomi, o "parametri" di riferimento, di questa ricerca che coniuga ApolloDioniso come "simultanei nella comunità dei viventi creatori d'artepoesia". Però già questi due nomi, N. e D., non possono essere considerati nell'ottica di studi stereotipati, seguendo Bonessio vanno considerati "strateghi per il futuro dell'arte" e dobbiamo credere che dopo loro la filosofia è diventata "devozione o tracotanza". Nietzsche, che chiude un secolo, è "grande e totale arista che ha ucciso il pensiero servile", Duchamp morto nel 1968, altro passaggio culturale, "ha ucciso l'occhio e dato una bicicletta alla filosofia". Dice bene Baudrillard che "l'arte contemporanea ha perduto ogni originalità e ogni capacità di sfidare la realtà", perciò il "DND" (il "Dopo Nietzsche e Duchamp") è caratterizzato dalla confusione dell'arte contemporanea.

Questo parametro Nietzsche-Duchamp  è filo conduttore del libro, ma altri riferimenti personificati servono a farci capire meglio e tra gli artistipoeti Bonessio ne enuclea tre: "Matisse Picasso Dalì". Dice ironico che se fossero passati da New York, vedendo il catalogo dei 250 capolavori contemporanei dal 1980 ad oggi, stampato per conto del MoMa, sarebbero scoppiati in una risata ed avrebbero brindato alla stupidità degli esperti d'arte.

Altri due grandi riferimenti di questo discorso intellettuale, complesso ed avvincente, sono l'Europa, culla d'arte-poesia, e il "mito classico", suo fondamento dai Greci in poi, personificato in Ettore che si proietta nella storia come memoria e Achille che sa il destino ma vive per sé.

Un libro dunque con il piacere di un'intelligenza e di una cultura non canoniche come ci dimostra il curriculum stesso di Bonessio: titolare Cattedra di Estetica all'Università di Genova, docente di Estetica dell'Architettura; al di fuori dei suoi compiti accademici, tra i suoi successi il Convegno di Poesia Italo-Americana Genova-New York (1980), la fondazione con Loredana Cerveglieri dell'Associazione "ilBoscoBluilCobold" (2010). La scultura "Ariam" di questa artista risalta in copertina: ali di gabbiano stilizzate, volo all'infinito di spazio-tempo.

                  Maria Luisa Bressani

  

Tra coloro che però sento più vicini come "maestri" di giornalismo, ben s'intende pur ritenendoli inarrivabili anche per il tipo del mio giornalismo del tutto locale, però questo è un modo di esprimere la mia ammirazione per loro e soprattutto un grazie per l'insegnamento e la compagnia ricevuta dalle loro pagine ora do spazio a Giorgio Torelli e al suo amico fraterno Piero Gheddo

Gesù nasce sul pianoforte della zia Elisa di Giorgio Torelli

Giorgio Torelli, GESU’ NASCE SUL PIANOFORTE DELLA ZIA ELISA, ANCORA, natale 2005, pp.160, Euro 14.

Quando la fine d’anno è ancora lontana  perché proporre un libro con in copertina la cometa di Natale al di sopra delle teste di un alpino che suona il pianoforte accompagnato dalla nipote? Autore del disegno è il pittore Beppe Novello, alpino nella I Guerra mondiale e nella II in riva al Don, poi compagno di prigionia di Guareschi. Nel libro viene ricordata anche una data del tutto estiva, il 7 luglio del compleanno di Beppe, per i cui 80 anni Luigi Santucci scrisse scanzonato: “O Codogno, tu Atene d’Italia che all’Eroe (Novello) desti un giorno i natali non più sol per granaglia e maiali celebrarti la storia dovrà”.

Una compagnia eletta Novello, Guareschi, Santucci, tutti amici di Torelli che nel mestiere di giornalista ha ricordato gli umili e i potenti, ma privilegiando tra loro “i probi”. Questo è il suo 24° libro e con Da ricco che era, dedicato a Marcello Candia, l’industriale che diede ogni suo avere per curare i lebbrosi, ha registrato il successo di 130mila copie vendute.

Il libro di Candia è quello che portò a Karol Woytyla e il Papa polacco, ammiratore di quel benefattore, lo tenne con sé senza consegnarlo al segretario.

Con “Storie di due Papi” (Wojtyla e Ratzinger, incontrati dal giornalista) si conclude questa 24a fatica, divisa in quattro parti, di cui le altre tre riguardano “la pianura parmense”, “il Natale”, “gli alpini”, storie pervase soprattutto di Santità.

Torelli definisce i Santi, ricordati nei lunari, “365  cristiani di spicco e reputazione, prima linea di una cristianità che nei suoi ranghi secolari ha di che riempire tante pagine quante ne vantano i 28 volumi dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alambert. Non ci sono storie più moderne, nel rimescolarsi delle generazioni di quanti presero sul serio la vita e magari se la giocarono per assoluta consonanza con il mistero”.

E Beppe Novello nel libro è importante anche per il ricordo che ha di don Gnocchi. Racconta che sono venuti da lui tre preti per chiedergli del suo antico cappellano della Tridentina in Russia: “Vogliono farlo Santo... che consolazione poter dire il meglio, tutto il meglio per un uomo che mai mi lascia solo”.

Nelle storie dei probi, staglia su tutti un alpino che chiese a Torelli d’incontrarlo, ma il giornalista allora non ebbe tempo per lui e come per un debito ne ripercorre da morto la vita. Paolo Caccia Dominioni, conte di Sillavengo, colonnello del Genio alpino dopo la battaglia di El Alamein, dove animò gli irriducibili del 31 Battaglione Guastatori, tornò nel deserto a raccogliervi le ossa insabbiate dei caduti. Compì in jeep 335 ricognizioni su campi minati per riunire “5346 Resti” nel Sacrario custode dell’italianità martoriata in terra d’Africa.

Il libro si chiude con “Tiritera del Santo Natale”, versi liberi in cui Torelli esprime il senso del suo giornalismo: “Faccio il pastore delle parole che ho messo su carta, tante. Non ho altro, non posseggo niente altro che sia più me stesso... di prelevare dal pagliaio spagliato, delle cose messe in serbo e custodite per l’occasione della scrittura, il meglio del sentire e quanto il senno di prima (non quello di poi) avesse a prescrivere... perché qualcuno, sconosciuto e insospettato, vi si riconosca”.

            Maria Luisa Bressani

 

"Nei Settimanali illustrati perché non si dedicano almeno due pagine alla settimana per spiegare l'Islam ai disinformati lettori italiani?" è la domanda di Piero Gheddo invitato dalle Edizioni Paoline a scrivere un libro informativo sulla realtà dell'Islam. Il missionario, più di 80 opere pubblicate, a lungo direttore di

 

“Mondo e missione” e fondatore dell’agenzia Asia News, sostiene che molti dei libri di studiosi pubblicati dopo l’11 settembre 2001 da case editrici cattoliche sono di difficile comprensione e quindi poco letti. Domanda ancora: “Perché ogni giorno sulla stampa nazionale tanti gli articoli sull’islam radicale e sul terrorismo, nessuno o rari  su esperienze di collaborazione tra musulmani e cristiani?”  Osservazioni esternate a fine libro quasi un SOS  per una presa di coscienza.

La sua analisi, con esemplare chiarezza,  individua la necessità di dibattito/conoscenza dell’Islam perché nel mondo circa  40 sono i Paesi a maggioranza islamica, un uomo su cinque è musulmano,  nella Ue ne vivono più di 20 milioni (in Italia oltre un milione). Perché il “ricatto terrorista” con l’utilizzo dei kamikaze, le guerre e guerriglie di popoli (Ceceni, Filippine, Algeria, Afghanistan, Iraq, Kashmir, Nigeria, Palestina), il pericolo di un Iran potenza nucleare inducono l’Occidente a considerare l’Islam con una minaccia da cui difendersi. Tra i motivi, ma solo al terzo posto e non al primo come per solito viene divulgato, l’incertezza riguardo alle risorse petrolifere concentrate in quei Paesi. Ci ricorda come obiettivo le parole di Roger Etchegaray, presidente del Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace, a Beirut nel 2006 dopo la guerra fra Israele e gli Hezbollah: “La pace non è il semplice soffocamento di coloro che hanno combattuto; è il puro respiro di una famiglia che crede veramente che tutti i suoi membri sono fratelli in Dio”.

Attraverso un’analisi storica dal tempo di Maometto e della formazione del Corano, dalle vicende dell’Islam ai tempi delle Crociate e dell’Impero Ottomano fino a Lepanto, quindi dai tempi moderni della formazione dei movimenti più integralisti, quello “wahhabbita” in Arabia saudita, dell’iraniano Khomeini e dei talebani, mette in risalto le differenze “storiche” tra la nostra religione e l’islamica, discendenti dal ceppo biblico-ebraico. Nel cristianesimo è chiara la distinzione tra religione e politica. Cristo è stato crocifisso come un criminale dai politici del tempo, però è venuto per cambiare il cuore dell’uomo; l’Islam è religione formalistica, giuridica, con osservanza del rito e delle Leggi. “Nel tempo è più facile conservare  il principio ‘non uccidere’ – commenta Gheddo - che la norma giuridica di quante frustate dare a chi sbaglia”. La donna, motore di sviluppo, nell’Islam è considerata inferiore all’uomo e mortificata a causa della non-parità. L’Islam non si è evoluto, è rimasto una religione acefala, priva di gerarchia eccetto che tra gli Sciiti, mentre il Concilio Vaticano II ha introdotto la chiesa al mondo moderno (in due millenni è stato il 21° Concilio ecumenico). Jihad significa “sforzo” e “impegno” nel mettere in pratica la legge di Dio ma anche “guerra per Dio”, un’ideologia militante e militare origine di lutti. Khomeini creando la categoria “martiri dell’Islam” (i kamikaze), ha fatto scuola ai fondamentalisti: talebani-Afghanistan, Hezbollah-Libano, Hamas-Palestina, Gia-Algeria, Abu Sayaf-Filippine, Jihàd islamico-Egitto, Al-Itihad-Somalia, Mujaheddin-Pakistan e dalla stessa radice nasce Bin Laden con Al Qaeda.

Il corrispondente di Asia News dal Bangladesh porta dati di un proliferare delle madrasse (scuole coraniche) dal 1986 ad oggi: da 4000 a 64mila e non predicano quasi più il Corano, educano all’odio contro l’Occidente e al martirio per l’Islam.

Ci sono però crepe in questo incancrenimento storico e vistose; quel mondo non è più un monolite, Gheddo ci racconta di un Islam molto più tollerante in Mali e Senegal, al punto che è ammessa la conversione ad altra fede, e ne rintraccia i perché storici.

“Che fare?” al fine di dialogare, collaborare, conoscersi? Poiché in Islam Maria (Sura XIX) è l’unica donna con Fatima, figlia di Maometto, tra i personaggi vicino a Dio, immagina  pellegrinaggi mariani congiunti e i santuari come luoghi d’incontro tra fedi. Cita come esemplare I cristiani venuti dall’Islam. Storie di musulmani convertiti (Piemme 2005) di Giorgio Paolucci e Camille Eid, un libro speranza di condivisione per le tante storie di conversioni che riporta.

Porta come esempio il Cadr (Centro d’ascolto/documentazione delle Religioni dell’Arcidiocesi di Milano) luogo d’incontro per il dialogo interreligioso a cui partecipano ben cinque gruppi musulmani con altre comunità ortodosse, buddiste, ecc.

I governi occidentali si devono  battere soprattutto per il principio di reciprocità di trattamento e per convincere i musulmani di casa nostra ad associarsi nella condanna alle persecuzioni  e discriminazioni dei cristiani nei loro Paesi.

Il discorso dell’integrazione resta complesso ma il libro di Gheddo si chiude con la speranza di un incontro alla luce della fede in Dio che accomuna cristiani e musulmani  nella preghiera del mattino in lingua urdu recitata in Pakistan: “Dio del cielo, unico Dio...”               Maria Luisa Bressani

 

 

 

 

 

 

Dalla Tesi per i Vent'anni del Settimanale cattolico

Intervista al cardinal Siri 

Il cardinal Canestri e la Vocazione

Aggiungo ora due interviste che mi sono servite più di tante lezioni di vita, di storia e di religione e che non ho pouto pubblicare sui giornali cui collaboravo perché può succedere che quando un cronista propone qualche articolo importante proprio per la personalità di chi dà le notizie, in questo caso i due cardinali, scatti una sorta di gelosia interna a qualche redazione. In passato l'ho sperimentata e sono rari i "capi" che ricordo con affetto e stima per la loro lealtà e capacità di accogliere senza pregiudizi come è stata la mia collaborazione con Massimiliano Lussana per dieci anni alle pagine di Genova de Il Giornale da lui dirette. Sarà perché ha l'età dei miei figli? Mentre un tempo ero io a scontrarmi con "capi" con anni più di me.

Ricordo però un giudizio per cui trattenni le lacrime e poi riferendolo ad una giovane, Alessandra Perrazzelli, che ora è diventata donna in carriera fino al punto di esere insignita del Premio Marisa Bellisario questa mi disse: "Ma che gran complimento se lo avessero fatto a me!

Quel giudizio: "Lei è ostinata come un kamikaze giapponese" (era sottinteso che la mia ostinazione era diretta a  ciò che il "capo" considerava un errore giornalistico).

Ho riletto le mie "bellissime" interviste inserite nella Tesi su "I vent'anni del Settimanale cattolico diocesano"  e mi è venuto in mente quando il prof. Bianchi  alla Scuola dell'Università Cattolica ci raccontò del suo primo articolo che andò in pagina con l'inizio e il finale tagliati e ho considerato che i miei due scritti di cinque pagine ciascuno erano improponibili come articoli. Ho sempre conservato un pezzullo di Giovanni Raboni con titolo: "Ma solo dai giornali s'impara la brevità". Ecco perché come nel caso di uno dei miei racconti a me più cari riguardante Alberto Helios Gagliardo e che ho già inserito in questa pagina ho fatto un sunto e così mi accingo per i due articoli sui cardinali (capitolo VII della Tesi sul Settimanale: "I giornalisti").

Ancora un ricordo sulla tesi precedente sul Cittadino che portai alla Biblioteca del Seminario. Mi telefonò poi mons. Luigi Roba per dirmi che mons. Andrianopoli voleva leggerla ma era scomparsa che avessi pazienza e fornissi altra copia della tesi se l'avevo e riteneva che se possibile lo avrei fatto senza adombrarmi perché nella mia ricerca in Seminario sulle annate del Cittadino aveva constatato che ero "buona d'animo". Allora  portai una delle mie due copie. Andrianopoli, che dopo un primo colloquio mentre elaboravo la tesi si era negato ad altri dialoghi,  mi disse: "Se avessi saputo che avrebbe scritto così Le avrei dato tutto il mio appoggio". Temeva infatti che avrei pescato nel "presunto" torbido sulla chiusura del Cittadino come sono soliti fare tanti giornalisti per cui se non c'è "il torbido" non si sa far giornalismo ma c'è anche un modo di scrivere che non è insabbiare, semplicemnte è non dar ali a pettegolezzi, gossip, cattiverie se non hanno un reale riscontro di fatti e sono solo presunti. Mi diceva il mi primo caporedattore - ed aveva ragione! - : Perché vuol scrivere questo e dar voce all'errore? Se le dicono che "un asino vola" lei lo scrive?" Ora forse non è possible come faceva Erodoto scrivere solo ciò che aveva visto con i suoi occhi però almeno non correre dietro ad ogni pettegolezzo, non dargli ali...

Mi sono sempre chiesta chi potesse aver sottratto la tesi  (che certo poteva benissimo esser stata solo persa, però c'è anche una serpeggiante invidia e quella tesi poteva servire da lasciapassare a chi come  me inziava un lavoro nuovo, poteva essere una buona presentazione) e penso in questo caso, se ci fu una sottrazione volontaria, non ad una donna che però poteva aver da buona cattolica addentellati con il Seminario. Le donne sono più pronte ai tiri mancini. Proprio in quel periodo la redattrice di una prestigiosa rivista  mi aveva combinato un pasticcio alla pubblicazione di un mio racconto (Rivista Occidente/Oriente collegata al Premio Bontempelli dove avevano segnalato il mio manoscritto Leggende Arrabbiate). La redattrice abitava - guarda caso - a due passi da me, in piazza Duca degli Abruzzi anche se non la conoscevo di persona. Mi ero però trovata in Comune per la Carta d'identità ed ero in fila dietro di lei per cui ne sentii nome e cognome e la identificai e quando uscì i funzionari ridevano perché aveva chiesto  che sulla Carta modificassero la sua vera età: "ah com'è triste quando le donne non si rassegnano ad invecchiare!,  o non sanno accettare che ci sono altre ragazze da comprendere ed aiutare non da trattare come nemiche giurate!"

Per quel racconto "Un Bip", storia di un bimbo con un po' di fantasia che si sente solo e s'inventa un compagno immaginario, un pulcino,  raconto che era stato ospitato sulla rivista avevo protestato con il direttore  per quanto era stato appesantito nel mio scritto con aggiunte e per quanto modificato. Modificando si poteva farti dire ciò che altri volevano e non tu. Il direttore Armando Ghelardini che mi aveva segnalato al Premio di cui era responsabile, mi disse: "E' stato modificato perché non stava in piedi". Replicai: "E allora perché lo avete segnalato e accolto?" 

Interruppi subito la collaborazione. Forse oggi avrei imparato a dialogare di più pur facendo le mie legittime ragioni. Ero troppo assoluta ed avendo conservato la lettera di risposta dell'Editore ho constato che con la mia impetuosa riposta devo averlo offeso, che mi accusa di esser stravolta dall'ondata di femminismo (cosa del tutto non vera, ma l'escalation da "furiose" delle donne deve aver molto infastidito anziani gentiluomini d'un tempo) e ho constato che c'è ad un certo punto un suo punto interrogativo come a chiedermi: "Vuol continuare a collaborare e seppellire l'ascia di guerra?" Ho di recente comprato per un nipotino un Maxi Zagor e come al solito "m'identifico perfino nel personaggio con la scure", scusatemi... Però quante occasioni perdute non per mancanza d'umiltà ma proprio per l'esser assoluta... E purtroppo resta anche la coscienza che a chieder scusa si arriverebbe troppo tardi: a me - purtroppo - qualche volta è successo.

Considerate che bella compagnia di penna mi sia persa interrompendo la mia collaborazione alla rivista Occidente/Oriente legata al Premio Bontempelli

Anzi chiedo scusa ora con le parole di un'anziana signorina Iole Siri che abitava nel mio stesso condiminio e soleva ripetere: "come si è stupidi da giovani..." Allora non avevo ancora sperimentato collaborazioni giornalistiche dove con i "tagli" ti presentano come se tu avessi scritto cose di un'ignoranza abissale come quando per un taglio figurò in un mio articolo che Goya era un impressionista o dove in un altro su un biblioteca storica di Genova (bellissima serie quella dei miei articoli sulle Biblioteche storiche!) riscontrai in 40 righe 15 refusi...

Chiedo scusa ora mettendo la presentazione di quel numero della rivista dove figurava il mio "Un Bip". Non ricordo dato che l'ho in stampa ma conservato con sottolineate le righe aggiunte se era già stato pubblicato o se quella fosse una sorta di bozza data a me per "l'ok", mentre poi quel racconto lo pubblicai come l'avevo scritto su Sìlarus e a me ciò fu di consolazione, però con quella lettera ad Armando Ghelardini in cui per me era chiaro che non ci poteva essere possibile collaborazione credo di aver sprecato un'occasione vista la compagnia di belle firme tra cui mi sarei trovata.

E scrivo oggi questo perché non è che non si sbagli, anch'io ho sbagliato come vedete nel messaggio qui di fianco che mi fu inviato da non so chi del Settimanale dato che la firma è incomprensibile, che allora mi atterrò di vergogna  e per cui solo un'altra anziana signorina ebbe per me parole di consolazione: "ma come...pitoccare su un verbo quando ci sono nel tuo scritto tante belle idee", però aveva ragione il "censore" pur se si sbaglia...eccome! Però c'è anche l'altro aspetto: perché con certi altri "capi" ho potuto andar d'accordo e in armonia, sentendomi perfettamante a mio agio: penso in primis alla mia collaborazione ad Archivum Bobiense con il prof. Flavio Nuvolone, penso a Sìlarus di Italo Rocco e nel giornalismo penso a Gianni Buosi (Il Giorno), Sandra Monetti (il Corriere Mercantile), Massimiliano Lussana e prima di lui al Giornale con Pippo Zerbini e per tanti anni a mons. Giulio Venturini e don Silvio Grilli.

Però ora ho voluto rileggere bene le aggiunte e vedo che ad un certo punto è perfino scritto: "Mi giudicate infantile? Ascoltate..." e invece sposata verde quando le mie compagne frequentavano ancora le discoteche, passavano pomeriggi a cucinar meringhe ecc., mi sentivo tanto matura e anche spesso tanto affaticata, tanto piena di buona volontà... E poi in quel punto il mio discorso che diceva della "stanchezza che provavo talvolta per il mondo così com'è" ridimensionandola con il passaggio ad un mio talismano "il sogno"  subito però crescendo di lievello con il pensiero di "chi ha detto che con un granello di fede si possono trapiantare i gelsi nel mare o smuovere le colline" filava benissimo: lo dico oggi che lo rileggo e a me stessa dico: "Smettila di cospargerti il capo di cenere per retrospettivo buonismo, avevi qualche buona ragione e lo scrivere in coscienza non va toccato (lo sai bene ora che talvolta ti è capitato di correggere cose d'altri e lo hai fatto rispettandole). Quel tipo di scrittura sa parlare da sé e bene, come appunto in quel caso".

 

 

 

 

 

Di Minnie Alzona, grande scrittrice genovese penalizzata per la conoscenza su piano nazionale dal .fatto che Genova fa parte a sé, ho recensito molti testi e lei mi ha voluto bene per questo. Diceva che nei suoi libri metteva sempre un po' di storia per dare una maggior consistenza al racconto.Di lei ho amato in particolare il libro di racconti Il pane negato e dove parla di sé come  "La bambina che voleva avere un dolore" per emulare un'altra compagna che il dolore l'aveva vissuto e poiché in quell'esperienza aveva visto il segno di maturità che il dolore ci lascia.

E qui riporto la parte centrale della conferenza che tenne sulle Lettere parlando di mia madre. Gli altri relatori: Mario Cervi che parlò da par suo di mio padre, Franco Bovio che fece il moderatore e Renato Dellepiane, preside del liceo King di cui nella pagina filosofia dove figura un bel testo di Nicolò Scialfa sulla scuola inserirò un'intervista a lui di Paolo Granzotto sul Giornale

Minnie Alzona 23 maggio alla Berio

da Lettere d'amore e di guerra

parla di Ida Ragaglia Bressani e la guerra

 

Inserisco ora l'articolo sul Giornale del 17 dicembre 1982 per i 90 anni di Alberto Helios Gagliardo firmato dalla brava Betta Bartolini. Di Gagliardo alcuni dipinti sono alla GAM di Nervi (come l'autoritratto con la moglie di cui metto la foto) ed affrescò - cosa che molti ignorano - la Valle dei Caduti , il Sacrario presso Madrid. Dell'articolo di Bartolini mi piace molto la chiusa in cui Gagliardo si definisce un uomo buono e mi sembra che i nostri giorni politici avvelenati e quindi la nostra convivenza civile avvelenata abbiano più che mai bisogno di bontà.

I miei genitori mi mandarono a lezione da Gagliardo nell'estate dopo la terza media per non lasciarla "impigrire" e come risarcimento ad un tipo di studi (liceo classico) che con la pittura non aveva niente a che fare (a parte ritrovarmi il professore Gennaro di filosofia e anche pittore).

A Gagliardo dedicai un racconto  Un quadro nell'aria pubblicato su Sìlarus, n. 93 del 1981.

L'incisione che ha dato origine al racconto mi è stata chiesta in dono da uno dei miei figli e l'ho accontentato (era il dono di nozze di Gagliardo per me che incise anche la lastra a bulino per la mia partecipazione di matrimonio). Nel racconto io ho visto un vecchio che guidava un giovane alla conoscenza o alla speranza di un mondo migliore e mio figlio mi ha fatto notare che trattasi indubitabilmente di "Giuseppe e Maria nella Fuga in Egitto". La fantasia di chi scrive  (in questo caso io) può giocare scherzi.

Del mio racconto riporto solo la parte finale. All'inizio parlavo dell'insofferenza che provai a quella prima lezione mentre il pittore aspettava che iniziassi a tracciare le prime righe a carboncino fermo dietro di me. Dovevo disegnare un dado, un calamaio e una pergamena. Ero brava nel colore ma non tracciavo una forma a dovere tanto che  per i vasi che a scuola alle medie dovevamo invariabilmente disegnare l'esecutrice  era la mia compagna di banco, Bernardi, poi professoressa di matematica, e poi io coloravo.

 

Scrissi: "Sento caldo e freddo. Gli sono ostile come di più non potrei. Sto incerta se alzarmi, imboccare la porta, scappare senza saluto, o far qualcosa per rompere il sortilegio malefico. Muovo la mano sul foglio. Con rabbia: una due tre righe, come viene. L'uomo prende un altro carboncino: due segni e esisteva il cubo, due tratti accennati in aria e gli oggetti volando via dalla mensola, si incollavano sulla carta, aderendo nel modo più vero. D'improvviso sembra facile continuare. Penso di riuscirci.

"Senza una parola l'uomo s'allontanò. Salì la scaletta della soffitta. Un sospiro di sollievo. Un attimo ferma a riprender fiato, qindi incomincio a meter giù tratti su tratti lungo quelle linee immaginarie che l'uomo aveva tracciato in aria e che ora vedo nitide sul foglio. Di tanto in tanto alzo la testa e tendo l'orecchio timorosa di sentire un passo giù per la scala. Invece no. Era scivolato via con incredibile leggerezza ed ogni volta nel corso delle lezioni mi accorgevo che era tornato dalla soffitta solo per l'ombra che correva lungo le pareti dello studio, per la figura asciutta che d'un tratto s'incastrava tra le tele e gli oggetti, mai per il rumore. Il silenzio facilita l'ascolto interiore".

 

Nel racconto ricordo un insegnamento fondamentale: "In un quadro bisogna sempre mettere una sorgente di luce, cercare il punto più luminoso, su cui graduare i riflessi, cui condizonare l'ombra. Quel punto è il cuore". E osservavo: "Conosco l'esigenza di cercare il punto-luce dovunque, non solo in pittura".

Inserisco ora la foto di Gagliardo con la moglie conservata alla GAM di Nervi e la fine del racconto.

 

Ched'è la Patria

di Marcello Stenti

prigioniero nel campo di Saida in Algeria (1943)

Aggiungo ora una poesia di Marcello Stenti, compagno di prigionia a Saida in Algeria di mio padre, il capitano Edgardo Bressani: Ched'è la Patria. La Poesia è stata pubblicata in Lettere d'amore e di guerra, epistolario dei miei genitori dal 1934 al '45: mille lettere. Il titolo mi fu suggerito dalla mia compagna di banco al Liceo, Ninetta Durand allora in un letto per il ripresentarsi con metastasi del cancro al seno che l'aveva colpita vent'anni prima. Ninetta era venuta ad abitare a Nervi e quindi andavo spesso a trovarla e l'unica della nostra classe che venne con me da lei è stata Chicca Conte Bernardi che si è spenta quest'anno colpita da analoga malattia, una gran signora che lascia una bella famiglia, il marito, due figli allevati bene, due nipoti. 

Questa Poesia mi sembra necessaria in un momento politico come il nostro in cui tutti dicono di lavorare per il bene comune cosa invece molto opinabile nel vedere ciò che fanno. Forse molti non hanno mai capito cos'è Patria.

  

Nel racconto dedicato a Gagliardo avevo scritto che "quel disegno nell'aria" della prima lezione di pittura mi aveva incantata come una magia e che allora "non sapevo che pochi sono capaci di tanto, di dipingere con un gesto solo, illuminare con una parola sola".

Gagliardo al termine di quella breve estate a lezione di pittura disse che "avevo talento", parole che come sentii ad una mostra su Giannetto Fieschi aveva usato anche per lui, suo allievo, segnando il suo destino di pittore. Era infatti un giudizio che non dispensava quasi mai. Invece per me le accolsi con stupore umile comprendendo che non sarei mai stata capace in pittura di un lavoro indefesso come quello operato da Gagliardo ed attestato dalle molte tele accatastate nello studio in via Porta degli Archi lungo le pareti.

Poi però provai a ritornare il bene ricevuto da quelle lezioni occupandomi quando potevo di Musei e Mostre. Anche il gusto o l'occhio hanno bisogno di affinarsi.

Inserisco ora la foto  di Giannetto Fieschi ritratto da Galardi e però voglio ancora ricordare che cercai Gagliardo all'inizio del mio giornalismo per chiedergli chi potessi intervistare come massimo artista in Genova. Era sordo, la moglie fece da interprete e fui inviata allo scultore Edoardo Alfieri.

L'intervista che gli feci fu per me uno dei momenti alti del mio lavoro da giornalista perché Alfieri mi ricevette nel suo studio commentando l'arte con il libro Ipotesi di Gesù di Messori in mano e tracciando paralleli tra fede, sacro e arte. Più tardi quando già Alfieri non era più andai a Villa di Buia dove riteneva che la prima Chiesa lì ricostruita dopo il terremoto del Friuli fosse  "il suo Museo personale" in quanto il prete lo lasciava libero d'esprimersi e non pretendeva che scolpisse il santino che le braccia in croce. Mi disse anche -amaro- che la Chiesa del coraggio non se l'era mai trovata al fianco.

E quella mattina dell'incontro Alfieri mi aveva avvertito di non sostare nella piazzetta antistante lo studio, meta di drogati, e di chiamarlo perché il campanello era rotto ma lui avrebbe lavorato a fianco della finestra e se lo chiamavo sarebbe scesa ad aprirmi una delle gemelle Maisano che lavoravano con lui.

La piazza quella mattina era deserta, provai a chiamare e vedevo la testa di Alfieri che si muoveva avanti e indietro presso la finestra ma lui non sentiva. Vidi uno spazzino, giovane e con una faccia da schiaffi, che mi osservava e che si stava anche avvicinando a me per no so qual motivo per cui provando un filo di paura (era proprio uno spazzino?) lo precedetti chiedendogli di aiutarmi a chiamare. Allora, sorridendo, il giovane alzò un'incredibile voce da baritono: "Alfieri, alfieriiii..." e lo scultore si affacciò stranito alla finestra. E' un mio bellissimo ricordo perciò allego anche  l'articolo da me scritto per la Mostra postuma organizzata dalle gemelle Maisano.

Anche in questo testo di Virgilio Melchiorre il rapporto unico tra madre e figlio ripercorso attraverso Pirandello e Mersault

      

Mostra Edoardo Alfieri  

Le gemelle Silvana e Stefania Maisano, scultrici ed eredi universali di Edoardo Alfieri (1913-‘98), hanno donato a Genova 25 sue sculture e 86 disegni. Il percorso espositivo (fino al 15 febbraio) è in cinque sedi: in Regione (la scultura Caino e Abele, simbolo del ‘900, secolo killer), in Provincia (disegni, il primo librino-catalogo con copertina di Gino Paoli, il bronzo del’40 Ritratto di ragazza fiorentina, gli altorilievi per l’inaugurazione nel ’54), a Palazzo Rosso 70 disegni, sculture alla GAM di Nervi (che festeggia 80 anni dall’apertura) e all’Accademia Ligustica di Belle Arti di cui Alfieri fu Accademico di merito nel ’48 e docente.

Alla GAM, tra altre opere in donazione, il cemento Furor Matematicus per la cui geometria barocca Alfieri s’ispirò al libro dell’amico ingegnere Leonardo Sinisgalli ed è nuova l’indagine critica sui loro rapporti; all’Accademia c’era l’uso che ogni nuovo accademico donasse un’opera, norma già decaduta nel ’48 perché mancavano sue sculture prima della donazione dei sei bronzi, databili 1944-61. “I Maestri, - e io ne ho avuto qualcuno diceva Alfieri citando Galletti, Wildt, Messina –  per insegnare usano parche parole, gesti, esempio di lavoro; spesso sono umili come Jacopo della Quercia. Da insegnante all’Accademia intervengo se nel disegno manca la convinzione per cui non bastano esercizi”.

Dai 70 disegni donati a Palazzo Rosso (una delle più importanti raccolte di grafica anche a livello nazionale) si rileva la sua partecipazione ai concorsi cittadini: gli studi per le gigantesche Fede e Speranza (porticato di Sant’Antonino a Staglieno), concorso vinto nel ‘53. Si apprezzano i disegni per il Cristoforo Colombo, donato nel ’55 alla città di Columbus in Ohio, e quelli della collaborazione con il triestino Pulitzer per opere di tre transatlantici della Società Italia, tra cui il Convito per la Giulio Cesare e Il sogno del capitano per la Leonardo. Suggestivi gli studi per la Chiesa dei Santi Pietro e Paolo d’Avilla di Buia (provincia di Udine), prima ricostruita dopo il terremoto del ‘76. Alfieri la considerava suo museo: è stato un cattolico inquieto de Il Gallo e al suo fianco avrebbe voluto la “Chiesa del coraggio” che ritrovava a Buia nel colto don Saverio Beinat. I rilievi nel pannello di destra dell’altare s’intitolano La Terra Promessa come aveva chiamato il monumento per Luigi Carlo Rossi, grande manager dell’Elsag: “La Terra Promessa è stato il cammino di una generazione per cambiare e rinnovarsi, sia di quella del dopoguerra sia dell’antica che attraversò il Mar Rosso”.

Guida indispensabile alle Mostre è il Catalogo (Maschietto Editore) con  saggi di Maria Flora Giubilei, Giulio Sommariva, Matteo Fochessati, Piero Boccardo; è anche radiografia di un uomo “scomodo e pugnace” come l’antenato Vittorio Alfieri.

                        Maria Luisa Bressani

 

 

 

 

 

 

 

  

Terra Promessa

di Edoardo Alfieri

Agostino Zucco mi ha insegnato il primo latino e mi ha accompagnato nei mei studi fino all'Università dove il prof. Enrico Turolla lo chiamò a tenere un corso di Sanscrito. Infatti il prof. Zucco aveva imparato da autodidatta molte lingue tra cui il Sanscrito. Di quegli anni universitari ricordo di aver studiato Sanscrito e anche Bizantino, ma non ne ricordo quasi niente salvo la bellissima storia in Sanscrito di Nalo e Damayanti (se così si scrivono i  loro  nomi, ho comunque la pubblicazione per controllare). Ad una mia carissima allieva del mio unico anno d'insegnamento al Liceo D'Oria, Daniela, oggi dottoressa, che incontrai per strada qualche anno fa e mi chiese di dar lezioni d'italiano a suo figlio perché lei ricordava lo stimolo che aveva ricevuto  dalle mie lezioni mentre  i professori di suo figlio non gli suscitavano altrettanto interesse, dovetti rispondere, pur lusingata e con rincrescimento, che non ero  più in grado d' insegnare bene Letteratura italiana.

Per insegnare come per fare giornalismo ci vuole sempre quella professionalità che nasce dal non lasciar passare giorno senza esercitarsi.

Ho avuto l'onore di poter scrivere la prefazione del libro Nel Tempo ed Oltre di Agostino Zucco.

La foto della mia mamma Ida Ragaglia

ragazza di Bobbio nel 1934 a 19 anni.

Lei, la mia prima maestra di scrittura

Giuseppe Siri il cardinale "con una faccia sola"

Gianfranco Bianchi, mio relatore della Tesi sul Cittadino mi suggerì d'intervistare il cardinal Siri quando compiva gli ottanta anni e i quaranta di governo pastorale nella primavera dell'86. Titubai a lungo, amo da sempre gli umili, la mia ricerca è stata sempre a loro indirizzata per quanto ho potuto, così lasciai decadere il principio dell'attualità giornalistica e una mattina di fine settembre fui poi ricevuta nelle udienze pomeridiane dal cardinale cui avevo inoltrato richiesta a tesi già discussa.

Siri mi disse che non rilasciava mai interviste, ma non fu avaro di notizie. Mi pregò se avessi scritto nell'immediato di riportare le sue parole come mie osservazioni sulla sua opera, però mi ripeté anche: "Le racconto tutto questo perché un giorno lo scriva".

Inserii poi la mia "intervista" nell'altra tesi all'Università cattolica per la Scuola di specializzazione in giornalismo (Scuola nata dalla precedente di cui era solo uno dei tre indirizzi), ed ora la riassumo nei momenti principali. 

Inizio però da ciò che Siri mi disse testualmente alla fine di quel colloquio.

Siri per alcuni anni venne ad officiare la Messa al Campo degli Scout del Gruppo di Nervi-Quinto di cui era akela Mario Baldini e cui erano iscritti i miei figli. Ad una Messa gli Scout intonarono Il Madonnina rossa e blu canzone simbolo del gruppo composta da un vecchio capo Scout sulle note del Valzer dell'addio. Siri ritmava la musica con la testa e io lo ricordavo quando veniva per il ritiro pasquale in Albaro in una Chiesina di Suore per noi allievi del D'Oria e il nostro sacerdote di religione, don Franco Guttuso, si affrettava a dire di nascondere le chitarre e far silenzio al suo ingresso. E nell'intervista Siri mi raccontò del suo amore per la musica, dei Festival di Salisburgo dove trascorreva la pausa estiva e del musicista che più gli piaceva, Schubert, anche per la vita infelice  con morte precoce. Mi disse che aveva praticato la musica in seminario con l'amico don Pertica ma di aver smesso dopo il ginnasio: "Fu un bene. Dietro la musica avrei perso la testa e non avrei fatto altro".

E ancora ricordo Siri  festeggiato al Margherita per i 30 anni di porpora. Il Teatro era strapieno pur in una giornata fredda e ventosa e Siri commoso esordì così: "Non so perché, ma oggi, di fronte a voi, mi sento così piccolo" e si scatenò un applauso, lungo  più di cinque minuti, come mai più i genovesi ne tributarono.

 Ma la stampa cittadina si dimenticò di ricordare le pagine di coraggio che restano scritte nel Cittadino al tempo della guerra, la testimonianza su Boetto e Minoretti che l'ordinò sacerdote nel '28 e nel '53 fu nominato cardinale con altri 23 vescovi, tra cui Roncalli, Lercaro, Stépinac (trattenuto in carcere a Zagabria), Wyszynki (costretto a non partecipare). E quello è stato il Comunismo...Schifoso!!!

Siri fece edificare 80 nuove chiese con il loro potere di aggregazione, con l'opera di vera socialità. Nel 50/60 ebbe la Presidenza delle Settimane sociali, la Presidenza della Conferenza Episcopale italiana e quella della commissione per l'Azione Cattolica e quella delle Federazioni del clero. Fu tre volte legato pontificio in Spagna per le celebrazioni centenarie di S. Ignazio di Loyola (1956), in Belgio (nel 1958) e poi per il matrimonio di Re Baldovino (1960). Fu direttore di Renovatio rivista di teologia e cultura che chiuse nel '93.

Era uomo frugale e se gli regalavano anche un cesto di frutta, diceva: "Portatelo ai poveri che hanno più bisogno". Né vuotò le casse della Curia.

Nel pensare ai problemi di Genova ricordava i pochi uomini che la resero fiorente tra Otto/Novecento e del senatore Erasmo Piaggio diceva: "Se suo figlio Rocco fosse vissuto più a lungo, Genova avrebbe pianto meno".

 

 

 

 

Giovanni Canestri e la Vocazione:

"Se è sì, è sì"

Inserisco ora sempre dalla Tesi ciò che il cardinal Canestri disse nella sua visita nel '91 ai giovani  al Collegio Emiliani di Nervi (150 convenuti).

Il cardinale concluse con il ricordo di un giovane da poco proclamato beato Piergiorgio Frassati, 24 anni d laureando in igegneria mineraria quando aveva voluto seguire la vocazione.

Di Canestri nella Tesi ricordavo anche tre articoli che ben ne presentavano pensiero ed opera. Il primo di Antonio Giorgi su Avvenire in cui esprimeva il suo pensiero su Genova, considerata la città dei mugugni, mentre lui la definiva la città di Maria come attestano le tante edicole mariane (un tesoro d'arte e devozione) nel centro storico.

Un altro sul Settimanale cattolico del 13 febbraio '92 in cui parlava di una della realizzazioni più importanti del suo apostolato: la missione di Santo Domingo.

Il terzo di un giovane inviato del Settimanale. Alberto Viazzi (1° ottobre '92) sul viaggio in Terra Santa di Canestri e il cronista dipingeva la ealtà di Gerusalemme: 340mila ebrei, 121mila musulmani e 14mila cristiani.

Infine di Canestri ricordo l'affabilità quando alla festa di S. Francesco di Sales si posizionò in fondo alla sala in Curia per salutare noi giornalisti lì convenuti e facendomi coraggio -perché non lo dissi mai per non essere in ambito cattolico raccomandata e dovunque nei giornali non volli mai far sapere né famiglia di provenienza o altro in quanto credo solo nel merito da dimostrare - gli dissi che mio zio era stato Don Pino Zambarbieri, mosso al sacerdozio da don Orione e suo terzo successore. Canestri s'illuminò: "Un amico" e poi mi  disse che volevano istruire per lui la causa di beatificazione.

Allego ora una della tante cartoline di mio zio (altri due sacerdoti, i suoi due fratelli: Mons. Angelo, vescovo di Guastalla e  don Alberto che a Tortona si definiva "soldato semplice di Dio") in cui mi dice "brava" per aver parlato nel mio racconto "Bobbio per me" premiato al Primo Premio Città di Bobbio della Bobbio degli umili, quella della sua infanzia e quella che amava.

Devo a don Pino, da me assunto come mia guida spirituale per i tanti saggi consigli, se ho voluto scrivere. Iniziò con il dirmi: "Il dolore (e chi non ha dolori nella vita e v'invito ad andare alla pagina In Memoria dove troverete alla parola dolore una scritta in una chiesa che mi è cara) ti ha lasciato il dono della penna, vedi di farne buon uso" e ancora: "t'immagino sulle orme di Ignazio Silone" nome iportante per gli orionini in quanto conobbe personalmente don Orione e fu da lui accolto in collegio quando era rimasto orfano dopo un terremoto e qui mio zio pur dandomi un incitamento sbagliava perché non si può darsi il valore che non si ha (anche quello di penna) e infine una volta, la decisiva, quando avevo rinunciato ad insegnare per non nuocere con un ricorso a quella collega che mi aveva preso il posto e si calcolava un falso punteggio, don Pino mi disse: "Non chiuderti in casa, fallo per i tuoi figli. Devi conoscere il mondo se vuoi saperli accompagnare". E fu anche così che continuai a scrivere e poi da giornalista imparai responsabilità e  gioia di una penna al servizio della gente. 

 

La notazione sugli umili è qua sopra di traverso in quanto un tempo si utilizzava ogni spazio di cartolina per la scrittura. Di don Pino ricordo una bella frase a proposito di don Orione: "Questi era solito dire che di Santi fessi in Paradiso non ne era salito nessuno". E' lo stesso concetto della "santa furbizia" indicato da Papa Bergoglio, la furbizia di evitare le trappole del male.

Inserisco la foto che don Pino, morto nel gennaio 1988,  con orgoglio mi aveva inviato di Giovanni Paolo II e lui. Aveva conosciuto il Papa in  Polonia, lo considerava un amico e fu entusiasta alla sua elezione perché spesso mi parlò delle anticamere che doveva fare in Curia, anche a Genova dove un cardinale poteva essere soffocato da una corte opprimente e quindi poco libero di seguire desideri e contatti umani.

Ho tra le mani anche il libro che gli è stato dedicato per raccogliere le testimonianze per la causa di beatificazione: Giovani sempre a cura di Giovanni Marchi (che ho conosciuto) e di don Giuseppe Masiero (1989)

Sono molto grata a Maria Luisa Bressani per avermi invitata a partecipare a questa tavola rotonda i cui relatori sono (non sarebbe il caso di ripeterlo) quanto mai illustri. Ma soprattutto per avere scritto un libro che a ragione è stato definito un affresco familiare e storico. E di averlo strutturato con una sapienza consumata. In quanto le lettere d’amore sono riportate con l’ordine della data in cui furono scritte ma precedute ognuna – a seconda della scelta dell’autrice – con un commento fedele a un gioco di memoria...

...Ma torniamo a queste lettere uscite in un momento in cui la parola guerra non era mai stata pronunciata con tanta animosità e ribellione. Suppongo che quando si arrese al desiderio di pubblicare o meglio scrivere questo libro la Bressani non pensasse che sarebbe uscito in un momento tanto attuale. A parte che nel mondo vicino o lontano le guerre son di casa. Ho parlato di attualità il ché ha un’importanza relativa, perché quello che conta è che senza volerlo ci ha fatto del bene. Anche dando – a coloro che hanno combattuto la guerra mondiale (l’ultima nell’ordine) in Africa – lo spazio che non gli era mai stato destinato. Presi come eravamo dalla tragica ritirata in Russia o dalla sconfitta e dalle stragi che si abbattevano sull’Europa.

Quella di combattere in Africa era una sofferenza disattesa, un eco quasi, l’ombra di una guerra, qualcosa che accadeva in un altrove che ci apparteneva appena. (Eppure aveva dei precedenti che anticipavano la dichiarazione della guerra mondiale) mentre per l’autrice fu una prova dura: vi combatteva Edi l’autore delle lettere a Ida la sua fidanzata e infine sposa.

Non vorrei personalizzare questo discorso ma mio marito perse un fratello di 23 anni, aviatore nel ’27 mentre stava compiendo su di un caproni un volo di ricognizione in Cirenaica. E fu per tutta la famiglia un lutto così grande che morde ancora a distanza d’anni.

Così come il generale Ricagno, figlio della sorella della mia nonna materna, fu fatto prigioniero dopo essere stato accerchiato con la sua divisione Julia in Russia, e rimase rinchiuso 11 anni alla Lubianka e liberato negli anni ’50 con il generale Battisti. Né posso dimenticare quanto fu atroce la ritirata di mio cognato in Russia, il quale vide persino nascere la violenza a danno dei propri compagni in fuga.

Nella mia famiglia vi era la gara dei generali: ognuno rivendicava il proprio e Badoglio tenuto in gran conto in casa Alzona, in quanto come parente tenne il cero al battesimo di mia suocera (usanza in disuso), poteva fare e disfare, conquistare l’Etiopia e andarsene con la famiglia reale al riparo lasciando Roma dopo l’armistizio, che andava sempre bene.

E finalmente chiudo questa parentesi scusandomi di averla fatta un po’ lunga, ma era per di mostrare quel tasto abbia toccato l’autrice anche andando oltre l’amore provato , provato dalla guerra dei suoi genitori, che vissero questo sentimento con “un’anima sola”. Lo dice Ida quando ricorda l’incontro con Edi a Bobbio (ormai divenuto un “paesaggio dell’anima” secondo la Bressani) alla festa dell’uva: lei studentessa delle magistrali, lui venuto da Trieste con un concorso da procuratore nell’ufficio finanziario di Bobbio e sottotenente di complemento dell’arma dell’Artiglieria pesante.

La differenza era grande tra Bobbio e il suo luogo di provenienza, figurarsi: Trieste cosmopolita, di spirito mitteleuropeo, di vivacità asburgica, tanto che negli anni vissuti a Bobbio insiste spesso su quel “calvario ed esilio”, ma una volta lontano dichiara anche: “spero di tornare presto in quella residenza infernale, per te … paradiso terrestre”.

La prima lettera fotocopiata dall’originale, scelta come epigrafe del libro e datata 9-II-1943, XXI era fascista, è quella che parla del bombardamento di Kairouan che fu il suo battesimo del fuoco ed è uno specchio della guerra così devastante ed orrido a cui l’autrice fa seguire come riscontro la lettera di Ida quando tornata ad insegnare nelle vicinanze di Bobbio la raggiungono nella frazione dove insegnava (siamo nelle ultime battute della guerra) “non se ne può più di rastrellamenti, di repubblichini e fiutando il pericolo die nazimongoli mentre piove acqua ghiacciata, con Marisa sulle spalle e Uccio per mano salgo sui monti, mentre le pallottole fischiano a breve distanza”.

Non stupisce il coraggio di questa giovane donna che durante tutti gli anni di matrimonio (nel ’37) non ha fatto che seguire il marito da Bobbio, alla Sicilia a Trieste dove abitò prima coi suoceri amata ed apprezzata dal loro, poi in un piccolo quartierino insegnando a Barca sulla costa slava e infine da Trieste ancora a Bobbio e da Bobbio a Carisasca nella Val Trebbia dove riprende ad insegnare, sempre infondendo coraggio a Edi, quando caduta Tunisi fu poi fatto prigioniero a Saida e cominciò a patire le ferite dell’anima e perde entusiasmo e speranza. (Non va dimenticato che aveva fatto domanda di partire volontario).

“Vorrei essere un tuo compagno, ti scriverò due volte al giorno, il mio per te è un amore celeste” e lui in risposta “Tu sei per me l’aria che respiro”. Così in un’infinità di flash-back si alternano le lettere che rappresentano l’oasi, la favola del libro. Il loro era un amore che aveva radici nell’anima e non era soggetto a inganni, doppiezze.

Penso però che la durata e l’intensità di questa unione siano dovuti in gran parte ad Ida. Ida è dotata di un grande coraggio e del buon senso di gestirlo. E’ capace di prendere le decisioni dovute, resta semplice anche nell’affrontare le avversità. Si considera una monella ma sa essere materna quando è il momento. Basta riflettere su come agisce in determinate occasioni. Non sorprende che Edi continui ad esserne invaghito.

In una lettera Ida scrive “come sarà dolce il giorno che tornato a casa sari tra noi e potrò sentirmi protetta”. Ma è lei che sa proteggere chi ama, né vanno dimenticate le parole di Ida in risposta ad una lettera di Edi dopo il bombardamento di Kairouan. “Non so perché Ida ma in me spesso affiora la disperazione. Non vedo via d’uscita. E’ terribile”. Lei lo conforta in mille modi: “Le tue parole riflettono l’ambiente orrido in cui vivi. Temi di perdere la tua sensibilità da quando ti ho lasciato a contatto con sempre maggiori orrori… Tu non sei solo, ci sono io con i tuoi bimbi, noi siamo tutti sempre con te con pensiero e preghiere”. E conclude: “Fa che al tuo ritorno non trovi un uomo indurito dai dolori e dai disagi, ma, anche se fosse, che il ghiaccio si sciolga con l’abbandono di una volta”. E aggiunge: “Vorrei essere al tuo fianco, dividere con te i pericoli, le angosce, dormire nella tua tenda; se non avessi i nostri tesori, mi sarei vestita da soldato e ti avrei seguito, farei il tuo attendente”.

Quest’alleanza che non conosce flessioni è una delle sorprese più belle della loro unione. Non ricordo più, ma disse bene chi lo disse, quando definì questo tipo di amore tanto bello da sembrare un’amicizia.

                   Vi ringrazio dell’ascolto

 

 

Minnie Alzona ha scritto: Quarta dimensione (Di Stefano 1955), Processo alla camerata (Premio Manzoni - Di Stefano 1958), La moglie del giudice (Premio Charles Veillon di Zurigo per l’indedito 1959 - Di Stefano 1960), La strega (Rizzoli 1964), Coma vigile (Rizzoli 1968), Il giro del fronte (Premio selezione Napoli - Pan 1971), Viaggio angelico (Pan 1977), La Corona di Undecimilla (Paoline 1986), Il pane negato (premio Rapallo-Carige - Santi Quaranta 1994), Appunti per un addio (Santi Quaranta 1996), Il libro di Sofia (Bruno Guzzo 2001). Insignita del Premio della critica Renato Serra, del Premio Città di Genova e della croce di Chevalier des arts e des lettres (Ministero della cultura francese).

Minnie è mancata ad 88 anni il 13 novembre 2008.

 

Questo ricordo solo per alcuni titoli di Minnie è mio che ho recensito quasi tutti i suoi libri e che ho avuto la gioia di averla a presentare alla Berio con Franco Bovio (moderatore), Mario Cervi e Luigi Delle Piane preside allora del King.

Riporto ora la foto di Minnie dal suo libro La strega (Rizzoli, 1964)  nello splendore della sua giovinezza ed un breve mio scritto che ne ripercorre l'amore e l'attenzione per la sua famiglia e, da vedova, pur molto corteggiata e ad alto livello restò fedele alla memoria del marito. Una gran donna!

 

 

Sulla famiglia conferenza di Minnie Alzona

a Sarda Tellus

 

Piero Raimondi è stato il mio professore d'italiano al Liceo D'Oria, qello che ci portava ciclostilati i testi di Ungaretti, Quasimodo, Saba, Montale e anche di Sbarbaro. Quello che con l'esercizio della memoria (le sue punizioni compredevano lo studio mnemonico di cantiche dantesche) ci ha impresso in mente versi indelebili e anche se amavo più di tutti Ungaretti a volte mi risuonano "Ognuno sta solo sul cuore della terra trafitto da un  raggio di sole" (Quasimodo) o riguardo la bambina con la coda di cavallo bionda che salta alla corda "E non sa che mai più bene più grande non avrà che quel po' d'oro vivo sulle spalle" (Sbarbaro).

Una volta Raimondi che ha firmato tutte le introduzioni ai Nobel in lingua spagnola della Utet mi lesse una sua poesia sulla stella alpina chiedendomi il parere. Rimasi in imbarazzo, arrossii, e non risposi ma più avanti da giornalista quando dovevo affrontare un caporedattore non certo dolce mi portavo in tasca la mia medaglia con stella alpina vinta con un tema al concorso  scolastico  per la Mostra  di Vita All'aria aperta (Genova, 1953) e la stringevo forte per darmi coraggio. E d'altra parte con quel caporedattore  era la mia prima esperienza di lavoro ed è stato anche l'unico che ha cercato d'insegnarmi perché nel giornalismo si scrive nella più completa solitudine senza che "nessuno ti tiri le orecchie" e questo non è un bene.

Un altro professore che mi chiese giudizio su un suo libro di poesie è stato Ferdinando Durand, ma ero allora appena diventata mamma e tutta presa dalla mia bambina. Ricevetti il libro tramite Ninetta a settembre e a Natale non avevo ancora risposto perciò riparai con gli auguri. Sbagliai e misi nella busta per il pediatra il giudizio sulle poesie di Durand e in quella del professore gli auguri formali per il dottore. Il pediatra mi telefonò ridendo: "Grazie, ma non ho mai scritto versi". Telefonai subito a Ninetta e le chiesi cosa avesse detto suo padre. "Che per averci pensato tanto da te si aspettava qualcosa di più".

Queste foto sono nel mio saggio tratto dalle Lettere d'amore e di guerra dei miei genitori, la prima selezione storica e appunto con foto ospitata dal direttore Flavio Nuvolone (docente di Patristica a Friburgo e che ha appena avuto la cittadinanza onoraria di Ottone in Val Trebbia suo luogo natale) su Archivum Bobiense, n. 23 del 2001.

Aggiungo per chi vive in tempi di pace che a Saida furono internati 1200 ufficiali i cui nomi sono stati raccolti dal capitano di complemento Antonio Greppi. Il I giugno '46 nella prefazione il Generale di Divisione, Conte Fernando Gelich, scrive che "il libretto è ricordo di tutti coloro che divisero nel campo di Saida (e suoi distaccamenti) l'amarezza dell'esilio e la solitudine morale..." Conclude : "Isolato dal passato il campo algerino perderà i contorni d'incubo che lo condannano alla memoria".

Questo per chi ora - con leggerezza estrema - discute di pace e guerra, di conflitti brevi e mirati (quante volte la Storia ha smentito queste previsioni), di bombe intelligenti, di morti che è meglio se sono uccisi con armi normali che non con i gas... Quanta ipocrisia!

Alberto Helios Gagliardo

"Un quadro nell'aria" racconto di M.L. Bressani

Per i 90 anni, articolo di Betta Bartolini

Don Pino Zambarbieri terzo successore di San Orione

Piero Raimondi e la stella alpina

Le radio in Italia durante la guerra 1940/45

di Adriano Bellotto Settimanale cattolico 12 maggio 1999

Aggiungo ora la recensione al libro di un mio professore alla SSCS (Scuola Superiore di Comunicazioni Sociali della Cattolica): Adriano Bellotto. Aveva seguito Noventa quando questi dal Veneto (dove ora una località porta il suo nome) venne a Torino nella cerchia degli intellettuali cooptati da Adriano Olivetti. E' stato Bellotto a riorganizzare l'Archivio dell'Olivetti e soprattutto è un grande esperto di radio ed ha vinto un "Premio Italia" per la TV.

Di lui ho un ricordo carissimo per questi motivi:

All'esame con lui, che era affiancato da Coacci direttore di una radio in Lombardia, questi mi aveva chiesto se ritenessi più simile la pagina di un giornale ad un servizio radiofonico o ad uno per la Tv. Domanda in sé banale ma sbagliai pensando che il giornalismo nacque parlato e quindi lo assimilai alla radio mentre in Tv ci vuole titolo presentazione ecc. come si fa in una pagina di giornale. Non solo c'era un precedente: Coacci che aveva tenuto alcune lezioni per noi all'Università una volta mi aveva invitata a visitare la sua radio e avevo trovato una scusa in quanto venendo da Genova mi era davvero difficile trovare il tempo per andare e un mio compagno, Faruffini, cui resto grata per questo, in quell'occasione si offrì subito davanti al professore di acompagnarmi e poi appunto non se ne fece niente, però un po' temevo di avere in qualche modo offeso il professore che all'esame nel rivolgermi la domanda "incriminata" aveva usato un tono risentito alla mia risposta errata come dire che ero proprio "tonta".

Avvilita prima del secondo round che si doveva svolgere con Bellotto mi accomodai in corridoio temendo di aver compromesso l'esame e Bellotto in persona uscì dall'aula e mi disse: "Non si deprima, vedrà che i suoi sacrifici saranno ricompensati". Fui grata di queste parole perché aveva capito che di sacrifici per quella scuola ne avevo fatti, non solo per la famiglia numerosa ma anche per il secondo anno di corso (obbligatoria la frequenza) in cui appunto feci la pendolare da Genova (dove eravamo rientrati con la famiglia) a Milano (dove eravamo stati durante il mio primo anno di frequenza). Per Bellotto avevo svolto una tesina sulla "Trilogia di Lalla di Liala" anche  accompagnata da intervista a Duccio Tessari che allora aveva girato un filmato di uno dei tre libri. Bellotto aveva molto apprezzato il mio lavoro al punto di chiedermi di  farne la mia  tesi  di diploma, ma ero più appassionata di storia e quindi avevo deciso di chiederla a Gianfranco Bianchi.

Conclusi gli studi, a Bellotto, anni dopo, mandai il mio libro sulle Scrittrici e poi gli chiesi consiglio per le Lettere dei miei genitori se - secondo lui - avessero un interesse per cui sarebbe stato giusto cercare di pubblicarle. E' stata una delle quattro persone con Lelia Finzi Luzzati, Franco Bovio e Ugo Ronfani, cui rivolsi la stessa domanda inviando il manoscritto e da Ronfani ebbi il suggerimento di farle partecipare al Premio dei Diari di Santo Stefano. Lelia poi presentò con me il manoscritto all'Adei quando non era ancora libro e Bellotto mi disse: "lasci stare la bella  storia d'amore che tante ce ne sono e parta dal momento in cui suo padre in guerra  è in Sicilia e poi passa in Africa e mi sembra anche interessante che lei valorizzi il senso di cura e di dedizione che suo padre -capitano- ha per i suoi soldati".

Testarda, non rinunciai a mettere le lettere d'amore perché mi sembrava che il lettore si sarebbe più affezionato ai miei genitori vedendoli da giovani (l'età dei miei figli) e appassionandosi ai loro problemi e alle loro scaramucce.

L'altro consiglio l'ho ritrovato ora cercando fra le mie carte e riguarda il libro delle Scrittrici per cui Bellotto disse in quella lettera: "...mi sembra che lei  nello scrivere delle donne scrittrici porti avanti un suo modo di vivere patire gioire la femminilità. Su questo tema si potrebbe sentire qulacuno degli amici milanesi (Professori all'Università, cioè Bettettini, Grasso, Gola) per una serie di ritratti radiotelevisivi. Il saggio sulla Fallaci è molto bello: è chiaro che in alcune parti è strettamente giornalistico, ma è proprio qui che è più gustoso (per es. la gustosissima tipologia delle donne giornaliste)". Quell'intelligente consiglio allora non lo presi in considerazione e me ne sono dimenticata fino ad ora che rileggendo mi dico: "Sarà stata un'altra delle mie tante occasioni mancate?" Però adesso in ritardo ricupero e quella pagina sulle giornaliste la inserisco in "Donne, giornaliste e ciciuciò" ma tenete conto che è sempre quel sentimento non d'invidia (che non mi appartiene) ma forse d'ammirazione per ciò che non si è capaci di fare e che altre donne riescono a fare con il ritorno di un buon successo: cioè vedersi l'articolo pubblicato ad onta di marchiani errori o altro".

La domanda è, come quando il vigile dà la multa solo a te in una serie di auto parcheggiate fuori posto:"Perché a me e a loro no?" nonostante superficialità, errori, ecc.? A me con la multa è capitato con un vigile di Quinto davanti ad una scuola, lui era soprannominato il "falco" o "lo sparviero", anzi ora ricordo "l'Avvoltoio". Mi disse: "Non posso toglierle la multa, ormai l'ho scritta, venga in sede a trovarmi". Lasciai perdere e che gioia sfrecciargli un giorno davanti con il gatto nero che si era posizionato sulla mia spalla.(Una mattina quando accompagnavo i bimbi a scuola era fuggito dal giardinetto fino in strada davanti alla macchina per cui per non far tardi avevamo dovuto prenderlo a bordo, ma al ritorno non c'erano più i bimbi a tenerlo). Il vigile che regolava il traffico davanti alla scuola ed era in mezzo alla strada lasciò cadere le braccia e mi guardò con occhi sbarrati ma io già ero lontana con il mio gatto.

 

"

Le radio in Italia durante la guerra 1940/45 in "Comunicazioni sociali", n. 3 anno XIX, Università Cattolica).

"E ipocrita criticare i varietà perché c'è la guerra", ultima polemica esplosa nel mondo dello spettacolo  riporta alla memoria l'inizio della seconda guerra mondiale quando fu soppresso il Terzo Programma radiofonico dell'Eiar. Nel giugno '40 non venne ritenuto più consono, ma in quattrocento testimonianze, raccolte da Adriano Bellotto per il suo testo Le radio in Italia durante la guerra 1940/45, non mancano nostalgie per la vita collettiva che si coagulava non intorno ad un'unità di pensiero ideologica o "razziale", ma piuttosto nel semplice stare insieme e sentire le stese canzoni. Il Terzo Programma con contenuti di riviste, operette, varietà infatti era stato progettato nel '37 per raggiungere i dopolavoro aziendali, i piccoli centri, le sedi di riunione di organizzazioni giovanili. Alla fine degli anni Trenta le organizzazioni di massa potevano contare su circa ventimila apparecchi di ricezione. Dal '40 invece la nuova palinsestazione volle rendere ocmplementari il mondo delle news e quello dei "leggeri", e ci fu una reazione di ascolto integrato di musica su stazioni diverse.

Il volumetto di Bellotto, docente alla Scuola della Counicazioni sociali dell'Università Cattolica da quando nacque nel 1965 ed esperto nel campo radiotelevisivo anche a livello locale, è prezioso per far capire come funzionò la comunicazione in tempo di guerra: quella ufficiale dell'Eiar e quella d'opposizione al regime delle radio straniere da Londra, Mosca, New York alle radio libere e a quelle della Resistenza.

Le radio libere (la prima fu Radio Bari e - importante per il Nord - Radio Milano Libertà) venivano captate a seconda della potenza degli apparecchi riceventi cui è dedicato un capitolo.

Verso fine conflitto, quando la paura di essere incarcerati per ascolto clandestino si andava attenuando la loro azione politica venne facilitata dalla voglia di discutere liberamente.

Per quanto riguarda la radio ufficiale in guerra due nomi portano alla Liguria, ma con connotazione diversa.

Giovanni Ansaldo, giornalista colto e molto più moderato di Appelius, altro commentatore di punta dei Commenti al fatto del giorno, viene ricordato così da Geno Pampaloni: "Chi non ne ascoltò le conversazioni non può avere un'idea di quanto possa risultare fisicamente spiacevole un regime". Invece di Vittorio G. Rossi a proposito dei suoi resoconti di battaglie sul mare per la radio ufficiale, Bellotto stesso scrive: "Rimane entro i canoni di una corretta referenzialità giornalistica e dell'efficacia narrativa".

                            Maria Luisa Bressani

Ricordo con questo articolo su Presenza nel 1992 (n.4) a firma di Anna Lisa Carlotti e Massimo Ferrari il fondatore della Scuola Superiore delle comunicazioni Sociali dell'Università Cattolica Gianfranco Bianchi che mi assegnò la tesi sul Cittadino in cento anni di Storia e mi mandò da mons. Andrianopoli che ne era stato direttore dal 1948 all'avvento del Centro Sinistra in Genova e mi diede anche il coraggio di andare ad intervistare il Cardinal Giuseppe Siri.

Nella seconda pagina dell'articolo viene ricordata la direzione di Gianfranco  Bianchi a "La Prealpina" di Varese nel 1949 e poi i suoi due libri editi dalla Cattolica: Testimonia Temporum (il mio preferito, perché la storia passata e recente si conosce non dai libri di scuola troppo omissivi ma solo da chi l'ha vissuta e te la racconta con onestà) e Per la Storia. (Non riporto questa seconda pagina dato che questo mio Sito procede per "assaggi" e "flash di memoria" e ne do solo la sintesi in questa pagina che troppo si allunga)

Con Bianchi dovetti sudiare per la prima volta in vita mia il Fascismo  (cosa che al Liceo ero riuscita a dribblare) dato che aveva iniziato a raccogliere documenti su Mussolini subito dopo il 25 luglio, non solo avendo poi inviato il libro delle Lettere dei miei genitori ad Ottavio Missoni che era suo carissimo amico (Bianchi era già morto) ricevetti da lui una bella lettera in cui ricordava qualche articolo ed intervista (che mi allegava) su quando era stato in guerra ad El Alamein e con arguzia e modestia in quella lettera diceva: "Anch'io ho scritto..." Avrei voluto chiedergli di presentare alla Wolfsoniana di Nervi dove ero stata invitata a farlo le Lettere dei miei genitori ma non osai e penso che invece - da gran signore -avrebbe accettato.

 

 

Gianfranco Bianchi

fondatore della Scuola Superiore delle Comunicazioni Sociali dell'Università Cattolica

Il mio nome a memoria

di Giorgio Van Straten Il Giorno  5 giugno 2001

Questa immagine della mia mamma è anteposta ai due testi di Melchiorre e di Bàrberi Squarotti perché in entrambi si valorizza la funzione insostituibile di una madre. La mia è stata educatrice come del resto mio padre (e spero solo, anche se i "maestri" non sempre sono in grado di modificare e migliorare la pasta del loro allievo, di non averli delusi). "Mia madre - come dice un mio cugino, Claudio, che abita in Veneto e che mi ritrovai innanzi dopo anni alla prima presentazione delle Lettere dei miei genitori alla Libreria Minerva di Trieste (aveva letto sui giornali) - è stata la persona più buona che gli sia capitato di conoscere". Ero in Bobbio qualche anno prima della sua morte seduta con lei su una panchina in Piazza S. Francesco e mi si avvicinò una signora Nini Dal Bon per darmi una cartolina di quando mia madre era sua maestra alla colonia estiva di Piancasale; un'altra volta sempre in Bobbio in un negozio una signora mi disse ad alta voce facendo voltare tutti i presenti: "Sono stata una ragazza madre e la sua mamma allora, quando ciò faceva scandalo, era l'unica che alla colonia estiva si prendeva in braccio mio figlio e se lo coccolava". La signora in questione come poi ho saputo è stata anche sorella di un bravo sindaco e ad entrambe queste persone , Nini e la ragazza-madre, sono rimasta pronfondamente grata nell'animo. 

Nel Tempo ed Oltre di Agostino Zucco, Prefazione di M.L. Bressani

 

23. INDICE  I MAESTRI

Primo articolo: la vita e la pietas,  primi maestri, La Trebbia 28 maggio 1978

Don Guido Migliavacca, direttore La Trebbia: Quando eravamo povera gente, Arti Grafiche Bobiensi, Bobbio, 2001

XLV  Cammeo L'intolleranza

L'intolleranza e Mario Cervi a Bobbio da Archivum Bobiense n.33-2011 in saggio M.L.Bressani su Alberto Nobile

L'intolleranza non cessa mai: Ostellino nel Cucù di Marcello Veneziani Il Giornale ottobre 2013

Ida Ragaglia Bressani, foto a 19 anni, da Scrittrici del '900 italiano, mia prima critica di scrittura

Giorgio Barberi Squarotti "Il Paesaggio dell'Anima" da Le Colline i maestri gli dei di Giorgio Bàarberi Squarotti, Santi Quaranta, Treviso 1992

Virgilio Melchiorre Al di là dell'ultimo. Filosofie della vita e della morte Vita e Pensiero, Milano 1998, recensione sul Settimanale cattolico 10 ottobre 1998

Agostino Zucco Nel tempo ed Oltre - Prefazione M.L. Bressani, L'Autore Libri Firenze, 1993

XLVI Cammeo Adriano Bellotto che dal Veneto seguì Giacomo Noventa tra gli intellettuali cooptati da Adriano Olivetti:

un'Italia da rimpiangere!

E la multa del vigile detto "l'Avvoltoio"

A Giacomo Noventa di Adriano Guerrini in Poesie (1941-1986) curate da Francesco De Nicola, De Ferrari, 1996

Adriano Bellotto Le radio in Italia durante la guerra 1940/45 Comunicazioni sociali, n.3, anno XIX Università Cattolica,

recensione sul Settimanale cattolico 12 maggio 1999

Gianfranco Bianchi fondatore della SSCS dell'Università Cattolica, Ricordo di Annalisa Carlotti e Massimo Ferrari su Presenza, n. 4 - 1992, trimestrale Università Cattolica

Giogio Van Straten Il mio nome a memoria Il Giorno 5 giugno 2001

Bianca Montale Caro D'Oria - Sabatelli Editore, Savona, 2005 "La scuola che formava e non indottrinava" Il Cittadino 9 aprile 2006

Foto antica del Liceo D'Oria: Sacrario dei caduti e scala d'ingresso fino al I piano

Omaggio a Bianca Montale: Lezione di Franco Croce su suo zio Eugenio, Settimanale cattolico  28 novembre 1994

Ferdinando Durand "Ai piedi di un ulivo d'argento" da Terra e Cielo e "Per Gina De Benedetti" da Canti Vecchi

Itala Mela e Gina De Benedetti Il Cittadino 15 ottobre 2006

XLVII Cammeo Onore e Tradimento in guerra

(e da parte di italiani malati di protagonismo anche in politica)

Liana Millu "Il fiammifero"  per Gina a Staglieno (commemorazione funebre ottobre 1981), riportato in  "A due Voci" in Scrittrici del '900 italiano di M.L. Bressani, Lo Faro, Roma, 1991

Lino Calcagno "La scuola che insegna a scrivere le Icone" Il Giornale 25 dicembre 2010

Ettore Bonessio di Terzet "L'Utilità dell'Arte" Poesia 2012

Poesia di Natalia Ginzburg per il marito Leone (in morte) . Fa sapere anche la solitudine di chi scrive da Scrittrici di M.L.Bressani, Lo Faro, Roma, 1991

Giorgio Torelli  Gesù nasce sul pianoforte di zia Elisa Il Cittadino 17 settembre 2006

Torelli alla Crociera sul Po

Torelli al PIME di Capolungo Settimanale cattolico 20 aprile 1989

Piero Gheddo La SFIDA dell'Islam all'Occidente Il Cittadino 8 aprile 2007

             Il Raìs ha molti meriti. E non è Hitler

Piero Gheddo Messa d'oro 29 giugno 2003

Bernardo Pianetti Della Stufa: 1) L'anima nello Scaffale Il Cittadino 21 gennaio 2007

2) Il ritorno - Colloqui con il mio Angelo Custode Il Giornale 5 settembre 2010

XLVIII Cammeo: Ipersensibile?  Dal Seminario scompare la Tesi sul Cittadino 1982/'83

E' l'ora di buttare dalla scarpa sassolini...

Presentazione della Rivista Occidente/Oriente Domani e  Lettera del 1998: "Ohi! Ohi!, Signora!"

Dalla Tesi Vent'anni del Settimanale cattolico diocesano (Università Cattolica, 1993/'94):

- Siri, il cardinale "con una faccia sola"

- Giovanni Canestri e la Vocazione: "Se è sì, è sì"

Don Pino Zambarbieri, mio zio e terzo successore di S. Orione  (foto)

Giovanni Marchi Giovani sempre, un libro in ricoro di don Zambarbieri Settimanale cattolico  8 giugno 1989

Minnie Alzona, 23 maggio 2003 alla Berio, parla di Ida Ragaglia Bressani e la guerra

- Conferenza sulla Famiglia a Sarda Tellus Settimanale cattolico 22 luglio 1997

Minnie Alzona ""Narrativa e Medicina" Settimanale cattolico 16 gennaio 1996

Piero Raimondi e la Stella alpina ricordo 2013

XLIX Cammeo Alfieri e l'Arte Sacra che trova posto solo nella Chiesa del coraggio. Mostra: "Alfieri si fa in cinque" di M.L. Bressani

Il Giornale 18 novembre 2008

Alberto Helios Gagliardo "Un quadro nell'aria" racconto di M.L. Bressani Sìlarus n.93 - 1981

Betta Bartolini  "I 90 anni splendidi  di Alberto Helios Gagliardo",  Il Giornale 17 dicembre 1982

Marcello Stenti prigioniero a Saida in Algeria "Ched'è la Patria" in selezione storica delle Lettere su Archivum Bobiense n.23 - 2001

Saida campo di prigionia in Algeria, foto da Archivum Bobiense n. 23  -2001

      

 

 

 

 

La vita e la pietas i primi maestri: cioè il dolore tuo, o il mio, sono i primi ad insegnare perché voler scrivere.

E questo è il mio primo articolo uscito su La Trebbia settimanale diocesano di Bobbio il 20 luglio 1978.

Allora era già direttore del settimanale cattolico diocesano La Trebbia don Guido Migliavacca.

La professoressa qui ricordata quella della "Bobbio così potabile" è Adriana Macchini vedova del prof. Enrico Mandelli

Il fiammifero: Liana Millu ricorda a Staglieno

in morte Gina De Benedetti

Non molto dopo la nascita de Il Giornale, il 25 giugno 1974, Montanelli venne a Genova alla Fiera del Mare per un incontro con i lettori ed ebbe un bagno di folla. Non potei andare.  Mio marito mi raccontò di aver incontrato due sposi che, avendo la casa piccola, tenevano tutti i numeri di questa testata impilati sotto il letto. Hegel definì i quotidiani “preghiera del mattino dell’uomo moderno” e del nostro i due sposini avevano fatto così un grande loro breviario.

Nel maggio 1976 ci fu il terremoto del Friuli e i miei tre bambini ruppero i salvadanai per portare l’importo a Luigi Vassallo, primo caporedattore delle pagine genovesi. Era ad accogliere di persona la gara di solidarietà  e diede un buffetto al più piccino.

Quando Il Giornale lanciò i primi viaggi, occasione per conoscere, ma anche per conoscersi tra lettori e con fior di giornalisti come accompagnatori, decidemmo d’andare. Il motivo più importante, per me, far capire ai figli, nel ‘79 tra gli otto e i dodici anni, che qualora avessero incontrato insegnanti politicizzati, potevano guardare al Paese con amore e in modo non fazioso come attraverso le parole dei nostri accompagnatori: Gianni Granzotto e Giorgio Torelli. Trent’anni fa, ad accompagnarci sulla motonave Stradivari, anche il liberale d’idee Bruno Lauzi, le cui canzoni sono un amore grande per la vita.

Chiedo oggi ai figli,  a loro volta genitori, cosa ricordino del viaggio. Il più piccolo mi risponde da Torino: “Ah la hostess, Carla! Devo avere la sua firma conservata da qualche parte”. Carla era una storica segretaria de Il Giornale. La figlia maggiore, da Milano, ricorda l’hotel dove pernottammo a Venezia: L’Ile des Bains, il primo bell’albergo da lei conosciuto. Il mediano, anche lui da Milano, mi dice: “Giocavamo a sette e mezzo, che è un gioco d’azzardo”.

A quel tavolo-“bisca”, a presiedere i giochi con tre bimbi, i miei due maschietti ed un altro dell’età del mediano, Bruno Lauzi, divertendosi assai e come un perfetto baby sitter! Sarà stato un gioco d’azzardo con lo spirito del ruba-mazzetto, quello che credevo stessero praticando.  Lauzi era sempre con i bimbi o solitario a prender sole sul ponte.

Nella prima serata ci era entrato in cuore, scaldando l’atmosfera con le sue musiche e la sua voce speciale, inframmezzando con barzellette sui nostri “tic” caratteriali, di piemontesi, liguri, napoletani..., tutta un’Italia. Con mio marito passeggiavamo sul ponte, e qualcuno ci gridò: “Lauzi sta dedicando una canzone a voi, i due genovesi mano nella mano”. Riascoltammo, commossi, “Ma se ghe penso”.

Granzotto, che fu presidente della RAI, in Tv aveva spiegato la politica estera creando una moda con l’impugnare la penna a sottolineare le parole. Sul Po, per timidezza (ce lo disse Carla), sfuggiva, rintanato in cabina, ma nelle pause dopo i pasti c’intratteneva con chiarezza eccezionale sui grandi temi politici e sociali del momento.

Ad essere assediato dai croceristi, Giorgio Torelli. Ci raccontava di Marcello Candia, l’industriale che curò i lebbrosi e del progetto di costituire una Fondazione a suo nome, di cui poi è stato primo presidente. Torelli salì a bordo a Mantova,  per me era un mito avendolo seguito su Grazia, la rivista femminile cui fin da ragazzina mi aveva abbonato Pina, la zia madrina. Avevo letto del suo viaggio di quasi un mese su un Piper, con pilota un missionario Saveriano, per consegnare il primo Presepe per la chiesa  congolese di Uvira con statuette in gomma antitermiti. Su Il Giornale, nella rubrica “Cosa Nostra”, era ormai di famiglia.

Ritrovo un suo articolo “L’Omone che teneva gli alberi in pugno”. Vi scrive di un dottore in scienze forestali che gli dice: “Da sei mesi, lei è mio fratello”. Spiega che lo legge dal primo numero del Giornale per concludere: “Mi considero - qui in Cadore – alfiere della più coraggiosa bandiera di carta che si sia alzata sulle rovine italiane. Lei non è forse parte della bandiera? Non è lei che dedica le sue colonnine ai solitari che resistono ai tempi? Ebbene, io la leggo e mi sento rappresentato. Lei è dunque mio fratello”. E’ il significato de Il Giornale di ieri e di oggi.

Di quel viaggio ho un grato ricordo per il giornalista Nicola Fudoli: a Venezia quando ci smistammo su due degli ordinari traghetti, il figlio più piccolo mi sfuggì correndo sull’altro. I parapetti dell’imbarcazione, con molto spazio vuoto tra i bordi, m’intimorirono ché senza sorveglianza non finisse in acqua. Fudoli mi gridò: “Tranquilla, ci penso io”!

                      Maria Luisa Bressani

 

 

 

 

 

 

        

Crociera sul Po con Il Giornale.

Nella foto mio figlio Edgardo sulla Stradivari, Bruno Lauzi,

Giorgio Torelli e il mio "Ed", quindi "Bimbi in gioco": di spalle il mio Cesare, "Ed" e un amichetto figlio di giornalista.

 

La SFIDA dell'Islam all'Occidente di Piero Gheddo

Quando eravamo povera gente di don Guido Migliavacca (direttore da "35" anni della Trebbia-Settimanale Cattolico di Bobbio nel piacentino) è il "diario di un curato di campagna". Molto diverso dal noto libro di Bernanos, in queste pagine nulla è programmatico o ideologico. Ricordi sorgivi, con la pacatezza della maturità, che riguardano la sua infazia a Belgioioso, la guerra e la rinascita, il periodo da parroco ad Alpe, sui monti tra Liguria ed Emilia, infine attraverso alcuni "compagni di viaggio" la vita semplice della bassa padana e della Val Trebbia.

Comune denominatore è una galleria di personaggi inusuali. Racconta di don Gnocchi che al San Carlo di Milano, dove lui era giovane assistente, disse agli allievi: "siete dei poveri disgraziati perché figli di ricchi...", ad intendere che avevano qualche dovere in più.

"Una suora non fa storia", scrive nel raccontare di Ernesta, montanara della Val Seriana ad assistere per quarant'anni malati di Tbc che un giorno gli comparve davanti con l'abito bianco macchiato di sangue per l'emottisi di un malato, preoccupata solo di lui e non per sé.

S'incontrano sacerdoti colti: don Michele Tosi studioso di S. Colombano fobdatore dell'Abbazia di Bobbio, o don Balzarini definito parafulmine della diocesi bobbiese per la diplomazia del suo detto: "omnia videre, dissimulare, pauca corrigere".

Ma pure gli "inquieti per amore di Cristo" con per casa il mondo come don Alfonso Calamari missionario con un "inguaribile mal di Brasile". Tornato a Ferriere nel piacentio diceva nel suo dialetto di Catarragna: "preghiamo anche per i preti, siamo ormai tutti veci e tutti strasci".

E gli umili come don Pallini, unico monaco a Ruino, nell'Oltrepo pavese. "Un'abbazia - scrive don Guido - è sempre il Tabor, un luogo di contemplazione della Storia che cammina sui sentieri di Dio". Di lui dice anche: "il prete che sgridava i Santi" perché da vecchio per scongiurare la scarsità di vocazioni, pregando sulla tomba del Gianelli, lo rimproverava: "che santo sei se non ci aiuti?"

"La guerra la si porta dentro per tutta la vita" annota il Don, diventato di famiglia per il lettore pagina dopo pagina, quando ricorda una madre che abitava in una casa affacciata sul suo cortile di Belgioioso: il figlio Erminio, della Divisone Cuneense, morì in Russia. Dopo anni, a tratti in quella casa, riesplodeva l'urlo di lei che lo chiamava.

Della sua infanzia nella Bassa, dove le case si costruivano a semicerchio, a delimitare uno spazio centrale, ricorda i cortili "sorridenti e vivi, peni di occhi di bambini".

Davanti alle porte ogni lunedì bolliva un pentolone per lavarvi con la cenere le camicie da lavoro: "vuna doss e l'altra al foss", (cioè al bucato).

Un piccolo mondo scomparso, di carri per il fieno (uno è in  copertina), piccoli agricoltori, mondariso, tagliaboschi, bambini che andavano a spigolare. E a San Martino, a raccolto ultimato, le "processioni" di salariati, quando il padrone comandava :"prendi la tua roba, non c'è più posto per te".

(Edito Artigrafiche Bobiensi)

 

Virgilio Melchiorre, AL DI LA' DELL'ULTIMO, Filosofie della morte e della vita (edito Vita e Pensiero, Milano 1998).

Questo saggio sul senso della morte ha due percorsi di lettura: uno filosofico attraverso gli esponenti del pensiero moderno, uno attraverso riflessioni, derivate dal nostro quotidiano, che può interessare chiunque.

Melchiorre isnegna Filosofia Morale all'Università Cattolica di Milano; è stato Preside e anima della Scuola Superiore delle Comunicazioni Sociali, poi diventata Scuola di Specializzazione.

Il filosofo parte da una premessa di metodo: stabilire i modi che rendono possibile la conoscenza (o precognizione) della morte. Individua due fonti alla base di questa ricerca: una storica dal Vico, che fa nascere la nostra cultura con i matrimoni e le sepolture (inestricabile intreccio di vita e di morte), l'altra dall'esperienza di ciascuno nel perdere una persona cara. Ricorda il pianto dei discepoli di Socrate no appena ha bevuto la cicuta che Lévinas commenta così: "La morte è scandalo, crisi anche nel Fedone".

A farci comprendere in modo più diretto, l'autore propone due testimonianze. Una pagina di Pirandello che parla alla madre morta: "Tu sei e sarai per sempre la mamma mia; ma io? Io figlio fui e non sono più, non sarò più..."

E un'altra pagina, di Mersault che ricorda la felicità delle povere cene con la madre. Alla sua scomparsa, è sopravvenuta per lui "una spaventosa miseria": tale infatti è la povertà della solitudine.

Da questi due brani ci rendiamo conto che nella morte della persona amata, viviamo la nostra. Nessuno ci restituirà più a noi stessi come eravamo nel suo amore.

Dopo aver stabilito questo primo modo di conoscenza, l'indagine s'impenna attraverso una denuncia di Péguy sull'aridità del vivere moderno per coloro che pensano solo al libretto di risparmio, alla pensione, alla vecchiaia, perfino a non aver figli oggi per non compromettersi la pace del domani. "Sono segni di decadimento storico", osserva l'autore francese. Ci suggerisce di "vivere il presente, non anticipare il domani, anzi in quell'oscurità (del futuro) di crearci la vita. "Qui e ora è la nostra vita - ci ricorda -. Il senso che le diamo è l'arma per non arrivare indifesi alla morte".

 

 

Terra amata amara terra

è il terzo libro di don Guido

edito nel 2013

(ed. La Trebbia)

2)L'intolleranza non cessa mai:

 Ostellino nel Cucù di Marcello Veneziani Il Giornale ottobre 2013

XLVI Cammeo: 1) Adriano Bellotto

 che dal Veneto seguì Giacomo Noventa tra gli intellettuali 

cooptati da Adriano Olivetti:

un'Italia da rimpiangere!

2)E la multa del vigile detto "l'Avvoltoio"

 

 XLVII Cammeo: Onore e Tradimento in guerra

(e in politica da parte di italiani malati di protagonismo)

XLVIII Cammeo: Ipersensibile?

Dalla Biblioteca del Seminario scompare la Tesi sul Cittadino (1982/83)

E' l'ora di buttare dalla scarpa sassolini...

 

Vita  e pietas i primi Maestri

XLIV Cammeo Edoardo Alfieri e l'Arte Sacra

che trova posto solo nella Chiesa del coraggio

Mostra: "Alfieri si fa in cinque" di M.L. Bressani 

Il Giornale 18 novembre 2008

 

Bernardo Pianetti Della Stufa: 1) L'Anima nello Scaffale

2) Il Ritorno- Colloqui con il mio Angelo Custode

 

 

    

Bernardo Pianetti della Stufa, L’ANIMA NELLO SCAFFALE, maria pacini fazzi editore, Lucca, euro 12,39.

E’ un “livre de chevet” per riflessioni e compagnia. Ha tre punti di forza: la Fede, la Storia, l’Africa.

L’autore, inviato del <<Globo>> di Roma (prestigiosa testata economica scomparsa), è stato funzionario della Direzione Generale dell’Informazione nell’ambito della Commissione Cee. “Oggi la Cee si chiama Unione Europea, ma è invecchiata male”, commenta e per presentarsi, all’inizio di questa autobiografia degli anni giovani, dice di temere malattie e Stato, di non credere nelle manifestazioni di massa, di non commuoversi per sdegno e cordoglio dei politici. “Però credo in Dio, questo sì”, afferma.

La Fede per lui si apparenta a quella dei contadini toscani di un tempo pronti alla bestemmia perché sentivano di famiglia la Madonna e i Santi,  contadini che non mancavano una processione. La descrizione di quei riti religiosi ha un incanto nostalgico, in particolare per le solenni “Rogazioni” che invocavano la protezione di Dio “a peste et bello” (da malattia e guerra). Ha il profumo dell’incenso che veniva dalla Migiurtinia, regione della Somalia allora colonia italiana ed era cosa di cui a scuola i bambini imparavano ad essere orgogliosi.

La Fede si lega in particolare all’Africa dove l’autore visse per qualche tempo al Villaggio Duca degli Abruzzi di Mogadiscio perché la Società Agricola Italo-Somala, fondata dal Duca Luigi Amedeo di Savoia, aveva premiato con una borsa di studio la sua tesi di laurea sull’economia dell’Oltregiuba. Imparò ad amare la boscaglia africana, dove trovò la pace di sé che è avvertire la presenza di Dio in una solitudine ben diversa da quella triste di città brulicanti, con il telefono a fianco e l’auto sottocasa.

Tra le pagine più intense del libro il dolore provato quando il 30 giugno 1960 di notte a Villaggio Duca degli Abruzzi venne ammainato il nostro tricolore perché la Somalia passava da dieci anni di amministrazione fiduciaria italiana all’indipendenza. L’autore afferma che l’Italia fece del bene alla Somalia per la sanità e l’istruzione, per l’incremento delle comunicazioni e delle infrastrutture. Parole le sue confermate da chi tra i somali sa ancora ricordare e non perdona il capitombolo successivo nelle mani dei signori della guerra.

Di Storia “controcorrente” il libro è ricco. Cito alcuni spunti. Di Vittorio Emanuele III ricorda che lasciò Roma per Pescara, poi per Bari, restando però sul territorio nazionale a differenza di altri sovrani che si rifugiarono in nazioni amiche: Guglielmina d’Olanda, Haakon VII di Norvegia, Giorgio II di Grecia.

A proposito di eroismo degli italiani ricorda il Tenente Colonnello Cesare Amici Grossi. Quando il Bando di Graziani impose agli ufficiali di aderire alla Forze Armate della Repubblica Sociale, si presentò al comando tedesco e disse: “non aderisco”, quindi girò sui tacchi senza che nessuno osasse fermarlo. Prese contatti con il Comitato di Liberazione d’Oltrarno e morì in guerra per un colpo di mortaio in piazza Santo Spirito di Firenze davanti al Distretto Militare. Insieme a lui persero la vita un civile rimasto ignoto e due partigiani che ora sono ricordati da una lapide. Cesare non vi è menzionato: certo meritevole “della fascia tricolore al braccio non aveva il fazzoletto rosso al collo”.

Ricorda l’ANDE – Associazione Nazionale Donne Elettrici che nel ’48 al momento di quel voto, importante per la scelta occidentale, portarono migliaia di sacchetti-pasto agli scrutatori di seggio di parte bianca e accompagnarono a votare in auto vecchi e malati.

Nel libro l’autore ci parla di sé, di dolori personali dissimulando con l’umorismo. C’è in più un “quid”  che convince ad un’immediata simpatia ed è l’episodio del baule di giocattoli che da bambino dovette abbandonare, lasciando per sempre la casa avita. Gli fu permesso di portare con sé un solo gioco, ma quella “crudeltà” nella vita gli servì più di vicende importanti.

                          Maria Luisa Bressani

          

Cosa di più evangelico di un libro con titolo Il Ritorno – Colloqui con il mio Angelo Custode (Polistampa Editoriale)?

Attenzione: è un testo davvero evangelico, rivoluzionario non buonista. Nel risvolto di copertina Bernardo Pianetti della Stufa, l’autore, ci anticipa: “Penso, parlo, scrivo cercando di attenermi alla libertà del politicamente scorretto. Da sempre considero il politically correct la più ipocrita meschina vigliacca espressione d’intellettualismo moderno”.

Il libro sorprende ad iniziare dal coup de théâtre “il ritorno di Cristo sulla terra” che spiace dover anticipare per far capire cos’è questa riflessione moderna in compagnia di Pianetti. Gesù dopo venti secoli ritorna e lo fa a Milano, vestito in grigio e con cravatta, con il nome Emanuele Rini: Immanu’el, in ebraico “Dio è con noi”, Rini, anagramma di INRI, primo cartiglio storico conosciuto che – dice l’autore - segnò la “sublime spartizione tra il Prima e il Dopo”.

L’Angelo, di nome Giacinto, è il Custode di Pianetti stesso, un Angelo che a sera pretendeva di fare quattro chiacchiere con lui e ascoltarne la preghiera. Chiamato ad accompagnare Cristo, si congeda senza dargli spiegazione alcuna.

E Cristo incomincia a ripetere miracoli che risultano spassosi per gli ostacoli burocratici di oggi. La trasformazione di acqua in vino (era finito ad un pranzo di nozze) provoca l’intervento dei carabinieri per una soffiata su un “vino adulterato, in recipienti inidonei, senza etichetta”. Un cieco risanato, invitato da Cristo ad andare dagli Anziani, torna alla Asl, provocando una furibonda discussione sulla validità del “certificato per inabilità totale” che gli era stato rilasciato.

Sui miracoli che Giacinto gli riferisce quando torna, miracoli esemplari nella denuncia delle tante povertà del mondo e della speranza dell’uomo che non cessa di bussare alle porte del cielo per essere ascoltato, si accentra la riflessione di Pianetti. Profondamente religiosa pur se del tutto laica, a 360° sulla nostra Società e sul Tempo: sul Passato come patrimonio di ricordi, sul Presente come rischio, su “Quel che sarà” espresso con parole di  Leopardi, forse un “Dì futuro del dì presente più noioso e tetro”.

Pianetti - in un controcanto personale -  torna a discutere con l’Angelo ritornato di miracoli, quelli di Lourdes come pure del miracolo della natura quando si rinnova, del progresso moderno che l’uomo dovrebbe guidare mentre ne è schiavo, della democrazia in cui convivono democrazie opposte, della scuola che un tempo insegnava almeno il rispetto delle gerarchie mentre ora è in balia di bullismo ed ignoranza. Del povero per cui la carità di un tempo era simboleggiata da due mani congiunte – la mano che dava e la mano che riceveva-, mentre ora capita che all’uscita di un supermercato un barbone cui Pianetti ha regalato dalla sua spesa un pacco di biscotti, gli gridi da nuovo padrone:“Cosa me ne faccio? Voglio soldi”.

Il finale, in crescendo, ripercorre la passione di Cristo-uomo prima che s’innalzi al cielo. Avviene a Malpensa tra la costernazione degli addetti alla torre di controllo. In questa Ascensione, Pianetti, che un parroco amico ha invitato nella sua Chiesa a tenere le prediche della domenica, ripercorre il calvario di Cristo commentandolo attraverso i passi degli Evangelisti ma con partecipazione sofferta e personale. E lo fa da maestro.

Laureato in economia, redattore e inviato del Globo di Roma, poi funzionario della Direzione Generale dell’Informazione della Commissione europea, ha vinto il Prix Européen Emile Noël per Cittadinanza Europa e Cittadino d’Europa. A Genova come scrittore ebbe un avallo di gran classe da Franco Croce che ne presentò L’Anima nello Scaffale. Per il successo di questo libro, in cui intrecciava la storia della sua famiglia di Marchesi in Toscana a quella d’Italia, alla Libreria Bozzi, che presto festeggerà i 200 anni di attività nella stessa sede,  ricordano Pianetti come un “Autore che si vende bene” ed oggi è un fatto più che raro.

 

                         Maria Luisa Bressani

          

2) Il Ritorno- Colloqui con il mio Angelo custode

 

Torelli al Pime di Nervi

Settimanale cattolico 20 aprile 1989

Minnie Alzona: medicina e narrativa.

Settimanale cattolico gennaio 1995

A Giacomo Noventa da Poesie (1941-1986) di Adriano Guerrini

curate da Francesco De Nicola 1996

Poesia di Natalia Ginzburg per il marito Leone (in morte)

da Scrittrici di M.L. Bressani (1991) 

Fa sapere anche la solitudine di chi scrive

Omaggio a Bianca Montale: Lezione di Franco Croce su suo zio Eugenio Settimanale cattolico 28 novembre 1994

Piero Gheddo Messa d'oro 29 giugno 2003

Ohi! Ohi!, Signora!

Qui di fianco l'intervista a Virgilio Melchiorre su Presenza n.12 aprile  1984, importante!,  sui Mezzi di Comunicazione che sono "il mesaggio" tout court.

Tutto il Nord Africa sta ora pagando lo scotto delle Primavere Arabe e resta negli occhi la fine atroce che ebbe Gheddafi indegna di un popolo con speranza di civiltà pur se contro il suo "dittatore", ma anche noi come passato non tanto lontano non abbiamo di esser fieri di un Piazzale Loreto. Da non dimenticare però per l'odio che serpeggia nei paesi in via d'islamizzazione (o che lo sono stati e pare che l'Egitto moderato non voglia accettare ciò) che sia il Nord Africa che sia il Medio Oriente: l'odio contro l'unica democrazia attestata e circondata da Stati satrapi: la democrazia israeliana.

Quindi non è da dimenticare la bestemmia su Sadat assassinato pronunciata da Gheddafi (ad inizio anni novanta): "E' vissuto da ebreo è stato sepolto nel giorno di festa degli Ebrei". Appunto un'incivile bestemmia!" 

E qui inserisco (ma ho già riportato questi suoi due libri molto belli alla pagina Autori) Bernardo Pianetti Della Stufa, un signore d'animo e di modi che accettò di presentare le Lettere dei miei genitori al Lyceum. Lo avevo constatato in alcuni articoli sul Giornale come buon conoscitore delle cose africane, mentre, ad sempio, Mario Cervi mi aveva detto a suo tempo che non conosceva bene ciò che era accaduto in Africa in guerra dato che era stato a quel tempo in Grecia.

Quando rintracciai sull'elenco telefonico Pianetti trovai accanto al suo nome una sigla che interpretai come un errore di stampa per monsignore e gli chiesi: "Lei è un monsignore" Rise rispondendomi: "No, un marchese" Arrossii d'ignoranza. Di Pianetti anche la sua conferenza sui piatti medicei alla pagina Arte e Tradizione.

Ricordo che uomo di cuore al Lyceum ricordando al guerra ad un certo punto si commosse e questo va sempre all'anima di chi ascolta.

Don Guido Migliavacca  Quando eravamo povera gente 2001

Sul problema dell'immigrazione sempre forte in una città di mare, diceva: "Per questi fratelli disgraziati abbiamo fatto tutto ciò che si poteva, ma Genova ha una tal forza che bastano due generazioni per assorbirli".

Era convinto delle potenzialità di Genova sul mare: il porto vera vocazione genovese con il commercio e "forte" di 18 km. di banchine. L'industria invece era stata penalizzata dalla parziale statalizzazione conseguente al sostegno chiesto nel dopoguerra per la riconversione a scopi di pace.

Credeva nella città d'arte purché i proprietari di "tesori accumulati come riserve di valore", acconsentissero ad aprirli. Genova - diceva - è la città dai tesori nascosti"

E dalla tesi ora ripropongo il suo concetto della storia, il suo orgoglio per i momenti (gli unici di cui parlava) in cui Genova aveva saputo "non chinare la testa".

 

 

      
bottom of page