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Guardare e non toccare. L'amore nelle società rurali

di Paolo Giardelli

Luci ed ombre nel libro Guardare ma non toccare – L’amore nelle società rurali di Paolo Giardelli, pubblicato con la meritevole Le Mani. “Per capire chi siamo” ripercorriamo,  attraverso testimonianze e linguaggio essenziale, “cosa non siamo più”: un vero piacere di lettura! Come “il grande tema dell’amore sia declinato negli aspetti sentimentali, carnali, familiari, religiosi, rituali e sociali, con detti della sapienza popolare” è evidenziato nell’introduzione da Angelo Berlangieri (assessore Regione Liguria). La prefazione di Sônia Storchi Fries, responsabile della Banca della Memoria dell’Archivio Storico João Spadari Adami di Caxias do Sul, c’illumina sulle difficoltà affrontate dai nostri emigrati, dal 1869 in poi, nella zona brasiliana del Rio Grande: “Non il paese di cuccagna, anzi tutto da fare per sopravvivervi”. Per prima ci dà la storia di Adelina(1900-‘94) la cui madre venne in Brasile con marito e quattro figli. Dopo tre mesi di vapore, arrivati li perse in cinque mesi. Si mise a letto, un po’ d’uova e acqua accanto, decisa a morire, ma un vicino la risanò e sposò con la promessa di riportarla da noi. La madre non tornò, delle loro due bimbe una è stata Adelina.

Nel vivo delle storie in Italia si entra con “La fine di un amore” sullo spopolamento di Reneuzzi in alta Val Borbera. Nel 1961 lì viveva Davide fidanzato a Mariuccia della vicina Ferrarazza, anch’essa spopolata. Quando i suoi genitori decidono di scendere a Montoggio, lei lascia Davide che il giorno della partenza l’accoltella, si uccide e lo troveranno dopo un mese. Una vicenda d’allora come altre d’oggi vissute nelle città, spopolate d’anima e radici.

Il libro è una miniera di notizie. La seconda storia è sul terremoto del 23 febbraio 1887, mercoledì delle ceneri, a Bussana Vecchia con la gente in Chiesa prima di recarsi nei campi. Crollò fin la volta, morirono in 54. Arrivarono in aiuto i militari e conquistavano i cuori delle sopravvissute che volevano andare in città, divertirsi. Era l’inizio di un cammino per la donna, mentre, nella prefazione sul Brasile, per le bimbe emigrate è scritto che per essere spose imparavano i lavori di casa, dei campi, a “tacere e obbedire”. Una testimonianza sul terremoto riguarda un giovane che vede una ragazzina nuda, semisepolta, gridare “salvami”; per pudore non lo fa e lei resta sotto la scossa successiva. E anche questa nota: “Non han regalato le case ma un mutuo trentennale e a chi non rispettava l’hanno ripresa.

I capitoli si addentrano poi nell’educazione sessuale che non esisteva e spesso era appresa dall’accoppiamento di animali. Segregazione, promiscuità, disordine affettivo sono l’ombra sulla vita contadina. Nell’estremo Ponente ligure dal 1821 al ’36 sono denunciati 34 casi di stupro (su ragazzine che portavano animali al pascolo). Nel paragrafo “Incesto e prostituzione” si registra un detto del Triveneto: “Chi in parentà no fùrega, in paradiso no bùlega”, (chi nel parentado non s’accoppia in paradiso non abita).  La prostituzione era “sorta d’integrazione ad un’economia familiare disastrata”.

Nel capitolo “Il figlio del prete” un’amena filastrocca passa in rassegna i peccati secondo domande del confessore, basate ancora sul Penitenziale di Teodoro (sec. VII) più esaustivo del Kamasutra. Sul “Prete e l’infedeltà delle mogli” a Losso in Valtrebbia si racconta “L’erba cippe lappa”. Sembra riecheggiare uno stornello di Thomas Wright (vissuto sotto Riccardo III d’Inghilterra) che consigliava di non mettersi in casa né frate né monsignore per non trovar sotto la gonna della moglie un pargoletto o due gemelli. L’autore però ci ricorda che in campagna la dissacrazione del prete si legava ad interessi di proprietà. A Biassa nello spezzino un “don”, scrive sugli attacchi ai sei precedenti e dell’ultimo, don Chilosi: “L’han fatto morir subito perché troppo umano”.

In un ambiente di costumi primordiali, avvelenati da sospetto e calunnia (“La calunnia è un venticello” è titolo del paragrafo conclusivo) esistono tentivi di liberalizzazione sessuale: in Vandea il “maraîchinage” nelle fiere di primavera dove il celibe accoglieva sotto l’ombrello partner diverse per prove di bacio; a Genova, nel 1431, dove  Antonio Astesano scrive dell’uso di lasciar le fanciulle appartate nella loro stanza con il pretendente di turno.

Pagine intrise di poesia sono “Le Veglie invernali” nelle stalle, il luogo più caldo,  con racconti di favole. A sfondo “dark” quelle liguri, ma anche con recite di Dante e si può credere che al di sopra dei miasmi volasse Poesia.

Né mancano usi e costumi per fidanzamento, dote, matrimonio (ricordandoci che l’ecclesiastico fu stabilito per legge da Giustiniano), sensale, suocera, viaggio di nozze. Un esempio minuto:a Taggia nei corteggiamenti si lanciavano i “Furgari”, piccoli fuochi d’artificio in omaggio a belle ragazze e risalta una foto di tale Festa paesana.

Coltissimo questo libro con citazioni di altri testi come il saggio di Roberto Hertz (rivelatore!) che ci fa capire perché la sposa debba scendere dal letto, il mattino delle nozze, con il piede destro. In due momenti Giardelli non trattiene lo sdegno. Per lo “Charivari”, una gazzarra che rivelava gli adulteri alla comunità. Per una sentenza della Cassazione che ne annullò un’altra di condanna: considerò “consenziente” una donna violentata, per la difficoltà di sfilarle i jeans.

                                Maria Luisa Bressani

 

                                                    La Chiesa di Reneuzzi

Commento: come si vede dalle righe evidenziate in rosso non c'è proprio da rimpiangere quell'Italia rurale.

Piccoli martiri di Francesca Di Caprio Francia

Com’è interessante leggere un libro di approfondita documentazione sulla tratta dei bambini italiani all’estero tra fine Ottocento e primi del Novecento, sulla questione minorile che è stata “infanzia rubata”: una faccia non trionfalistica dell’Unità d’Italia determinata da miseria, anche da ignoranza, degrado. Ancor più interessante questo libro documentario Piccoli martiri (Città del silenzio Edizioni-Novi Ligure) di Francesca Di Caprio Francia poiché ci dà dati sull’oggi dei bambini nel mondo e in Italia, con uno sguardo in profondità sul passato, a livello nazionale e indagando luoghi a noi consueti del nostro Appennino. Il titolo è mutuato da un romanzo-denuncia dell’Invernizio (1904) e da un articolo del 1901 di Luigi Einaudi-Giuseppe Prato  “La liberazione di ottanta piccoli martiri. Una santa crociata nelle vetrerie francesi”.

Invernizio racconta di Fioretta, bambina maltrattata, poi torturatrice della figlia. Annota la scrittrice: “Le nostre leggi sono troppo miti per queste femmine indegne del nome santo di madre”, cosa che ci fa pensare a recenti fatti di cronaca, all’attuale perdonismo (o giustificazionismo anche giuridico) verso delitti che sono “selvaggeria di ritorno”. L’articolo di Einaudi-Prato affronta un altro tema, la “tratta dei fanciulli italiani nelle vetrerie francesi”. Innegabile che molti nostri bimbi erano tenuti schiavi, addestratti alla questua; nel Chiavarese e nelle valli Fontanabuona, Graveglia e Sturla avviati al mestiere di suonatore ambulante e fin mandati in Gran Bretagna. Molti i bimbi spazzacamini con sul petto un santino della Madonna di Loreto, nera come loro, condannati al digiuno per restare smilzi. Fanciulli muratori o sterratori inviati in Francia e in Austria, bambini che nelle piazze di Parigi o Praga accompagnavano scimmiari e orsanti (mestiere praticato nelle province di Genova e Piacenza). In alcuni Musei quei retaggi: a Compiano nel parmense il Museo “Gli Orsanti”, a Santa Maria Maggiore in Val Vigezzo il Museo dello spazzacamino.

Il primo grido di denuncia, nel 1868, a Parigi, da parte della “Société italienne de bienfaisance” sulle condizioni dei piccoli suonatori italiani. Circa vent’anni dopo, nel 1886, la prima legge italiana sul lavoro minorile che non menzionava molti lavori pesanti diffusi tra i minori né prevedeva obblighi scolastici.

Francesca Di Caprio ci rivolge una domanda: “La memoria del passato è servita per un miglior avvenire”?, per rispondere che nel mondo 250mila bambini sono costretti a combattere e uccidere, che sul 2% di 5milioni di accessi annuali ai pronto soccorso pediatrici italiani c’è sospetto di maltrattamenti fisici come emerge nel 2009 dal Congresso della Società italiana di pediatria, a Padova. L’associazione umanitaria “Save the children” nel 2010 afferma che in Italia si allarga lo sfruttamento dei minori: ragazzi tra i 10/17 anni, specie afgani, egiziani, bengalesi, rumeni costretti a prostituirsi, a spacciare, a chiedere elemosina; ragazze nigeriane e rumene tra i 15/18 anni vittime di tratta sessuale. Un tempo avveniva anche per le italiane:  uno studio del 1902  del magistrato Lino Ferriani  mostra che su 26 nostre ragazzine  di 8/13 anni, inviate in Grecia per imparare un mestiere, tutte finirono prostitute: fonte di sussistenza anche per i  loro genitori (non certo una scusante)!

Il libro ha pagine dolenti e affascinanti. Citando da Bianca Montale: esisteva “l’altro volto di Genova risorgimentale” dove dilagava la mendicità, a Londra Giuseppe Mazzini per affrancare i bambini dall’accatonaggio (convinto che solo “istruzione e educazione operino il riscatto morale”)fondò una scuola che Alfredo Biondi definì “la più bella, concreta iniziativa da lui portata a termine”.

La prima parte del libro contiene una ricca documentazione  sui contratti tra genitori e procacciatori di bimbi, sull’opera educativa della Garaventa, Nave Scuola Redenzione, sugli ospizi per trovatelli (v. i bimbi esposti nella ruota dell’ospedale di Pammatone e i teneri biglietti sgrammaticati lasciati a futuro riconoscimento), sui buffi nomi che venivano dati ai piccoli: da Miracolo a Malafede, Parentela, prediletti nel Siracusano ad altri derivanti dalla natura come Broccolo e Temporale, cosa che provocò una circolare ministeriale con l’invito a  scelte non ridicole.

Nella seconda parte del libro una selezione delle opere letterarie che hanno saputo dar voce al Pianto dei bambini, frase mutuata da un componimento poetico di Elisabeth Barrett Browning con la domanda: “Non udite i bambini che piangono?” Tra gli autori: Giovanni Verga, Carlo Levi, Salvator Gotta, Gavino Ledda... Dolcissimo un racconto di Orsolini dove Nanina, operaia a sei anni, trova rifugio mentale alle sofferenze nella sua bambola e fa venir in mente Liana Millu che con la poesia sopportò la deportazione a Birkenau.

Il libro ha anche questo pregio di ricordare belle persone della cultura genovese  e val la pena ricordare una poesia di Franco Bovio dove con la moglie si riprometteva che mai più avrebbero tollerato di sentir piangere un bimbo. Civiltà,  educazione personale che sole sottrarranno all’umiliazione.

                         Maria Luisa Bressani

 

 

Mario Lodi maestro -

pagine scelte da C'è speranza se questo accade al Vho

di Carla Ida Salviati

Mario Lodi maestro – Con pagine scelte da C’è speranza se questo accade al Vho, curato da Carla Ida Salviati per Giunti è invecchiato o no? Datato o ancora pedagogicamente valido?

E’ una prima riflessione nell’immediatezza della lettura senza contestazione alcuna verso quel classico della lettura per l’infanzia, Cipì, creato dall’autore con i suoi allievi, che tanto piace ai bimbi d’oggi. Nel libro appaiono interessanti l’intervista inedita all’autore e il “percorso fotografico” con momenti della sua vita professionale in azione tra gli allievi. Il testo completo dell’esperienza al “Vho” di Piadena (provincia di Cremona, 1959/62) si può leggere su Internet (www.giuntiscuola.it/gus).

Certe osservazioni appaiono indubitabili: “Il bambino deve essere lasciato libero di pensare e di parlare e di esprimere il suo pensiero”. Meno sicuro però il cappello che precede l’affermazione: “Insegnargli quello che intendo io? La democrazia è fondata sulla parola che esprime interesse, non un parlare a vuoto. La parola deve essere pienamente espressa, non interrotta come fanno spesso nei dibattiti televisivi”. In queste frasi c’è non solo il succo del libro ma la constatazione di come la Tv, ricchezza del nostro Paese nell’opera d’alfabetizzazione (c’erano 6milioni di analfabeti quando iniziò ad operare) ora ci consideri bambini cui il conduttore di turno vuol imporre il suo pensiero unico. C’è la constatazione di come la parola democrazia sia invecchiata male, adibita a pass-partout con la parola Costituzione.

Altre constatazioni come “l’originalità dei bambini che va aiutata ad emergere” restano sempre valide. Quanto al metodo può sembrare giusto quando propugna “principi di convivenza e di funzionalità” o quando si serve di strumenti che un tempo, nell’immediato dopoguerra, non erano ancora così diffusi: l’esperienza del disegno (per gli psicologi alla base delle loro indagini sull’interiorità del bimbo, paure e traumi), il giornalino di classe, la lettera collettiva, l’importanza primaria “dell’insegnare ad osservare”. Oggi se si porta un figlio o un nipotino ad uno dei corsi di apprendimento figurativo, ad esempio alla nostra GAM di Nervi, la prima regola che gli danno è: “Osserva, copia dalla natura”.

Altrettanto interessante in quel contesto rurale appare un’educazione filtrata dal mondo animale. Un principio-base viene espresso da Mario Lodi maestro riguardo gli animaletti che venivano allevati in gabbie nella sua classe per osservarli: “Non bisogna far morire nessun animale prigioniero”. In queste sue parole  un’eco degli orrori di guerra: ai partigiani di una Resistenza in via di formazione si pose subito il problema di cosa fare dei prigionieri. E il rispetto per loro, secondo etica di guerra, non era così consequenziale, anzi l’imbarbarimento era in agguato.

Sono tante le riflessioni minute che scaturiscono da questa lettura riferita all’insegnamento nel dopoguerra con ragazzi il cui padre non era tornato, o era rimasto invalido, bimbi che se sgridati si portavano le mani sul capo temendo botte, bimbi che vivevano un temporale scambiandolo per un bombardamento. Dall’intervista inedita al maestro, ne cito solo uno di spunti per altri simili: “Don Milani? l’ho conosciuto... E’ uno che si ribella e si trova a lottare con una Chiesa retriva”. Ma la Piadena del “Vho” è vicina al tempo del Concilio Vaticano II che rende datate queste parole. Resta la volontà utopica del “cambiare il mondo”, la ribellione che anima ogni giovane dall’omerico Achille agli indignados attuali. Certi escamotage come il mettere la cattedra di lato in classe sono estremizzazioni come  l’abolizione dei voti. C’è il ragazzo meno dotato che ha fatto difficoltà doppia rispetto a chi è facilitato dal contesto familiare, ma il risultato deve essere lo stesso da Nord a Sud. Per inciso, uno dei mali del nostro Paese è stata la disparità scolastica che ha mortificato belle intelligenze del Sud, spingendo ragazzi del Nord a cercare là un titolo di studio facilitato o a presentarsi là per un esame di Stato.

Ci sono invece in questo libro alcuni “pezzi da novanta” come la storia del MCE (Movimento di Cooperazione Educativa), il confronto o l’assimilazione di principi da altri educatori, sia si tratti della “Bibliothèque du travail” di Celèstin Freinet, sia di don Sandro Lagomarsino successore di don Milani. In sintesi, nella scuola tanto più si allarga lo sguardo ad altre esperienze educative, tanto più il maestro trova frecce per un insegnamento migliore.

Restano indubitabili “il valore sociale dell’educazione, la  bellezza e fatica dell’insegnare” e piccole regole come il lasciare la propria aula “bella, lucida, pulita”. Resta indubitabile l’originalità di ogni bimbo. Nei pensierini degli scolaretti di Mario Lodi ne troviamo di splendidi come per “gli scritti del cielo” (nati nell’osservarlo): “Un giorno sono andato nel campo col trattore e il sole mi camminava sulla testa”; “quando il sole si specchia nel mare sembra una palla rossa che nuota”. Cari i bimbi nostri  come pure, in tempi d’integrazione, quelli provenienti da culture altre, cari i maestri se insegnano con amore come Mario Lodi!

                       Maria Luisa Bressani

E' obbligatoria la giacca di Enrico Chiarella 2010

“Mangio la mia fame” è un detto del tempo di guerra tra i ricordi di Enrico Chiarella in E’ obbligatoria la giacca (KC Edizioni). Allora era bambino, a combattere il padre Domenico cui nel ‘42 mentre nel porto di Savona stava per imbarcarsi per l’Africa con il reparto di fanteria, arrivò un telegramma che gli annunciava la nascita della figlia Antonietta (quarta dopo i tre fratelli maschi). Ebbe così 15 giorni di licenza. Provvidenziali perché mentre guardava il piroscafo prendere il largo, ne vide il drammatico siluramento.

Tra i ricordi di guerra “il tram dei morti” che a Genova nel ’43 passava di notte a raccogliere i corpi delle vittime; anche quello di una delle prime vendette del dopoguerra, la fucilazione del vice comandante della Brigata Parodi. Gli uomini del suo  Battaglione di Brigata Nera di Chiavari, detto Spiotta dal nome del federale di Genova, lo aveva fatto odiare perché sequestravano ai contadini l’olio, loro unico sostentamento.  Condannato a morte, prima di morire con intatta fede fascista disse: “Vado a trovare il Duce!”

I ricordi, che il prefatore Giorgio Cosmacini definisce un “patrimonio condivisibile”, sono un centro d’interesse del libro. Un  altro è nelle riflessioni dell’autore come quando si chiede quale ragione se non “l’anticiviltà” possa spiegare l’opzione guerra per risolvere i problemi; come quando scrive che “la volontà popolare espressa dal voto non trova riscontro in Parlamento”. Ne porta esempi: il primo della DC nel ’48, che ottenne la maggioranza assoluta dei seggi con la maggioranza relativa dei suffragi. Suggerisce un metodo più equo: poter esprimere il gradimento su tutti i partiti come nel conclave del 1458 che elesse Pio II tra i candidati disposti in un ordine di preferenze.

Altro punto focale d’interesse il carattere pragmatico del simpatico autore. A 19 anni, dopo la morte del padre, trovò lavoro come Ispettore della Plastica italiana, materiale che non gli piaceva, ma la Marley ne aveva aperto una  fabbrica italiana. Riuscì perfino a far applicare mattonelle conservative, amianto-viniliche, sulla pavimentazione in ardesia di Palazzo Spinola in via Aurea. Riflessioni riguardano però le inspiegabili morti di giovani a contatto con l’amianto nella fabbrica di Trino Vercellese.

Nella sua vita, umanamente ricca, tra i ricordi l’alluvione di Genova del ‘70, tra le persone lo scrittore Fogazzaro, che a Puria di Valsolda frequentava i suoi bisnonni materni.  Persone come don Luigi Re che ad Alpe Motta di Aprica fece crescere la sua fede, già trasmessagli in casa. La fede lo ha reso pellegrino a Lourdes con l’Unitalsi per cui dirigeva il Coro Campodonico. A Lourdes conobbe la giovane sorella d’assistenza Annamaria che gli chiese di diventarne corista e che sposò. Il carattere risalta infine nel Torneo di tennis nell’isola felice di villeggiatura a La Thuile. Tutto da gustare, è uno spasso!

                     Maria Luisa Bressani

Sognavamo macchine volanti

Antologia di Fantascienza

di Claudio Asciuti

Cordero Editore esordisce con Antologia (Fantascienza) a cura di Claudio Asciuti, con fulcro gli anni Sessanta e un titolo suggestivo Sognavamo macchine volanti. Cordero si propone  un percorso nuovo di comunicazione, sfruttando il mondo del bit per rivolgersi da “libro parlato” anche ai non vedenti o a chi ha difficoltà di apprendimento come i dislessici. L’Antologia consta di libro ed e-book (insieme per euro 15), ma oltre alla facilitazione commerciale presenta una novità: gli undici autori selezionati immaginano gli anni Sessanta, focus della letteratura fantascientifica, come fossero i “loro” e con le domande sul futuro nostro e dell’uomo che, per parafrasare Bob Dylan, tuttora “soffiano nel vento”.

Asciuti premette alla selezione un acuto e documentato saggio sulla storia della Fantascienza, spiegando i quattro periodi che hanno fatto seguito ai padri Poe, Verne, Wells: “Era di Gernsback” (editore nel 1926 di “Amazing Stories”, la prima rivista); “Era di Campbell” (è il post Hiroshima e Nagasaki); “Era sociologica” (anni “50/60” con le riviste “If” e “Galaxy”); “New Wave” (Fantascienza adulta, anni “60/70”) con attenzione al politico-sociale, all’uso d’allucinogeni, alla musica rock...  Asciuti c’illustra anche la nostra tradizione dal 1952, nascita delle riviste “Scienza Fantastica” e “Urania” che si divide ancora il mercato con “Galassia”.

Ci dà  gioia grande nel togliersi il “sassolino” Moravia, mostro sacro della Letteratura di sinistra (idolatrato nonostante la sua predilezione per due mogli dopo Elsa Morante (migliore di lui come scrittrice). Mogli ben giovinette (e già sue compagne, una 30 anni più giovane di lui, l’altra 45). Per lui nessuna indignazione come nel manifesto del “Se non ora quando” e dell’ipocrita moralismo giacobino, anche della magistratura di sinistra riservato a Berlusconi. Moravia, ad un convegno di Fantascienza, ebbe il torto (per Asciuti che ci ricorda il gustoso episodio) di agitare il bastone verso Luce D’Eramo, rea d’aver abbandonato la letteratura realista e impegnata a favore di quella fantascientifica. Ormai la Fantascienza ne ha fatta di strada, diventando Letteratura di genere ma ha avuto un outsider: il visionario, poetico e grande scrittore Ray Bradbury. Ciò dimostra quanto Moravia sia stato miope verso di essa, meno per le avvenenti mogli-compagne.

Quanto agli undici autori spaziano da Renato Pestriniero, decano della Fantascienza italiana (esordì con Oltre il cielo, 1958) ad Oscar Felix Drago, 25 anni e già collaboratore dell’intrepido giornalino Dragut del Liceo D’Oria. Nel suo racconto ci ricorda l’onda anomala che colpì la Michelangelo e arriva fino all’alluvione del ’70 a Genova.

Le prime tre storie mostrano come la Fantascienza rappresenti un’evasione, un SOS per trovar risposta ad opprimenti fatti temporali. Nella prima l’autore Danilo Arona (primo perché viene seguito l’ordine alfabetico) ci racconta del rapimento di una sedicenne, con il sorriso stampato in faccia come tante altre, appena uscita di casa, una sera a Carpaneto per andare ad un concerto rock. La seconda, di Carlo Bordoni, parla di un razzo, il primo sparato sulla luna  e da un privato, un ingegnere, nel 1940 quando era stata appena dichiarata la guerra (10 giugno) tra “ovazioni d’entusiasmo”, credendo “sarebbe durata poco, il tempo di sedersi al tavolo dei vincitori, dividere la torta”. La terza, di Denise Bresci e Ugo Polli, riguarda la guerra del Vietnam e quei ventenni americani che credevano di andare a portare il progresso (costruzione di ponti e strade, ecc.) e si trovarono a seminare morte e devastazione (magari sotto l’effetto di allucinogeni come l’hascish assunto dai maomettani per andare in battaglia da cui il nome “assassini”).

La Fantascienza nei racconti citati, ma anche negli altri, non è cultura scolastica (cosa da rimproverare a tanti giovani che oggi scrivono), ma s’innerva nel campo di vita di ciascuno degli autori. Ha fin un senso educativo nel senso di indicare qualcosa da prevenire.

Il bel titolo di Stefano Roffo raffigura quel sogno di volare dell’uomo che nasce con Icaro; gli altri autori dell’Antologia, non citati per motivi di spazio, sono: Walter Catalano, Vittorio Catani, Franco Ricciardiello, Giampiero Stocco. Un libro da leggere con piacere ma con un’avvertenza: il lettore, pur se si tratta di Fantascienza, deve poter capire. Per citare un’altra letteratura di genere, quella dei gialli, Agatha Christie dava sempre indizi per smascherare l’assassino, dovrebbe valere anche per sogni e Fantascienza.

                         Maria Luisa Bressani

Commento: a dimostrare che la fantascienza nasce dai sogni della quotidianità, anzi dai più antichi e si proietta nel presente e nel futuro

13. INDICE ITALIA IERI, RAGAZZE OGGI

Paolo Giardelli       - Guardare e non toccare. L'amore nelle società rurali - 2012

 Francesca    Di Caprio Francia   - Piccoli Martiri - 2012

Cesare Gemme          - I Ragazzi del '99 vanno alla Guerra - 2012

Bruno Sanzin un triestino futurista Wolfsoniana 15 maggio 2007 , articolo su Il Cittadino  24 giugno 2007

XXVI Cammeo "Vivo perché scrivo"; "Non ho tempo per visite e divertimenti";

Don Giussani e il "Qui ed ora".

Agli esordi della nostra Letteratura: nella traduzione di Franca Guelfi - Itinerario al Sepolcro del Signore Nostro Gesù Cristo di Francesco Petrarca- San Marco dei Giustiniani 2006

Gabriele D'Annunzio La Nave a cura di Milva Cappellini 2013

XXVII Cammeo : Berlusconi e il bunga bunga. Da D'Annunzio a Berlusconi: il John Kennedy di Arcore?

Mariano Marchiò    - L'Eredità di Via dei Fiori Chiari - Il Giornale  17 agosto 2011

Carla Ida Salviati (curatrice)     -Mario Lodi maestro. C'è speranza se questo accade al Vho (pagine scelte) 2012

Enrico Chiarella    - E' obbligatoria la giacca - 2010

Alberto Dezzolla Quando il treno arriva Il Giornale 21 febbraio 2010

TRA  PASSATO  e FUTURO fantascientifico

Claudio Asciuti    - Sognavamo Macchine volanti  (Antologia di Fantascienza) - 2012

Rino Di Stefano  - Soluzione virale - Corriere Mercantile 21 novembre 2000

RAGAZZE OGGI

Claudia Rovani  - Solo per me - Il Giornale 8 febbraio 2012

Margherita Da Passano   - Soli Insieme - Il Giornale  16 gennaio 2010

Marta Farruggia - Ma il principe azzurro  ce l'ha il mio indirizzo?- Il Giornale 20 gennaio 2011

Giovanna Capucci Chiavi in mano Il Giornale 26 ottobre 2012

Giulia Margherita Sparano La mia felicità è un abito che a nessuno piace, aprile 2014

Lucina Bovio Scilieri -Spreco- Settimanale cattolico 1999

Cesare Viazzi - un uomo serio -,ricordo in morte di M.L. Bressani Il Giornale   21 agosto 2012

XXVIII Cammeo: Difesa della dignità del proprio lavoro: "Signore, ti prego" di M. L. Bressani

Il Padre domenicano Costantino Gilardi su "Sessualità e morale" Settimanale cattolico  4 febbraio 2007

Cosa ho fatto nella vita da "Nel Tempo"  edito youcanprint marzo 2015

  

I ragazzi (del '99) vanno alla guerra

di Cesare Gemme

Di Cesare Gemme I ragazzi vanno alla guerra (De Ferrari) racconta chi erano i nonni o bisnonni, i ragazzi del ’99 in guerra. Per apprezzare il libro, che non è una romantico-nostalgica incursione in sentimenti patriottici, valgono parole di Sergio Pedemonte nella prefazione: “Studiare la guerra significa studiare il comportamento dell’uomo (e della società) nel momento di maggior sforzo economico, morale, organizzativo. Nei conflitti, oltre agli eccessi criminali, vengono anche sviluppati progetti sensazionali che la pace non riuscirebbe mai a varare e sono gettare le basi per nuove scoperte o future conquiste tecnologiche. La Grande Guerra ha fatto conoscere ai contadini lucani, ai pastori abruzzesi, ai cavatori della Lunigiana, ai minatori delle solfatare, la luce elettrica, le automobili e i camion, le scatolette di carne e la profilassi antivenerea”. Doverosa premessa perché il libro come indica il sottotitolo La leva del 1899 nel Distretto Militare di Genova consta in gran parte di tabelle, ripescate con pazienza certosina dagli Archivi di Stato, dai Fogli Matricolari dell’Esercito. Dai dati e dalle tabelle la vita di quel tempo. L’autore, ingegnere, ha affrontato la ricerca in ricordo del nonno Luigi, un ragazzo del ’99 di Busalla, arruolato nel 239° Reggimento della Brigata Pesaro. “Per tutti noi la Storia è anche la mano che spedisce un nonno sul Rombon o sul Carso, in un deposito a Verona o all’ospedale di Padova come portantino”, perciò Gemme ci ha dato pagine che ci riguardano tutti, così reali come in nessun altro libro di storia.

Il Distretto militare di Genova, che aveva avuto la prima mobilitazione nella guerra Italo-Turca del 1911/12, includeva provenienze dai Distretti di Savona, Sarzana e per gli arruolati in Marina dalla Capitaneria di La Spezia. Per la provenienza da altre Regioni, il primato va ad Alessandria. Il totale delle reclute del ’99 del Distretto genovese fu di 4521, il loro grado d’istruzione su un campione del 20% ne rivela 785 che sanno leggere e scrivere, 61 analfabeti. L’alfabetizzazione elementare, resa obbligatoria dal 13 novembre 1859, solo con la legge Coppino nel 1877 fu estesa a cinque anni (con sanzioni per i genitori che non obbedivano all’obbligo per i figli). Per accelerare il processo d’istruzione ai piccoli Comuni fu imposta l’assistenza agli alunni più poveri. Ad Apparizione (che con altri 18 Comuni solo nel ’26 farà parte della Grande Genova) l’analfabetismo riguardava il 42,86%, seguita a distanza da Bavari e Struppa.

La relazione professione/grado militare ci mostra che ufficiali e sottoufficiali vengono dalle categorie di studenti, diplomati, impiegati. Tra le professioni più diffuse: contadino, carrettiere, anche tornitore e studente. Il brumista (vetturino delle carrozze a cavalli), lo stipettaio (mastro artigiano che produce manufatti in legno con intarsi) con altre attività non esistono più.

Le reclute venivano assegnate per caratteristiche fisiche, zona di nascita, professione. Un dato semplice ma indicativo è la statura. Le classi dal 1896 al 1900 erano state chiamate in anticipo rispetto ai vent’anni. In base all’alimentazione meno proteica la crescita, più lenta, si protraeva anche ai 26 anni. Per la legge del 1917 erano “rivedibili” i ragazzi alti meno di un metro e mezzo, tra le reclute riscontriamo un “picco” di ragazzi con altezza tra 1.55 o 1.60 metri. Quanto ai cognomi, nel Distretto di Genova i più ricorrenti sono nell’ordine Parodi, Canepa, Rossi.

A chi ama ripercorrere come nacque la nostra organizzazione militare piaceranno le pagine iniziali riguardanti la riorganizzazione, la miglioria degli equipaggiamenti pur se andando in visita ad un grande Museo della Guerra come a Gorizia stringe il cuore vedere “la miseria” di molti di quei panni e calzature, ma in molti non avevano avuto vestiti decenti prima della divisa. L’emozione cresce alle pagine 133/163, come un Muro del Pianto, con il nome dei deceduti, specie per malattia o per ferita d’arma da fuoco. Furono relativamente pochi del nostro Distretto Distretto per la classe 1899 (188 su 600mila morti militari italiani). Il teatro di guerra più tragico, il Monte Grappa. Il picco dei decessi nel secondo trimestre del 1918, più in generale nel periodo dal quarto trimestre del ’17 a fine guerra.

Nelle pagine finali vengono riprodotte le mostrine, iniziando dai Granatieri di Sardegna, costituiti nel 1859. E’ indicata la sede dei Reggimenti in tempo di pace e il numero di Deposito. L’elenco finisce con il 313° Reggimento costituito a Costantinopoli nel 1920. A introdurre questa pagina -che ci onora tutti- una copertina della Domenica del Corriere del 30 maggio/6 giugno 1915 con la scritta “nell’ora del cimento”, con il grido “Viva l’Italia” ed un Tricolore che il Re sventola dal Quirinale: non un Tricolore prima svilito (o sputato o bruciato) da certa sinistra come abbiamo visto in anni recenti, poi più che mai da questa strumentalizzato per i 150 anni dell’Unità.

                        Maria Luisa Bressani

L'eredità di Via dei Fiori Chiari

di Mariano Marchiò

E proprio in collegamento alla fantascienza che fa un discorso dal passato di paure e desideri al futuro inserisco ora la recensione del 21 novembre 200o sul Corriere Mercantile ad un libro che avanza un'ipotesi fantascientifica sulla diffusione dell'Aids e nello stesso tempo rivela buona conoscenza della società americana dove l'autore Rino Di Stefano ha studiato per diventare giornalista e questo nel nostro mestiere - in modo indubitabile per i risultati sul campo - è una marcia in più.

Soluzione virale di Rino Di Stefano

RAGAZZE OGGI

Bisogna far luce su ciò che siamo o saremo, su ciò che vorremmo diventare e come riuscirci. E’ il significato più profondo del tascabile Solo per me della trentenne Claudia Rovani (assessore ai Servizi alla persona, Cultura – Sport e tempo libero, Pari Opportunità, ecc.) nel Municipio di Levante. Il libro edito da Studio64 di Genova racconta la storia di Jole, quattordicenne in conflitto con i genitori, che poi si conquista due lauree e trova l’uomo, giusto da sposare, perché con lui si capisce restando se stessa senza “prostrarsi” e sensi di colpa. Il libro finisce con la fantasiosa dichiarazione d’amore di questo Giulio. Sulla passeggiata a mare di Nervi davanti alla Torretta, con uno striscione adagiato sugli scogli e la scritta: “Vuoi sposarmi?” Un finale da favola da chiudere con il “vissero cent’anni felici e contenti”. Però che il disagio di Jole nel crescere non sia stato da poco lo indica la prefazione della nutrizionista Angela Gruppioni che le ha insegnato “a superare paure, catene, inibizioni e proibizioni, condizioni psicologiche non sue ma inculcate durante la crescita”.

Perché è un libretto importante? Cosa ci insegna? E’ un libro-terapia dove il raccontare un’esperienza vera aiuta a star meglio? E’ stato il caso dello splendido Coma vigile di Minnie Alzona che lo scrisse con il figlio, appena uscito dal coma e in riabilitazione, su quei mesi in cui gli altri lo ritenevano assente mentre lui capiva, vedeva, sentiva.

E’ forse un libro in parte autobiografico? Un punto di contatto tra Jole e l’assessore Claudia c’è nelle due lauree a Scienze della Formazione acquisite da entrambe, ma Jole non ne ha tratto la sicurezza per “non sentirsi un corpo che non le piaceva e si portava a spasso una bella testa”.

Penso che sapere i fatti di vita di un autore ci aiuta a decifrare meglio le motivazioni, ma nella scrittura perdurano i valori da spartire con tutti, quanto meno come piccole storie esemplari che possono riguardaci perché dentro hanno un frammento di luce. La luce da accendere è quel “conosci te stesso” di Socrate e cito dal libro un piccolo frammento. Jole, a 14 anni negli studi se la “cavicchia” e ama uscire e vorrebbe andare in discoteca. I genitori le dicono no, lei si ostina a chiedere. Non le va di fare come le “santerelline” che dicono di uscire per un gelato e filano in discoteca. Sembra la nostra prima donna Nobel, Grazia Deledda nell’autobiografia postuma Cosima. Riguardo “lo scandalo” suscitato da Rosa di macchia (suo primo libro che uscì con il titolo Fior di Sardegna) si dà un consiglio: “Non doveva rassomigliare alle ragazze di buona famiglia che commettono incoscienti i loro peccatucci d’amore. Dio le aveva dato una coscienza limpida e profonda come un’acqua nella quale si vede ogni filo di luce e ombra, per guidarsi da sola nella strada della verità”.

Simile l’ostinazione di Jole che la porterà in un’Università lontana da casa per sottrarsi all’amorosa tutela dei genitori. Poi, appoggiandosi alla dottoressa cui chiede di farla diventare una “persona normale”, dialoga con il padre (con cui aveva il conflitto maggiore) facendo affiorare ricordi ma anche riconfermandosi nelle scelte.

Sono due generazioni a confronto. Da un lato i genitori con le loro regole e una volta valeva “prima il dovere poi il piacere”, ma scaduto il primo tempo, il secondo era già bruciato. Dall’altro lei, ragazza moderna che vuol dar spazio ai “bisogni secondari” che non sono colpe, ma capacità di star bene con sé. A testimoniare l’intelligente amore dei genitori, accanto a lei anche quando è lontana, queste parole del padre su di lei: “Il mare ventoso è blu...Jole tu sei una persona meravigliosa ma, come il vento, bisogna capirlo”.

Di questo libro resta la voglia – ed è cosa rara - di leggere un seguito, di avere una collana di tascabili sulle tappe di vita di Jole. Lei che battaglia per educare i figli, lei che si fa mamma di genitori che invecchiano indocili. Il perché del desiderio si alimenta nel pregio della scrittura essenziale del libro o perché, in sottofondo, riascoltiamo un canto greco che è per tutti: “Lascia o madre mia ch’io faccia come la rondine, la rondine per andare, io per tornare”.

                             Maria Luisa Bressani

Solo per me di Claudia Rovani

Soli Insieme di Margherita da Passano

Margherita Da Passano, 25 anni, laureata in Lingue, già studentessa Erasmus in Spagna, ha viaggiato tanto da sentirsi un po’ una “globetrotter cittadina del mondo”. E’ uscito ora per De Ferrari il suo Soli Insieme, raccolta di poesie.

In una Genova dai capelli bianchi piaceranno i versi per le nonne. “Alba” per la materna: vorrebbe invecchiare come lei saggia e serena dopo le avversità superate. “Nonna” per la paterna, mai conosciuta, mai accarezzata. Le scrive: “Non conosco la tua voce/ il tuo odore/ i tuoi gesti/ i tuoi occhi/... anche se dicono che sono i miei/. Non so nulla di te/... Ma sono l’unica che ti abbia compresa davvero”.

Gli affetti familiari, la pace del ritorno alla casa delle “cose semplici, vere, grandi” è una componente delle poesie di Margherita. Un altro centro il suo impegno di volontaria. In “Diversi”, per “i diversamente abili che sognano come noi” annota: “Il loro sorriso/ è la mia gioia”.

Un altro tema, i viaggi, i luoghi conosciuti: dai vicini come Framura nelle Cinque Terre che non si stanca di scoprire, all’Irlanda, verde smeraldo nei prati, di rupi selvagge e con “l’infinito libero delle valli”.

Per la giovane Margherita l’amore è un tema centrale. Pieni di ritmo (tanto che vorrei un cantautore li mettesse in musica) i versi “Tu - a Paolo”. Vi si riconoscerà ogni donna che un ragazzo con questo nome abbia tenuto sull’altalena: “Tu mi ubriachi di sogni, tu mi uccidi di silenzi, tu mi vizi di piccole cose... tu mi stanchi di ripicche, tu mi fai volare di libertà”. “Amo” invece riflette la completezza d’amore: “Amo tutto di te, anche quello che non amo”.

E vien da pensare alla controparte, all’innamorato, che con Margherita ha “una bella gatta da pelare” se non è il signor Higgins di Pigamalione. Questi, quando Eliza, la  fioraia che ha voluto educare, gli tiene fieramente testa, dice estasiato: “Sei una nave da battaglia”. E Margherita, ragazzina-donna, non si accontenta come si arguisce dalla dedica del libro a “tutte le persone profonde”, consapevoli e perciò soggette ad un fardello più pesante degli altri.

Per capirla meglio, ancora due poesie. A “Filippo, un gatto” mi fa ricordare un convegno su Lalla Romano, dove mi sedeva accanto una letterata, polarizzata dall’affascinante relatore Giovanni Raboni, ma anche incuriosita dalla mia palpabile tristezza. Le spiegai: “In campagna, ho trovato il micio morto, fuori dal cancello, il collo spezzato, il collarino rosso buttato di lato, deve averlo colpito un’auto”. S’inviperì con un “Capisco esser tristi per un cristiano...” Oggi le risponderei con Margherita: “A chi mi diceva: E’ solo un  gatto,/ rispondevo: Non lo conoscevi, allora”.

E “Impotente”  con la data 11/09/2001 della distruzione delle Torri Gemelle. Scrive: “Con che maledetto diritto/ spezzano vite innocenti?/ La rabbia si fonde con le lacrime”. Quando una ragazzina-donna sa restituirci il lampo di verità della poesia autentica, non resta che dirle: “Brava!”

                 Maria Luisa Bressani

 

 

Ma il rincipe azzurro ce l'ha il mio indirizzo?

di Marta Farruggia

Marta Farruggia studentessa a Genova a Scienze Politiche, indirizzo di giornalismo politico economico sociale, è al primo libro: Ma il Principe Azzurro ce l’ha il mio indirizzo? pubblicato da Gammarò (www.gammaro.it)

Spigliato, con brioso linguaggio moderno, un po’ sulla scia del Diario di Bridget Jones che alle ragazze d’oggi ha fatto scuola. Battute alla Litizzetto o di un teatro al femminile come quello di Paola Sansone e delle sue poesie di “Comicamente Parlando”, dove la donna sa ridere di sé. Raffinata la stampa e raffinata la copertina dove nel quadro “La robe rose” (1864) di J. Frédéric Bazille la giovane di spalle che guarda il suo paese c’invita  a sognare con lei, anche a capire attraverso di lei il suo mondo.

Un tema ottocentesco quello del Principe, ormai un po’ sottotono come insegna il “Monna Lisa smile” interpretato da Julia Roberts e Lei, questa esordiente, cosa c’insegna sul suo mondo giovane? Ce lo rivelano alcune battute: “Quello che non serve più si butta, quello che non serve ancora si compra” (su ciò che è necessario in una casa); “Hai trovato una persona, soltanto una, a cui piacerebbe passare tutta la vita da sola? Beh, io non ancora!” (su solitudine e mal di vivere resi quasi surreali).

Un insegnamento di Michela, la protagonista del libro, a chi cerca il Principe: “Gli uomini...La specie peggiore è composta da creature prive di tutto quello che può essere considerato forma intelligente, o anche lontanamente attiva; si alzano la mattina, vanno a lavorare e tornano la sera, fanno un po’ di pratica là dove non batte quasi mai il sole e dormono, e sono felici!”

Il libro è uno spaccato di costume e i luoghi descritti sono quelli di Genova, dal ristorante “Il Focone” ai Parchi di Nervi, quindi non è un altro mondo, un mondo alieno. In questa nostra città ci sono giovani che si ubriacano, a rimaner sobria resta quasi solo Michela. Il suo “primo” amore, conosciuto al liceo, nel tempo trascende con l’alcool, giunge ad alzare le mani su di lei in pubblico e la prende a calci nel ventre. Quanti articoli di cronaca ci parlano di questi trascendimenti, al punto di chiedersi dov’erano le mamme di questi ragazzi? Come li hanno allevati? Il secondo “Principe” è un collega in una redazione di giornale, così traditore che le farà pubblicare il primo libro, aggiungendo il suo nome come lo avessero scritto a quattro mani.

Lo spaccato è anche su come si lavora nei giornali e così realistico che sembra l’autrice lo abbia già sperimentato. Michela, pur scrupolosa e apprezzata, si vede portar via i servizi migliori affidati ad altri colleghi, in sospetto d’esser più raccomandati, e lei resta ad occuparsi dei prezzi della spesa mentre aspirerebbe ad inchieste sui sindacati o sulle mense scolastiche. Un consiglio d’esperienza? Il buon lavoro alla lunga premia e come dice il proverbio, se si perde una collaborazione e si chiude una porta, magari, cercando, si apre un portone.

Una forza del racconto è l’amicizia tra due ragazzine da quando avevano 15 anni e guardavano i film di Tom Cruise, loro “ideale”, mangiando pop corn. Nelle decisioni, nei programmi del giorno hanno continuato a star bene: “Si faceva quello che voleva lei, nel posto che decidevo io, Michela”.

                         Maria Luisa Bressani

 

TRA PASSATO E FUTURO FANTASCIENTIFICO

Lucina Bovio Scillieri e il suo primo libro "Spreco"

 

Un libro come il quaderno di appunti di sé, con cui ogni brava scrittrice dive d'aver incominciato, è stto presentato da Cesare Viazzi alla Biblioteca Berio.

Il titolo Spreco ha due significati. Derica dall'esser pubblicato nella collana dell'antilibro dall'editore Francesco Pirella, che si propone di dimostrare come ciascuno possa farsi un libro con materiali di riciclo (crte, palastich, metalli). Il principio si rifà al Manifesto dell'Antilibro, concepito nel 95 da Forfles, Sanguineti, Pirella. Attenzione: nulla di aboracciato, ma realizzzioni di gusto raffinato, vicine anche graficamente, all'indole dell'autore.

In questo caso si tratta di una giovane donna, Lucina Bovio, da qualche anno sposata con Stefano Scillieri, qui  all'opera prima nel 1999.

Se il primo significato si riferisce alla possibilità di utilizzare per un libro materiali di riciclo, il secondo ma ancor più importante allude a "coscienze sprecate": "cosceinze artificaili/ prosciugate/ piccole esistenze" mentre intanto "battono le ore con ostilità/ qando le senti".

L'agile libretto chiude con una citazione di Flaiano: "il mio gatto fa quel che io vorrei fare, con meno letteratura". Un modo di presentarsi come tanti piacerebbe saper fare. Una libertà e sciruezza di giovane ben educata e ricca d'interessi.

Viazzi, infatti, insistendo sui contenuti, ha detto: "Sono poesie esistenzialiste, perché Lucina soleva l'uomo dal vuoto angoscioso, con slanci di fede, amore, erptismo senza contradizione. Si pensi al barocco, contemporaneamente sensuale e spirituale".

Un giudizio penetrante. Ci sono poesie come preghiere. In una Maria è invocata così: "poterti avere un attimo/ madre muta/ a sentire anche me". Una sorpresa è stata la voce del'autrice che ne ha lette alcune, alda come un giordino interiore di profum oreintali.

Oggi siamo "aggrediti" da tante voci per radio e Tv, inutilmente cinguettanti, spesso grezze all'esordio o piatte quando si educano o - pegio- tarantolate da una fretta ingiustificata per il vuoto che ocmunicano. Allo stesso modo Viazzi si è confessato "aggredito" dai tanti che gli sottopongono i loro parti letterari, mentre in questa presetnaione si è sentito profondamente coinvolto. Un merito in più per l'autrice, in quanto questo bravo critico, che ha il pregio di trarre dallarchivio della sua memoria personaggi o riviste che hanno fatto e sono la storia stessa della comunicazione moderna, è sempre di aplomb inglese. Non fa concessioni, non ha sbavature, critica tenendo dritta la piega dei pantaloni. In modo insolito per lui - con fervore - di Lucina ha apprezzato: limpidezza ed essenzialità di parole, insostituibili come le note sul pentagramma. Poesia che è musica.

  Maria Luisa Bressani

Dopo questo libro Spreco del 1999 Lucina Bovio ha pubblicato con De Ferrari (editore con il quale ora collabora) L'ora e altre storie nel 2002 e Non domandarti il perché nel 2003 poi nel 2004 l'interessantissimo E' tutto un cinema in cui su titoli  di film famosi costruisce  44 racconti ricchi di humour tant'è che il prefatore Oreste De Fornari sostiene che non sarebbero dispiaciuti a Gianni Rodari per la loro capacità di rompere gli automatismi della mente.  L'autrice rivela una profonda cultura "moderna". Lucina ha dato anche ottima prova di sé presentando Mostre d'Arte e collaborando con Gallerie artistiche. Canta anche in un Coro rivelando le tante frecce che ha al proprio arco una giovane donna bene educata. Non solo, si è slanciata nel profondo della fede con un libro di cui è stata curatrice di "Preghiere al Signore" (concepite da autori di livello nella nostra città) e con prefazione del cardinale Bertone. Un tema questo della  fede già presente in Spreco nella preghiera a Maria.

Quindi un grazie, una volta di più va reso a Cesare Viazzi che ha saputo individuare il suo fresco talento.

Viazzi  un giornalista con una prestigiosa carriera e con la recensione ad un libro del suo terzogenito Remo  Contro la democrazia -  Lo Pseudo Senofonte inizia la mia rassegna di recensioni nella pagina Difesa della Libertà.

Per questo  motivo inserisco qui  il ricordo di Cesare Viazzi che forse sarebbe stato più appropriato collocare alla pagina "I maestri" o apparentare per giornalismo nella pagina "In memoria" a due grandi:  mons. Andrianopoli e Umberto Merani. Però la metto qui per il rispetto vero che ha sempre dimostrato da uomo serio. Anche alle tante giovani donne che si sono trovate a collaborare in Rai o dove lui lavorava ed era il capo. Un particolare non di scarsa importanza in un'Italia dove chi è capo spesso crede di aver diritto a mobbing, ecc. specie di fronte alle giovani.

Cesare Viazzi - un uomo serio-

ricordo in morte di M.L.Bressani  

Il Giornale 21 agosto 2012

 

A quasi un mese dalla scomparsa di Cesare Viazzi, uomo di cultura e brillante giornalista, si può tracciare un bilancio  più meditato nel senso del cosa ci ha lasciato? A me – ogni discorso di questo tipo è sempre personale- cosa ha lasciato? Pur se l’ho conosciuto solo in pubbliche occasioni, il bravo giornalista e scrittore insegna sempre.

Ripercorro per tappe la sua carriera prestigiosa: in Rai dal 1960, diede vita alla Terza rete e al Tg3. Nel 1982 fu un antesignano con Tg3 Set della fiction (che tanto spazio ha preso in Tv), ricostruendo fatti di cronaca con successivo dibattito in studio. Caporedattore regionale a Roma, Cosenza, Genova, vicedirettore dei Servizi giornalistici Rai, direttore della Sede regionale Rai Liguria.  Inviato speciale con servizi su Praga occupata, la Praga di Jan Palach per intenderci dove i sesssantottini a costo della vita protestavano contro un’oppressione vera e non contro quella immaginaria dei figli di papà in Francia, Usa, Italia.

Da par suo fu in prima linea in un altro momento drammatico, l’alluvione genovese del ’70, tra i soccorritori con altri giornalisti come Pippo Zerbini, che ha impostato tante pagine di questo Giornale ed è ricordato con affetto nelle zone alluvionate: un marmista mi diede come un santino, pregandomi di riportargliela, una foto da lui scattata nei soccorsi.

Non solo, Cesare Viazzi si distinse anche per i suoi servizi culturali su Olimpiadi, eventi cinematografici e teatrali, il suo pane come uomo di cultura, in cui coniugava il suo sapere con l’insegnamento ricevuto nella sua colta famiglia: il nonno, di cui portava il nome, famoso pittore di Pedrosa nell’alessandrino, la moglie Paola Comolli, cugina di Pertini, il presidente più caro agli italiani per umanità,  cuore e fedeltà ai principi.

I miei ricordi di Cesare, uomo pubblico? Sono quattro che mi hanno dato un po’ la sua misura d’uomo.

Il primo è l’umiltà pur nell’apprezzata professionalità. Ad una conferenza ricordò un “errore” ad uno dei suoi primi servizi, per cui il superiore in Rai lo strigliò. Aveva parlato a lungo dell’angiporto, luogo di testi plautini o del teatro antico, che detto così ora non ha più senso. Mi spiego con un parallelo ripensando ad una critica di un docente di fisica nucleare a Torino, sostenitore della fusione fredda e che da sempre preferisce dettare le interviste a quelle “dementi” delle giornaliste. Mi chiese a bruciapelo: “Via etere, tu hai mai scritto così?” Titubavo in quanto è un mio cugino maggiore e ne sento tuttora soggezione. “Hai visto cos’è scritto alle spalle di Giuliano Ferrara nella trasmissione Radio Londra? E’ scritto ‘on air’, perché le onde viaggiano nell’aria e non via etere che non esiste, che è un’invenzione di voi giornalisti”.

Secondo ricordo di Cesare che definirei ‘l’unghiata critica del leone’. Questo modo di dire l’ho imparato da un maestro d’arte, lo scultore Edoardo Alfieri. Mi fece osservare come sia scontata la frase ‘la zampata del leone’, mentre basta ‘l’unghia del leone’ ad indicare il particolare che il grande sa individuare. Viazzi presentava un libro di Lucina Bovio (il suo secondo mi par di ricordare in una produzione ora arricchita di tanti fiori all’occhiello): una giovane donna di talento con l’impegnativo cognome del padre Franco, così amato in Genova. Il pubblico presente era attempato, forse un po’ prevenuto come accadde la prima volta che fu premiata Dacia Maraini e lo scrittore Giuseppe Berto, stanco dello strapotere culturale di Moravia, intervenne a dire: “Non si premiano le belle ragazze, ma i libri”. (Poi anche la Maraini ha continuato, imponendosi da sé).

Nel presentare Lucina, Viazzi non esordì con un “è così brava” o altro di aria fritta, ma con l’unghiata del critico-leone disse: “E’ una scattista”. Fu la ventata d’aria fresca sollevata dagli atleti nello staccarsi dai blocchi, scompigliò  sopracciglia inarcate, predispose all’ascolto di ciò che aveva da dire la giovane ragazza.

Terzo ricordo: il Premio Giubileo 2000 dell’UCSI Liguria (Unione Stampa Cattolica Italiana, che in Genova prese ali con monsignor Luigi Andrianopoli, il Montanelli in tonaca). Viazzi era nella giuria con Gabriella Airaldi, Arcolao e spiegò – per trasparenza – che il criterio di scelta era stato “geopolitico”. Capii che ero stata inclusa tra i premiati  perché il mio articolo su San Colombano era uscito sulle pagine culturali del Giorno (e il Premio avendo avuto la sponsorizzazione della Fondazione Carige mi fruttò un assegno di un milione per cui mi ritrovai come il signor Bonaventura “ricca ormai da far paura”). Né mi sentii diminuita dal criterio di scelta: il fatto di essere affiancata sul Giorno a firme illustri è stata per me occasione di apprendimento. Penso a quando sopra il mio articolo sui Beni culturali apriva la pagina sullo stesso tema Guglielmo Zucconi: in poche righe scritte da lui capii il nocciolo di ciò che io stessa avevo scritto e messo insieme con tanta fatica. In quella premiazione mi è sembrato importante il dar conto delle scelte, sottolineato da Viazzi.

Ultimo tratto dai miei ricordi di Cesare: l’ironia, la capacità di sdrammatizzare la tensione. Eravamo in viaggio lungo la tortuosa statale ’45 di Valtrebbia per Bobbio con un pullman organizzato dall’UCSI per premiare alla carriera giornalisti che avevano operato sull’Appennino ligure-piacentino. Tra i premiati il cavaliere Ghersi di Levanto che con le sue cronache ha scandagliato il Levante fino a La Spezia. Gianfranco Scognamiglio, di cui una delle più recenti fatiche è stato San Napoleone sulle insorgenze contadine del piacentino contro il Bonaparte. Anche due sacerdoti: don Guido Migliavacca, il più antico direttore di Settimanali cattolici, che in Quando eravamo povera gente ha raccolto articoli sulla sua esperienza di parroco ad Alpe; monsignor Piero Coletto, nipote del Vescovo Zuccarino, premiato – in sintonia con lo Statuto UCSI – in quanto comunicatore, un ruolo svolto per i legami con San Colombano in tutta Europa.

Il pullman era mastodontico, inadatto a percorrere la Val Trebbia dove si dovrebbe proibire il transito di veicoli di tale stazza. Era un sabato affollato di motocilisti che uscendo dalle curve si avventavano contro il vetro panoramico dell’autista, quasi un maxischermo per i passeggeri. A due terzi del viaggio, dopo Ottone, quando la strada s’inerpica con visioni d’orridi mozzafiato e in fondo il nastro luccicante del Trebbia, non ne potevamo più dal terrore (non esagero!). Fu allora che Viazzi se ne uscì con un “come vorrei essere in autostrada e trovare un autogrill”. Le risate spezzarono la paura e tempo due o tre minuti – così sembrò, ma sono quasi 30 km. – arrivammo a Bobbio.

A me di Viazzi sono rimaste queste quattro cose: l’umiltà del professionista, l’unghiata critica da leone, la trasparenza d’informazione, l’ironia.

Ripenso ad un tratto privato dell’uomo: la sua bella famiglia con  tre figli, affermati nel campo della comunicazione e anche della politica se si pensa al buon fare di Remo Viazzi,consigliere comunale per Forza Italia e Pdl. Una bella famiglia non piove dal cielo, certo un po’ di fortuna aiuta ma la si costruisce giorno per giorno. Quando una nipotina ancora piccola mi ha chiesto: “Come farò, nonna, a capire se un ragazzo è buono, quello giusto per me”, le ho risposto: “Pensa se lo vorrai come papà dei tuoi bimbi”.

         Maria Luisa Bressani

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bruno Sanzin un triestino futurista Wolfosoniana 15 maggio 2007 (articolo su Il Cittadino 24 giugno 2007)

Vivo perché scrivo, queste parole di Bruno Sanzin, mio padre, scritte il 5 maggio 1993 a 87 anni sono il suo testamento spirituale” ha detto alla Wolfsoniana di Nervi il figlio Paolo, architetto, invitato a ricordarlo. “Delle sue poesie mi piace particolarmente quella che dedicò a mia madre, nel ’92, quando l’aveva appena persa: Sbagliato? Mia cara Gina, ho deciso, voglio vivere perché finché vivo ti trovo sempre accanto a me e dopo dove ti troverò?”

Al Museo Wolfson sono stati presentati due libri sull’aeropoeta futurista triestino: Tutte le poesie dal 1923 al 1942, a cura di Enrica Mezzetta (ISU Università Cattolica, 2006) e Bruno G. Sanzin (IRCI, Trieste, 2007).

Piero Delbello, direttore dell’Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata di Trieste (IRCI), ha spiegato che il II Futurismo ebbe una sede centrale a Roma e sedi su tutto il territorio nazionale con specificità legate alle varie aree geografiche. “Il Futurismo Triestino – ha sottolineato - si venne a collocare nelle più vasta zona di Dalmazia (attraverso Tullio Crali) e in quella, finora meno indagata, della Venezia Giulia. Sanzin fu uomo di rapporti: dalle sue lettere emerge una marea di artisti da studiare. Come IRCI rappresentiamo quel mondo che non c’è più, la gente che se n’é andata perché l’esodo dei giuliano-dalmati coinvolse 350mila persone. L’IRCI è strumento per essere ricostruttori di noi”.

Sanzin ebbe tra i suoi amici l’aeropittore Gerardo Dottori (presentato alla Wolfson lo scorso autunno) e a proposito di un altro amico, il fondatore del Futurismo, ha scritto: “In Marinetti ho trovato un tesoro che io non sfrutto ma benedico”.

La sua semplicità e fierezza di triestino risaltano nelle scelte di vita: scrisse fino al ’42, a 36 anni, quando pubblicò “Fiori d’Italia” dedicata al figlio Paolo, poi riprende la penna solo nel ’54 per un articolo sul ritorno di Trieste all’Italia. Dal ’70 all’80 conosce un’ultima stagione creativa. Nel 1931 aveva portato a Trieste la Mostra organizzata a Roma da Marinetti per celebrare la trasvolata atlantica di Italo Balbo e riaprì il capitolo del futurismo giuliano che sembrava chiuso con la dispersione del gruppo formato a Gorizia da Sofronio Pocarini.

Questo incontro alla Wolfson fa seguito ad altri in cui i figli sono stati chiamati a ricordare padri della nostra storia artistico-culturale-civile. Nell’occasione Mario Bozzi Sentieri, presidente della Fondazione Regionale Colombo, cui sono affidate le Collezioni Wolfson, ha ricordato che con giugno Archivio e  Biblioteca Wolfson saranno al Ducale nel Centro Studi sul Novecento. Per il 2009, centenario del primo Manifesto Futurista sono in cantiere Mostre sul II Futurismo che ha avuto un forte legame con la Liguria.

                       Maria Luisa Bressani

 

 

 

 

Ho certo scritto alla Pagina "Arte e Tradizione" dell'intelligente lavoro del team di giovani conservatori della Wolfsoniana: Matteo Fochessati, Gianni Franzone e Silvia Barisione che da qualche anno opera a Miami alla cura dell'altra parte della collezione Wolfson. Questi giovani per raccordare in modo vivo il Museo al Territorio hanno organizzato un ricordo di tutti i principali artisti (molti i futuristi) le cui opere appartengono alla collezione ed hanno invitato a ricordarli in modo personale, con l'affetto e i particolari inediti di famiglia, figli o nipoti. Per questo motivo io stessa sono stata invitata a presentare le Lettere dei miei genitori e mi è capitato di scrivere - con gioia - di un triestino  come mio padre, cioè Bruno Sanzin, conoscendo in quell'occasione il figlio architetto e  la moglie che vivono a La Spezia. Paolo Sanzin mi spiegò che siamo un po' parenti per il fatto che sua madre di Zara si chiamava Vlah di cognome e quindi - secondo lui - un po' imparentata con i Vlahov della Distilleria di cui la cugina prima di mio padre Teresita sposò uno dei tre fratelli proprietari dell'azienda prima che venisse espropriata dal governo slavo. Mi sembra ipotesi un po' avventurosa, giusto del tipo d'una scherzosa battuta, però se ci fosse un collegamento mi farebbe gran piacere in quanto starebbe a testimoniare una "bella schiatta". Però c'è certamente un legame tra me e Bruno Sanzin in quelle sue parole "vivo perché scrivo" che sento anche mie.

Non solo, di recente ho scoperto perché nel mio primo libro Begonza abbia scritto che io quindicenne sognavo di fare scoperte scientifiche del tipo "Volta e la rana". Ho visitato infatti il Tempio Voltiano a Como dove sono custoditi i ricordi di questo grande scienziato che iniziò da osservatore attento della natura. Ne ho ammirato anche la bella presenza fisica ma mi ha colpito una sua frase in particolare: "Non ho tempo per visite e divertimenti in quanto sto sempre a parlare con altri scienziati". Grandissimo insegnamento onde non finire come donna tra le ciciucì-ciciuciò, ma soprattutto la verità profonda "che non si può vivere come in un'isola o fare di se stessi un'isola" perché c'è bisogno di comunicare con gli altri proprio per imparare da questo dialogo.  Ed è ciò che mi ha regalato il giornalismo, è il significato più profondo della comunicazione, è lo scrivere per capire ed essere capiti, quel "privilegio altero" che Giuseppe Berto arroga a Giuda. L'Apostolo traditore così poco compreso nella sua essenza di fondo cioè la finalità del tradimento che in lui fu per far trionfare Cristo (che è stata pure quella degli italiani dopo l'8 settembre: il tradimento per riscattarsi, per avere futuro?). E Berto cerca di spiegarci questo Giuda.

Infine ho trovato alla morte di Volta una frase che mi ha fatto pensare: "Poi verranno le medaglie, le parole..." cioè la vacuità del ricordo anche il più ossequioso o affezionato dei posteri perché il nostro momento è "il qui ed ora" che predicava don Giussani.

Una volta ai miei esordi nello scrivere avevo mostrato a mio zio don Pino Zambarbieri, terzo sucessore di S. Orione, le medaglie che via via mi venivano attribuite tutte conservate in una vetrinetta tra i libri. Si girò dall'altra parte: "Non approvava!, non era quello che avrebbe voluto per me". Capii meglio quando una "scrittrice" m'invitò a mandare una lettera d'adesione a Lei che aveva vinto o era stata segnalata in "101" Premi. Capii lo "Spreco", "l'Inutilità" di ciò e mi staccai già in quel momento dal voler scrivere per ricevere un Premio.

 Per ascoltare don Giussani  alla Scuola dell'Università Cattolica, quando il sacerdote teneva lezione in Aula Magna, bigiavo (per la prima volta in vita mia la lezione, in quel caso era l'ora di Storia della Musica, un insegnamento, fatto ad alto livello, che avevo voluto scegliere per imparare di più  criticamente in quanto non c'è spettacolo o film la cui anima non sia accompagnata da una colonna sonora ).  Provavo ascoltando don Giussani picchi di felicità. Il più alto fu un giorno che uscendo da quella lezione vidi il Chiostro della Cattolica tutto imbiancato di neve sotto i raggi del sole. Fu davvero come ascendere all'infinito della bellezza del Creato e di ciò che potrebbe l'uomo se fosse consapevole di sé e delle sue potenzialità ad immagine di Dio.

XXVI Cammeo:  "Vivo perché scrivo",

"Non ho tempo per visite e divertimenti".

Don Giussani e la necessità del "qui ed ora"

La Nave di Gabriele D'Annunzio

a cura di Milva Maria Cappellini

La Nave, dramma di Gabriele d'Annunzio,  trionfo nel 1908 davanti ai Sovrani, torna, in questo 150esimo dalla sua nascita, pubblicato da De Ferrari. Il libro ripropone la copertina di Duilio Cambellotti per i Fratelli Treves, i primi editori. Quasi con modestia, al di sotto del disegno, compaiono le parole "edizione annotata a cura di Milva Maria Cappellini" In realtà la studiosa ci dà un'opera nell'opera per la dovizia di note e l'ampia introduzione. La studiosa ha curato edizioni d'autori del Novecento tra cui oltre a D'Annunzio, Boine, Pampaloni, Serra.

Ci presenta D'Annunzio dopo che nel 1904 aveva rotto il sodalizio di vita ed arte con Eleonora Duse e portato con sé alla Capponcina la marchesa Alessandra di Rudinì. Con passaggio dei servitori da cinque a ventuno, dei cavalli da due a otto, dei cani da quattro a trentanove. A breve la marchesa, divenuta morfinomane dopo una grave malattia, viene da lui rimpiazzata con l'amante Giusini, acronimo di Giuseppina Mancini, contessa e sposata. Più intrigante di molti gossip attuali, il carteggio di lettere private che D'Annunzio le indirizza, mandandone in contemporanea di ufficiali al di lei marito. Per Giusini è la prima copia del dramma. Era lei l'ispiratrice della sensuale Basiliola, protagonista della Nave,  e il poeta a lei, a sua volta travolta dalla follia, dedicherà poi Forse che sì forse che no e il diario Solus ad solam.

Oltre al travaglio esistenziale del poeta, Cappellini ne mette in risalto il grande lavoro preparatorio alla stesura del dramma: le molte richieste agli amici per reperire da varie biblioteche le fonti storiche. Queste sono da lei riunite in alcune pagine, fitte di nomi, che spaziano da Antichità di Aquileia a Inni della Chiesa, Istoria delle guerre gottiche, Istoria delle guerre persiane, Storia della arte cristiana, Storia di Venezia nella vita privata.

Non a caso, perché protagonista del dramma è la fondazione di Venezia nel VI  secolo, quando sotto la spinta dei Longobardi gli abitanti di terraferma si rifugiano nelle isole della laguna. In una nota Cappellini ricorda il miracolo della voce e degli uccelli che li avrebbero guidati, rammentandoci però anche la scettica Cronaca veneta dove le  visioni sono attribuite a cervelli esaltati dalla peste dilagante.

Del lavoro preparatorio risalta pure la messa in scena del dramma: il reclamizzarla con l'editore, reclamizzando al tempo stesso le proprie difficoltà per ottenere anticipi, e la cerca di un valido maestro per le musiche, che incontra in Ildebrando Pizzetti. Al momento della prova lo scoramento: l'attrice scelta per Basiliola gli sembra volgare.

Quanto al momento storico della vita di D'Annunzio, La Nave è scritta dopo la morte di Carducci, nel 2007, cui D'Annunzio pensa di subentrare come vate ufficiale. E' anche testo emblematico per l'affermazione del diritto italiano al dominio sul mare: "Arma la prora e salpa verso il mondo".

Dal libro, una vera chicca storica. Nel 1938, pochi mesi dopo la morte del poeta, Filippo Sùrico trova il manoscritto esposto al Museo del Risorgimento a Venezia. Dietro sul muro della stanza una lapide che enumera le incusioni aeree  nemiche sulla città e sotto, a destra e a sinistra, due bombe di velivoli austriaci non esplose. Commenta: "Contenevano distruzione e morte, mentre D'Annunzio lasciò cadere nel cielo di Vienna (9 agosto 1918) solo fiori. Da Genova, dallo scoglio di Quarto, il 5 maggio 1915 con il discorso all'inaugurazione del monumento dei Mille di Eugenio Baroni (di cui diverse, intense opere sono alla GAM di Nervi) era iniziata l'avventura politica del vate.

Quanto alle sue tante donne, vale ciò che ne ha scritto l'italianista Luigi Vigliani (Grande Dizionario Enciclopedico Utet): "due restarono per lui intatte nel rispetto e incontaminate, la moglie ed Eleonora Duse".

                    Maria Luisa Bressani

 

 

Trovo oggi nella posta di Facebook il messaggio di un caro amico bobbiese che mi aveva invitata a vedere un Video su  Berlusconi come prima mi aveva invitata a vedere su Internet il  "Berlusconi e mafia". Per conto mio ho già ricevuto "Le confessioni di Berlusconi" (che non ho aperto) come a suo tempo il manifesto della saccente Concettina di Gregorio (ma vedi cha ha sostituito Augias su Rai 3e pur avndo quasi affossato nella sua direzione un giornale di lunga tradizione come l'Unità, insomma i sinistri non affondano mai, anzi li premiano con posticini ben retribuiti!) cioè il "Se non ora quando" ed essendomi giunto da mail di una funzionaria del Comune m'indignai anche a mia volta , e davvero! Va da sé che non firmai. Non parliamo poi di quando mi sollecitano a leggermi l'ultimo don Gallo ed ho sentito in Tv il refrain di un organizzatore o avvocato (non ricordo ) sui devastatori della manifestazione a Roma  di ieri sabato 19. "Questi sono ragazzi che non meritano certo di stare in carcere, che non c'entrano niente e che mentre si ritiravano i poliziotti hanno fermato sostenendo che andavano all'attacco". Bene, poco prima in una cronaca della manifestazione avevo anche sentito che la tattica dei questi No Tav ed altri era di avanzare contro le forze dell'ordine e poi di ritirarsi per poi tornare all'attacco. Proprio una tattica da guerriglia e di ben addestrati. Secondo me questi bravi ragazzi sono "mele marce" da isolare prima che facciano danni (anche qualche morto che non torna indietro, anche troppi danni che non sono risarciti e che il lavoratore si ritrova sul gobbo). Prego notare la scelta non del colore viola che certo si adatta a tanta crudele ignoranza, ma in questa pagina di un verde meno solare di quello che mi è piaciuto scegliere per altre.

Torno ad amici bobbiesi incantati dal film sul "G8 a Genova" logicamente trasmesso nella quieta cittadina al Festival del film organizzato da Marco Bellocchio e che a me sembra per gente semplice anche "tanto veleno".

A quel tempo  gli amici mi dissero: "E i magistrati, loro i magistrati di Genova hanno stabilito la verità...".

So di un'amica che ha lavorato a lungo alla Procura a Palazzo di Giustizia a Genova e che ormai pensionata, di recente per salutare un collega lo ha pregato di scendere perché lei non si sentiva di salire quelle scale dove aveva visto tante ingiustizie e non solo, alla visita del Ministro Castelli (il leghista, ve lo ricordate?), i magistrati si erano schierati sulla scalinata per fare buuu! buuu!" che "neanche i bambini dell'asilo si comporterebbero così"

Peccato che io -giornalista- queste cose non le abbia mai viste scritte sui giornali e allora (principio dell'attualità giornalistica) non le abbia sapute.

 E quest'estate avendo dovuto recarmi a prendere una nipotina da Ulzio a Bobbio ho messo dieci ore di viaggio. Ho perso la coincidenza con il Freccia Bianca Torino-Milano per un ritardo di 35 minuti del treno locale ma quando in stazione dovevo farmi risarcire parte del biglietto la funzionaria mi disse che il giorno precedente alla Stazione di Torino c'erano stati due suicidi sotto i treni: anche questo non viene fuori e non è stato scritto sui giornali.

Torno a Berlusconi e al bunga bunga perché trovandomi la scorsa primavera in una fredda mattinata in sosta in un ufficio postale in via Ilva a Carignano di Genova, l'unico aperto a quell'ora e per ripararmi dal freddo in attesa che aprissero il negozio dove dovevo recarmi, mi capitò di cogliere la conversazione di due "umili" in età. Uno diceva: "Io con mia moglie 40 annni sempre insieme senza tradimenti e lui, Belusconi..." E io avrei voluto replicargli: "Perché? Non ti senti fortunato o felice con la tua moglie di 40 anni fa? Perché t'interessi a Berlusconi?"

Insomma tutti quei programmi (vedi Santoro che non guardo, schifandomi troppo) tutti quegli articoli che senso hanno? Valga per tutti

il Gladstone perdonato a suo tempo dai compatrioti e apprezzato per "il buon governo". Valga quell'insipienza che mostrano questi "contestatori" odierni che hanno solo visioni di corto respiro e non capiscono cosa significhino le grandi opere per il progresso di un Paese, valga quella frase astiosa di una egiziana che ieri in Tv gridava contro chi uccide i "contestatori" studenti, la miglior gioventù del Paese (come la nostra del '68, ricordate?) mentre sarebbero il meglio per il futuro se impiegassero il tempo a studiare magari ricordando quanto esisteva l'Egitto dei  Faraoni, l'unico che sopravvive nell'immaginario globale e dove tanti lavoravano duramente ad opere immani, avendo da mangiare solo "simil-gallette e rafano".

Mentre ora i cosiddetti figli di papà, i nullafecenti e nulla studianti dilagano per il mondo. E mi viene in mente quella frase astiosa di una professoressa che commentava così la bella laurea di Berlusconi: "Quando si vede che la scuola talvolta prende cantonate!" Ma facciano il piacere e vadano a non spettegolare. Un mio amico, conosciuto attraverso ad una recensione che ho scritto di un suo libro, ed è anche un cattolico.doc sostiene che quando vengono a far con lui questi discorsi su Berlusconi risponde: "Ma pensa alle cornacce tue..."

Resto grata a quell'amico bobbiese, contestatore invece di Berlusconi, ma che da bravo ricercatore mi ha fornito due numeri antichi  della Trebbia di Bobbio dove figuravano due discorsi di mio padre tra il 1934 e il '37 per altro molto equilibrati e molto idealisti tant'è che se dovevo parlare in pubblico a Bobbio mio marito mi prendeva in giro: "Si alzerà il solito vecchiettino a dirti: 'Suo padre sì, lui sapeva parlare!' ".

Non ritengo però di dover sprecare tempo della mia vita per addentrarmi nel "fango" su Berlusconi e passando alle Belle Lettere ho sottolineato in rosso la frase del bravo Vigliani riguardante D'Annunzio, quello gnomo simile ad un fauno che tante donne ebbe perché ci sono anche tante aspiranti "Bovary" e che tanto fu portato in palmo di mano dalla patria letteratura riconoscendogli i suoi meriti indiscussi di grande poeta, il cui lavoro indefesso è attestato nel libro appena recensito, dove risalta il suo straordinario coraggio e la capacità di ragionare in modo non convenzionale.

Da sempre esistono personaggi al di fuori delle righe e del comune sentire e chi non può e non sa e non vuole atteggiarsi come loro stia felice e sereno della sua semplicità certo meno faticosa e magari  capisca quanto è fortunato con la moglie "vecchia di 40 anni".

Concludo ancora con una riflessione sulle giornaliste: "Mi capitò una volta all'Ordine (non so se alla sede centrale a Roma o in Abruzzo, forse al Premio Controvento) di sentire un funzionario dell'Ordine Giornalisti che spiegava pubblicamente  come avessero radiato una giornalista (e questa era certamente o abruzzese o marchigiana per quanto i mieri ricordi al riguardo sfumino) perché, essendo pagata poco, arrotondava con il mestiere più antico del mondo. Altroché la madre di Guareschi che da maestra, pagata poco, era fierissima di quel suo lavoro di maestra. E allora quella che viene spacciata come bufala "di un signore, Belusconi, che per magnanimità conoscendo il mondo dello spettacolo sovvenziona alcune ragazze per toglierle da circuiti più viziosi e frequenti in quel mondo" , ragazze che allietano con la bella presenza la sua casa quando ospita persone (pensate: anche a scegliere una segretaria spesso si sente dire: "Almeno è carina perché non vorrei mortificarmi tutto il giorno guardando qualcuna che sembra la figlia di Fantozzi o che ha la voce della Littizzetto e che per questo, -oltreché per l'antiberlusconismo aggiungo io!-,  è tanto pagata), perchè scandalizzarsi? In molti hanno ammirato D'Annunzio (stupidamente aggiungo io) per la sua "fortuna" con le donne" e uno sport nazionale degli italiani d'antan è stata la frequentazione delle Case chiuse che ancor oggi da taluni vengono così rimpiante senza parlare del turismo sessuale o del viaggio obbligatorio per certuni al Carnevale di Rio.

Volete sapere - se avete pazienza - un episodio del mio corso alla Scuola dell'Università Cattolica? Sollevai questione perché l'esame conclusivo si faceva a porte chiuse con circa una dozzina di esaminatori giornalisti e solo un allievo per volta il che secondo me si poteva prestare ad ogni pastetta. Dopo la mia protesta le porte restarono spalancate come è giusto sia per ogni esame che deve essere pubblico.

Poi al secondo round quando la Scuola si aprì per l'ammissione all'esame da giornalista professionista a Roma anche per chi avesse superato una certa età (valga appunto l'esempio di Natalia Ginzburg che lo diede e passò a 60 anni), allora mi trovai a sostenere l'esame di "Retorica" con il bravissimo e inelligente professor Silvano Petrosino.

Alla prima domanda questi mi chiese: "Se le dico questa scuola è un Casino lei cosa risponde?" Mi chiesi interiormente ed esterrefatta: "Se dico sì (ero anche andata a Milano per un esame in un giorno in cui era stato spostato e non ero stata avvertita quindi "scuola caotica " e per di più  pensavo al mio intervento di anni prima che equiparava un esame a porte chiuse ad una sorta di Casino o Casa chiusa ), il prof. mi dice: "S'accomodi fuori alla porta", se nego ..., poi come argomento? Mentre almanaccavo dentro di me, sentii i compagni ridere (vedete come sia giusto che qualcuno presenzi agli esami...) e allora capii che in fondo il prof. voleva sapere solo quale figura retorica adombrasse quella sua frase provocatoria.

Ricordo ad un'interrogazione con il prof. Piero Raimondi al Liceo D'Oria una compagna interrogata sull'Ode ai fratelli Montgolfier. Il prof. voleva sapere come fosse finita la spedizione. La compagna restò un poco in silenzio mentre tutta la classe sbiancava di paura (Raimondi era severo assai e per chiamare all'interrogazione percorreva a falcate  avanti e indietro lo spazio tra i banchi reggendo la Divina Commedia in mano e dove l'apriva lì chiamava il mal capitato sulla prima lettera che gli fosse capitato di leggere), poi la compagna  disse: "La Mongolfiera si alzò..." Risata generale e Raimondi si smontò, non aveva più alibi, non avrebbe potuto fare qualche mala azione contro noi poveri allievi che oggi lo ricordiamo con affetto ringraziando d'averlo avuto come professore perché ci rese (o almeno si sforzò di farlo) un po' meno ignoranti.

 

 

 

 

 

XXVII Cammeo: Berlusconi e il bunga bunga

Da D'Annunzio a Berlusconi: il John Kennedy di Arcore?

Poiché Lucina Bovio, così ben presentata al suo esordio con "Spreco" da Cesare Viazzi (anche scopritore di talenti) m'invitò un paio d'anni fa a partecipare alla raccolta di "Preghiere" personali al Signore, cosa che chiese a molti illustri in Genova, per un libro di cui era curatrice e che mi preanunciò sarebbe uscito con la prefazione del cardinal Bertone,  io le inviai questo testo. Lei avendomi chiesto due cartelline non lo potè inserire (e lo sapevo benissimo) ma fu per me la spinta per mettere sulla carta miei pensieri nell'aver riscontrato nella mia collaborazione al Giornale dall'esordio e poi sempre spesso un'immotivata ostilità con seguito di rimproveri e di consigli per "tornare sulla retta via", "politica" ben s'intende. Così mi permetto d'inserire ora quel mio  sfogo, per me importante e molto motivato. Questo Cammeo lo trascrivo con il titolo in rosso in quanto per me rappresenta un unicum.

XXVIII Cammeo "rosso" di rabbia e dolore. 

Difesa della dignità del mio lavoro:

"Signore, ti prego" di M.L. Bressani

Signore, non ti posso pregare contro il dolore del mondo o per la mia notte del dolore quando tornerà. Ci hai lasciato lo scandalo della Croce. Hai detto: “Chi mi segue non si volterà indietro”. Hai insegnato che il samaritano - il lontano dal giudeo, ferito dai ladroni - fu unico a soccorrerlo non il levita... E’ compassione.

Diceva una canzone: “Pittore ti prego fammi gli angioletti negri”. Il mondo non è così brutto se il nostro uomo più potente è “un po’ abbronzato” e sono nostri i netturbini, le colf, i diversamente abili. Un tempo certe parole umiliavano, ora i nomi sono cambiati, però la verità non dovrebbe umiliare, non le si può togliere l’altezza. Però oggi provo più che mai paura dell’intolleranza, dell’invidia e dei seminatori d’odio: “Signore, prima della notte del dolore più buio se tornerà, ti prego solo perché non si ripeta -sempre  e di nuovo- la “magnolia rotta” di quand’ero bambina alle elementari, alla Brignole Sale.

Tu sai già. Per Te mi hanno insegnato che siamo ciascuno un figlio unico e irripetibile, ma siamo così tanti che mi piace ricordarTi piccolezze come questa mia. Per questa – che non si rinnovi – Ti prego, Ti prego!

Quasi trent’anni fa scrissi il mio primo articolo per Il Giornale di Montanelli, pagine di Genova: ero così felice! Ricordi la trafila prima di quell’inizio. Mio zio, don Pino Zambarbieri, il terzo dopo don Orione stesso che lo aveva mosso al sacerdozio a dirigere la grande famiglia orionina, mi aveva detto: “Il dolore ti ha lasciato il dono della penna, vedi di farne buon uso e (per affetto) t’immagino sulle orme di Silone”.  Mi diede così uno scopo: pensare di scrivere per gli altri e volli perciò il diploma alla Scuola Superiore delle Comunicazioni Sociali della Cattolica di Milano per presentarmi ad un giornale non solo con tante pagine scritte e segnalate in premi letterari minori. Ma era stato Diego Fabbri ad apprezzare la mia prima commedia “Bambola di stracci”, presentata al Premio Duse di Asolo, me lo dissero dalla Segreteria!  

Alla Cattolica, al primo anno di corso ad un esame fondamentale con un sacerdote gesuita, questi mi assegnò un’esercitazione sulla Controinformazione. Scrivendola m’indignai con i volantini di “Lotta continua”, “Potere Operaio”, ecc., perciò scrissi che l’unica degna di quel nome, perché costruttiva, in Italia era quella dell’Editore Rusconi, cattolico e controcorrente rispetto a tanto odio.

In fondo mio marito, ingegnere che lavorava all’Ansaldo, era stato minacciato in un volantino delle BR rosse e dopo che gli avevano dato il giubbotto antiproiettile e lui aveva rifiutato la pistola (noi restiamo quelli del film di Gary Cooper, sudista senza fucile), ogni sera in quegli anni gli feci da staffetta (con i figli piccoli) dalla Chiesa dell’Assunta di Nervi fino a casa dove in uno stacco dopo il garage si poteva posteggiare non visti e tendere un agguato. Lo precedevo per la salita che era senza possibilità di fuga. Se vedevo che non c’era nessuno, gli facevo segno si salire.

Il Prof mi definì un’ideologa e mi affibbiò il voto più basso del libretto. L’anno successivo quando arrivai in  Cattolica, un po’ in ritardo in quanto pendolare da Genova, mi dissero che mi era già stata assegnata la nuova esercitazione per il secondo esame: sul “Sacro nei giornali” che per parte mia dovevo rintracciare in qualche annata dell’Espresso e da fare insieme con don Giorgio Zucchelli, estensore a sua volta di un’introduzione filosofica sull’argomento. Oggi lui è presidente FISC (Federazione Settimanali cattolici) e docente. Quando all’esame la riferii ai compagni, il Prof uscì dall’aula e rientrò quando smisi di parlare, ma ebbi “30” grazie a don Giorgio. E stava già per andare in pagina, un anno prima, un articolo mio sul Giornale che avevo scelto, se avessi accettato di scrivere che il volontariato dava fastidio alle sinistre, come mi chiese Zamorani. Nell’articolo raccontavo di quello ospedaliero organizzato da don Trabucco dell’Assunta di Nervi. Non volli perché il volontariato è indipendente da tessere di partito, perciò, un anno dopo e ormai diplomata, ero di nuovo al dunque e mi ero ripresentata con una notizia sull’equo canone datami da marito e moglie militanti DC. Lui carissimo compagno di liceo, lei, Stefania, che mi avvertì: “Montanelli invita a votare DC turandosi il naso e tu vuoi scrivere per quel Giornale da turarsi il naso?”

Poi l’articolo uscì un mese dopo da quando l’avevo proposto, ripescato da Merani, e in quel Giornale imparai: “Vada di persona per una notizia, deve vedere”; “perché vuol scrivere quella sciocchezza?, non si dà voce all’errore”, “una rettifica perché per il salto in stampa di una riga risulta che la Madonna di Lourdes è apparsa a San Bartolomeo del Fossato?” Come aveva riso mio marito per il mio primo scoop, la notizia che in Genova sapevo solo io! Un Merani, quella volta severissimo: “Niente rettifica, lo spazio nei giornali è prezioso!” E ancora, una telefonata dalla redazione all’ora di cena da Zamorani: “Ma lei non sa distinguere un’Ultima Cena da un San Lorenzo sulla graticola?” Dalla cattedrale si erano sbagliati a mandare la foto da me richiesta su quella tela del Tavarone in corso di restauro ma un bravo giornalista controlla...

Imparavo piccole cose, imparavo dalle grandi idee e firme del Giornale lontano: da Montanelli, Torelli il più amato dalle famiglie, il sempre equilibrato e acuto Cervi e tanti, tanti amici di idee. Una volta avevo scritto una lettera di solidarietà a Donna Letizia, la Colette poi moglie di Montanelli, quando era stata messa a casa da Mondadori e Lei mi aveva risposto con affetto dalle pagine di Gente (mi aveva portato il giornale una mia alunna, Daniela, del Liceo D’Oria, oggi dottoressa) e poi mi aveva ringraziato – sempre pubblicamente - per un mio saggio sul suo Galateo che sperava “non fosse ignorato dalla critica in quanto spaccato di una certa Italia”. Colette m’invitò poi ad una sua Personale a Roma per conoscerci ma -con dispiacere- non andai.

Due erano stati i viaggi di famiglia con Il Giornale: il primo dei miei genitori con mia figlia, la mascotte di quel percorso ai Castelli della Loira, per cui fu a me che Renzo Trionfera indirizzò una lettera per mio padre che gli era diventato amico (e nel portargliela piansi guidando da Nervi ad Albaro); l’altro, la Crociera sul Po, dove Bruno Lauzi dedicò “Ma se ghe penso” ai due sposini genovesi mano nella mano (mio marito ed io). Passeggiavamo sul ponte dello Stradivari e ci avvertirono che stava cantando per noi. Scendemmo di corsa ad ascoltare commossi la sua voce d’anima.

Dopo quasi trent’anni di giornalismo chiedo ora ad un sacerdote di Genova, stimato psicologo ed esperto di adozioni e problemi di coppia, un parere da pubblicare sulla sentenza di ricorso della Procura della Cassazione contro genitori indisponibili all’adozione di un bambino, se di pelle scura. Il sacerdote si adira: non rilascerà dichiarazioni per quel Giornale che disinforma e dovrei vergognarmi a collaborarvi, ho le fette di prosciutto sugli occhi. Replico, per addolcirlo, che abbiamo avuto un’amica in comune, l’avvocato Giovanna (Galeppini), una donna sempre disponibile verso gli altri. Mi risponde che è stata (con dolore da due anni non è più!) “donna di potere”. Gli scriverò che la mia nipotina di sei anni, nel dirmi che dentro ha due bambine una buona e una cattiva, ha aggiunto: “Nonna, prega perché diventi una Santa”, quindi “ma una Santa potente!” Donna di potere? Che male c’è ad avere le capacità e i mezzi per realizzare ciò in cui si crede? Peggio non potere. A quel sacerdote mandai anche tre articoli, usciti mentre ancora ribollivo, di uno stesso numero del Giornale: di Feltri sui falsi pacifisti della nave di soccorsi umanitari a Gaza, del coraggioso Sgarbi sul “suicidio” di Gabriele Cagliari (quanti orrori di Tangentopoli e di Mani pulite!), della Bernardini de Pace su odierne giovinotte di poca virtù guastatrici di matrimoni e patrimoni.

Ecco Signore, ti prego perché non succeda più lo scandalo dove in questo mondo con una parola buona per tutti, solo a collaborare al “mio” Giornale si è dei Paria! Si deve esser liberi delle proprie idee, si deve poter avere un’identità propria in cui aver fede. E’ rispetto del proprio lavoro!

Ricordi quella volta da bambina, quella della magnolia rotta? Venivo da Trieste, mi avevano messo in banco con la figlia di un pastore con il gregge ai Forti con cui nessuno aveva voluto stare e lei, poiché ero gentile, nell’intervallo mi seguiva dicendomi: “Sei bella come un panino di burro”. Soffrivo perché stavo spesso male e mi avevano fatto tante iniezioni ingrassanti. Avevo scritto un tema “il mio lettino”, il luogo dove stavo di più e dove inventavo favole, che aveva fatto piangere le maestre.  Però c’erano anche Lidia e Marina Gazzo, due gemelline con papà giornalista (l’Emanuele cui è dedicato il Museo della Stampa) che mi avevano portato per mano dalla loro mamma: “Questa è la bambina che viene da Trieste” e il padre ogni anno dedicava un tema alla "mia maestra" e la nostra si commuoveva. Sarà anche per quello che ho voluto diventare giornalista? E infine –siamo alla magnolia– c’era una bambina orfana di papà che passava i pomeriggi, mentre mamma lavorava, in un Istituto di Suore dove si arrampicò su quell’albero per portarmi un fiore. Me lo tese. Bellissimo. Profumato da vertigine. Una compagnetta mentre me lo tendeva vi diede una manata sopra e i petali caddero.

Ti prego, Signore, prima che torni la mia notte del dolore quando avrò il cuore duro e lacrime dentro e non verrò a cercarti pensando sia inutile, sentendomi inutile, Tu prendimi per mano!

Intanto salvami dalle tante magnolie che nella vita – “cinguettoni garruli” incoscienti del male che fanno- mi hanno distrutto. Non posso soffrire l’odio, non sopporto i cuoiai come Cleone di Aristofane (e Santoro e Di Pietro) sobillatori di popolo. Amo la gente, nulla per me è più bello che ascoltarla e poterne scrivere per il Giornale che mi accoglie.          Ciao o mio Signore,

                      Maria Luisa

 

 

 

"Sessualità e morale". Parla Padre Costantino Gilardi

che non mi rilasciò dichiarazione per il Giornale sulla sentenza di inidoneità all'adozione di due genitori del Sud

Con questo articolo di cronaca, elogiato  professoresse psicologhe presenti e da qualche esponente politica, in quanto la conferenza fu alta e difficile pensavo che Padre Gilardi mi corrispondesse con amicizia avendo io riportato senza commentare le sue idee anche controcorrente rispetto a certe posizioni della Chiesa, almeno quella di allora, e invece mi sono ritrovata il rifiuto di cui parlo nel "Signore, ti prego". Illusa Maria Luisa!  Per la mia stima per il Padre vedere anche alla pagina Cultura e sociale: All'Unione Giuristi cattolici Costantino Gilardi è interrogato da Giulio Gavotti sul problema adozioni (1992).

C'è anche la possibilità che poiché un articolo è sempre riduttivo chi ha tenuto una lunga conferenza sul tema poi creda di non esser stato abbastanza "divulgato" nel suo pensiero...

Alberto Dezzolla Quando arriva il treno

Il Giornale 21 febbraio 2010

Agli esordi della nostra Letteratura: Nella traduzione di Franca Guelfi Viaggio del Petrarca

Francesco Petrarca, Itinerario al sepolcro del Signore Nostro Gesù Cristo, Traduzione di Franca Guelfi, San Marco dei Giustiniani, Genova, 2006.

Nel 1358 Petrarca, che viveva a Milano alla corte dei Visconti, fu invitato da un loro nipote, Giovanni di Guido da Mandello, ad un pellegrinaggio in Terrasanta. Rinunciò per “timor del mare”, perché sofferente e anziano (aveva 54 anni ma arrivò ai 70). All’amico, per accompagnarlo come fosse con lui, descrive un programma di viaggio previsto in tre mesi. Gli suggerisce di partire dal porto di Genova che i Visconti avevano appena acquisito: “Una città potente, sulla fiancata di un monte roccioso, orgogliosa dei suoi uomini e delle sua mura. Signora del mare ma ostacolata da discordie civili.  Di gran bellezza di edifici, di flotta terribile e temibile, con un porto, costruito ad arte, di costo elevatissimo, di lavoro mai finito”.

Chi ricordava il Petrarca amante di Laura in “Chiare fresche e dolci acqua”, con “L’Itinerario...” capisce che è arrivato a noi, superando i secoli, in quanto enciclopedico e coltissimo. Inoltre, da intellettuale di razza, il poeta non si limita alle descrizioni dei luoghi e nei genovesi individua un carattere forgiato dalle difficoltà di monti e trasporti impervi, che - secondo Livio – seppe far preoccupare Roma come non riuscì a nessun’altra provincia.

L’itinerario si sviluppa lungo il litorale tirrenico, superato lo stretto di Messina si dirige al Peloponneso, passando tra Creta e l’Eubea si spinge verso Rodi e Cipro, dal Mar di Levante fino al Mar Rosso e a Gerusalemme, infine al deserto del Sinai, al Nilo e ad Alessandria d’Egitto. In 40 paginette (formato agenda e con il testo latino riportato in fronte alla traduzione) i luoghi sono descritti ricordando fondatori illustri, eroi, le ingiustizie che patirono e gli eventi più importanti. E’ vera “cultura del territorio”. In particolare il poeta elogia il porto romano detto di Adriano, imperatore che diede nome all’Acquedotto in Tunisia per portar acqua a Cartagine dal Djibel Zaghuan (m.1296) e all’altro capo del suo dominio al Vallo, da Newcastle a Dykesfield (da costa a costa e al confine con la Scozia), dopo il 2000 reso di nuovo percorribile. 

In Petrarca, oltre alla coscienza di ciò che si deve saper trovare, c’è un valore ancor più alto individuato dal prefatore Francesco Surdich: il viaggio è “itinerarium mentis verso la perfezione umana alla ricerca dell’ubi consistam fisico e spirituale”. E da subito emerge la fede quando il poeta consiglia all’amico di non partire da Genova senza aver visto la preziosa reliquia che è la coppa di smeraldo in cui Cristo si cibò.

La fede è un filo, sempre sotteso e assai robusto, che ritorna alla conclusione del viaggio con meta Alessandria;  poco prima  di raggiungerla l’incontro con il Nilo di cui scrive che la sorgente era allora ignota, però osserva che lì è una fonte fatta sgorgare da Cristo nel luogo dove durante la fuga in Egitto fu sottratto alla furia di Erode: “I Cristiani vi bevono con piacere, ai saraceni sembra assenzio perché anche l’acqua ha vario sapore a seconda dell’intensità di fede di chi beve”.

Un Petrarca profondamente etico risalta in altre riflessioni. Ritiene che Luni sia stata “distrutta dalla dissipazione” e lo stesso accadde a Troia, l’esempio più noto di città andata in rovina. Quando riflette che forse l’amico, via da casa per troppo tempo, può esser afflitto da nostalgia, pensa che forse a trattenerlo lontano è un altro impulso: “nessun pungiglione è più penetrante della virtù. Spinge l’animo nobile e non sopporta che si arresti, né che guardi indietro, costringe a dimenticare non solo i piaceri, anche onesti impegni e affetti. E’ il pungiglione che rese Ulisse immemore di Laerte, di Penelope e di Telemaco, e che ora temo tenga te lontano da noi più a lungo di quanto vorremmo”.

Uno splendido dono questa pubblicazione nei trent’anni delle Edizioni San Marco dei Giustiniani, fondate da Giorgio e Lilli Devoto. Per raccontare la loro passione in campo editoriale lo scorso autunno alla Cattolica di Milano è stata allestita una Mostra. All’inaugurazione ha partecipato da Genova, come relatore, Stefano Verdino.

                                  Maria Luisa Bressani

Con il bel logo della Casa Editrice San Marco dei Giustiniani il cui direttore Devoto sostiene di amare del libro o della carta stampata fin l'odore, il profumo ineguagliabile:

anche ciò, questo piacere dei sensi, è stato il libro dei tempi antichi e quello on-line per tali caratteristiche non può sostituirlo.

Non solo dato che Franca Guelfi è stata (e non so se questa carica resti definitiva) una dei "probiviri" di Italia Nostra (cosa che la faceva sorridere per la definizione solo al maschile) ricordo che questa Associazione che ha cercato di custodire e vlaorizzare tante bellezze italiane permettendo loro continuità dal passato al futuro ha già compiuto 50 anni di attività e purtroppo non ritrovo l'articolo che scrissi per quella ricorrenza per il Settimanale cattolico il 13 novembre 2005.

Giovanna Capucci Chiavi in mano 

Prima di inserire Spreco di Lucina Bovio, una giovane donna molto intelligente e ben educata. ne metto uno di Capucci, che lavorando da estetista ha raccolto le confidenze di tante donne che si ritrovano sul lettino della pulizia dle viso come su quello dello psicanalista e si lasciano andare ai loro segreti pensieri: perché è indubitabile che la crescita di giovani donne è stata rallentata nella nostra società, in passato maschilista e anche spesso cafona, da un clima in cui il macho, l'uomo che non doveva chiedere (alimentato da stupide mamma orgogliose del  figlio maschio) era un must ma anche una coltrina ottundente a  migliori sentimenti ri rispetto e condivisione. Per altro possiamo forse essere orgogliosi nel senso che avendo avuto anni fa una giovane e bella badante per mia madre quest ai raccontava come nel suo Perù l'uomo fosse molto meno rispettoso della donna in confronto a quello italiano e sosteneva di esser spaventata anche da avances di tunisini e nord africani improntati alla stessa mentalità di maschio padrone. 

Quindi metto questo testo che inizia con la mortificazione di una donna che si sente chiamare "culona": in proposito però quel delizioso film con Jack Lemmon "Cosa c'è successo tra mio padre e tua madre?"  (film del 1972) che con umorismo mostra come possa esser ben apprezzata anche una donna di bacino latino non certo smilzo o da indossatrice.

E comunque mi è capitato sul grteto del Trebbia l'estate scorsa, 2013, di assistere and una scena consueta: una ragazza  grassottella che non voleva fare il bagno ed era con un gruppo di amici ad un certo punto è stata da loro presa a schizzi, le hanno tirato in acqua le infradito che aveva posate a terra al suo fianco, l'hanno presa per le braccia e per le gambe e l'hanno gettata in fiume. Uno scherzo pesante? Lei ha dovuto strizzarsi   la tunica copri costume che aveva ed ha creduto meglio di non dover brontolare. Gli scempiotti del Trebbia si scompisciavano dalle risate, però anche questo è mancanza di rispeto: la ragazza - è chiaro - non voleva bagnarsi e allora perché l'hanno inzuppata? E lei perché non ha protestato? Ho sentito una donna dire una volta: se mio marito mi desse uno schiaffo, la seconda volta non ci proverà più" e questo perché la donna deve imparare a reagire. Sempre in Trebbia ho visto una nonna intervenire presso la nipotina di quattro anni che era stata presa per il collo da un compagnetto pari età: "Tu non ti devi mai più lasciarti fare questo, tu devi reagire". La nonna era molto alterata, forse c'era nella sua esperienza personale un brutto ricordo.

Giulia Margherita Sparano

La mia felicità è un abito che a nessuno piace

Diana fa la parruchiera insieme a Gloria e lo fa perché le piace prendersi cura delle persone. Quanto a vita sentimentale da sei anni ha un ragazzo, Andrea, ben piazzato nel lavoro, con cui un paio di volte si sono messi a cercar casa per sposarsi, ma con cui ora si sente in fase di stallo e vuoto, sentimentale e sessuale.L'uscita di sicurezza per Diana è gettare tutto all'aria. Lo lascia (la solita pausa di riflessione) e per non esser condizionata va presso una zia con fattoria in campagna. Il lavoro manuale, che si consiglia in molte fasi di disintossicazione da un qualcosa distruttivo, è ormai quasi sconosciuto ai ragazzi d'oggi e così pure il contatto con la natura per i tanti che vivono in grandi città. Non si dovrebbe però mitizzare quel mondo rurale delle nostre origini e consiglio di leggere la recensione, anzi proprio il libro Guardare e non toccare: l'amore nelle società rurali di Paolo Giardelli, cui essa rimanda, libro "scientifico e a livello universitario". E' all'inizio di questa pagina 13 del Sito (http://mlbressani.wix.com/marialuisabressani)e presenta un'Italia da non rimpiangere.Non anticipo altro sulla trama. Leggere dovrebbe sempre avere il sapore della sorpresa. Solo una notazione: l'amore per Diana arriva da un incontro in campagna e dalla comprensione del proprio animo da cui si sente avvolta. C'è in questo nuovo amore una nuova coscienza determinata dall'acquisizione di nuovi diritti civili, qualcosa che la generazione di padri e madri capisce meno, mentre i figli l'hanno respirata come aria del loro tempo. Un'unica considerazione al riguardo: questo nuovo "campo" d'amore ha gli stessi difetti di quello più tradizionale. Per spiegare, mi rifaccio al "Cucù" di Marcello Veneziani sul Giornale del 10 aprile 2014 con titolo "Il divorzio non è il Paradiso". Ricordando il referendum del '74, constata: "Sarà migliorata la condizione della donna, ma per varie cause la famiglia oggi sta peggio, figli in particolare, e i singoli individui hanno solo mutato tipo di disagi". A concludere: riguardo alla nuova battaglia per i matrimoni gay, esistono già statistiche su tali unioni con ancor maggior fragilità e con maggiori successive divisioni o divorzi delle coppie tradizionali.Di questo libro cattura la generosa apertura d'animo di Giulia alla possibilità di "felicità" per alcuni che se ne sono sentiti esclusi per mentalità d'antan e legge.Nello stile scorrevole catturano alcune frasi incisive, da ricordare come esemplari e ne cito un paio. La prima riguardo il rapporto Diana e Andrea disperso in mille litigi per "le solite cavolate" e in cui lei non si sente "di fare l'uomo della coppia". E qui si apre il discorso su tanti giovani d'oggi non tanto perché definiti da qualche politico "bamboccioni", ma per l'abdicazione dell'uomo ad autorità ed autorevolezza in famiglia. Diana, consapevole per educazione che la donna deve "sopportare e supportare", sente profondo il bisogno di qualcosa di più. Anche in amore sembra imporsi la distinzione tra bisogni primari che appena risolti ne fanno cercare e privilegiare di secondari.Il metodo per far luce su di sé, capire le proprie necessità ma anche farle capire agli altri, a lei viene dalla saggezza antica della nonna: "Se vuoi servire la verità su un piatto per offrirla agli altri, fa' in modo che sia ben guarnito e possibilmente d'argento così la gente si soffermerà sui dettagli senza badare troppo ai contenuti".

                                                                         Maria Luisa Bressani

Un titolo indovinato predispone - per curiosità o altro - ad acquistare un libro: è il caso de La mia felicità è un vestito che a nessuno piace (edito Youcanprint). Giulia Margherita Sparano, l'autrice, 26 anni e al suo primo romanzo, è laureata in scienze linguistiche e letterature straniere.Quale il significato del titolo? Qualcosa emerge fin dalle prime pagine: i ragazzi d'oggi potrebbero essere felici se il contesto in cui vivono lo permettesse, ma la prima sensazione è il loro disagio per incertezza del vivere, dei traguardi difficili, delle relazioni personali.Diana, la protagonista, nel presentarsi interagisce con un gruppo di amiche: alcune al primo amore concluso male per cui Paola da quando si è lasciata con Claudio civetta con tutti quasi a buttarsi via, quindi Benedetta che per Diana è come una sorella capace di ascolto e saggezza, poi Silvia che potrebbe "filare" con un avvocato ma di lui dice: "non è il mio genere d'uomo uno che per professione deve difendere a tutti i costi il proprio cliente a discapito della moralità". E poi Marina l'unica del gruppo che potesse far medicina, con una memoria di ferro e decima su 2000 candidati al test d'ingresso per tale Facoltà.

Cosa ho fatto nella vita da "Nel Tempo"

Nata  Trieste nel giugno 1942.

Maturità al Liceo classico D'Oria di Genova.

Sposa a 21 anni durante il terzo anno d'Università in Lettere classiche.

Laurea a giugno del quarto (1965),  110 e lode, medaglia d'argento. Anche proposta da parte del relatore, l'insigne grecista veneziano Enrico Turolla di richiedere per me il diritto di pubblicazione della mia tesi "Aristeia omerica e virgiliana", se mi fossi fermata all'Università. Voleva migliorassi il capitolo riguardante la Camilla virgiliana. (Guerriera che - secondo lui - mi somigliava pur non avendola capita). Declinai ritenendo l'Università del tempo vecchia e polverosa mentre ero assetata d'umanità della gente per dar voce ai loro problemi, cosa fatta con il giornalismo.

Tre abilitazioni, conseguite in italiano, latino, greco (e alla prova scritta vidi insegnanti, immanicate con qualche sindacato, cui era permesso di consultare sfilze di libri che si erano portate appresso mentre copiare era cosa vietata).

Un anno d'insegnamento  (1972/73) (sui due che occorrevano per entrare di ruolo in seguito ad una legge che premiava chi aveva dato l'esame di abilitazione prima dell'introduzione dei corsi abilitanti). Per quell'anno al liceo D'Oria di Genova ebbi la qualifica di "ottimo" che il preside Italo Malco aveva dato solo a due professori prima di me. Quando in provveditorato mi recai per rinunciare al secondo anno, chi mi ricevette disse: "Bressani è un nome che nel campo degli studi si ricorda e perché mai lei si ritira quando con un ponticello per malattia sua o di qualche figlio può prendersi lunghe pause. Lei sa cosa significa rinunciare a mettersi a carico dello Stato?"

Però rinunciai e mi sono tanto dilungata non per dire "io, io, io" come certo qualcuno potrà pensare (il succo di nera seppia...: è così facile sputar veleno!"), ma per stigmatizzare certi comportamenti italiani per cui i furbetti portano via il posto a chi ha studiato e faticato molto più di loro. E c'è stato anche chi ha pesato sulla mia rinuncia ad insegnare: ad esempio l'insegnante che, contandosi un punteggio falso e maggiorato, mi prese il posto. Come disse il vice-preside del D'Oria, Arnolfo Galli, avvertendomi di ciò, "se io non protestavo, presentando ricorso, la scuola non poteva farlo e sembrava che nessuno avesse interesse a quel posto". Ecco l'Italia dei furbi, anche se poi questi furbi possono essere dei disperati con alcune valide ragioni di spiegazione  al loro comportamento.

E ricordo tutto questo perché l'insegnamento è stato per me un grande amore rinunciato e un'allieva di allora  qualche anno fa mi chiese d'ìnsegnare a suo figlio, liceale che non riceveva lo stimolo allo studio loro trasmesso da me quando fin i bidelli dicevano di non aver mai visto tanti allievi affollare la biblioteca scolastica come dopo le mie lezioni per cercare e consultare libri.

Tre figli: Ida, laureata in economia, Cesare ed Edgardo, laureati in ingegneria elettrica, che mi hanno dato sei nipoti, ora tra i 12 e i 7 anni: Maria, Annalisa, Stefano, Michele, Massimo, Lidia.

Altri studi:

Diploma con il massimo dei voti alla Scuola Superiore  delle Comunicazioni Sociali dell'Università Cattolica di Milano (conseguito sempre alla prima sessione utile nel 1983): tesi sul "Cittadino in cent'anni di storia"  relatore lo storico e giornalista Gianfranco Bianchi fondatore com Mario Apollonio di quella scuola.

Diploma, sempre con il massimo dei voti, alla Scuola di specializzazione in giornalismo (1994, sempre Università Cattolica, e avevo già 50 anni, due figli ancora in cammino per la laurea e la mamma da assistere dopo la morte del papà e malata di Parkinson da più di venti anni). Tesi sul "Settimanale cattolico" diocesano di Genova per i "Vent'anni", relatore l'avvocato Gianfranco Garancini, allora preside della scuola.

 

Giornalismo: trent'anni dal primo articolo sul "Giornale", gennaio 1983, all'ultimo, giugno 2013 sulla Carta dei diritti della bambina. Pubblicista dall'85 nominata d'ufficio dall'Ordine poiché avevo maturato i requisiti ma il caporedattore mi faceva aspettare la firma di Montanelli che come spiegò Andrea Valdemi (referente nell'Ordine di Liguria) in tanti anni avevano visto solo due volte  per un pubblicista. Quindi era solo un temporaggiare del caporedattore e per me un perder tempo.

In realtà il mio primo articolo fu pubblicato nel 1978 su La Trebbia, direttore il giovane don Guido Migliavacca, a fianco delle parole del Vescovo, e scritto per un giovane carabiniere del Sud, Michele Casadibari, annegato nel fiume. Articolo mandato anonimo tramite un figlio, allora bambino. E da lì, (grazie don Guido!, che quest'anno dopo essere stato il più vecchio direttore di settimanali cattolici, te ne sei andato nella pace del Signore), mi è nata l'idea di scrivere per gli altri. 

Ho lavorato per Il Giornale (pagine di Genova), Corriere Mercantile (di Genova), Il Giorno (Milano, pagine Cultura e in sinergia con La Nazione e il Resto del Carlino dove pure venivano pubblicati gli articoli), il Settimanale cattolico diocesano di Genova (per 21 anni fino al 2008).

Ho conseguito il premio UCSI Liguria per il Giubileo 2000 (articolo su S. Colombano comparso sul  Il Giorno e gratifica di un milione di lire che come il signor Bonaventura mi rese "ricca ormai da far paura").Sono anche stata premiata dall'Ucsi alla carriera e a Bobbio grazie a Giorgio Bubba allora presidente.

Articoli miei accolti anche da Repubblica, Libertà di Piacenza e dai settimanali diocesani Il Letimbro e La Trebbia, nonché su riviste dell'Università Cattolica da CSN (Comunicazioni Sociali News) a qualche altra.

Scritti. Tra il '77 e l'82 prima d'iscrivermi all'Università Cattolica - per cinque anni - ho scritto ogni anno un testo di narrativa, uno teatrale che ne sviluppava i dialoghi, uno di saggistica.  Tutti segnalati in premi vari da Nord al Sud d'Italia, da Udine ad Agropoli. Segnalo solo i primi Premi ma anche l'elenco dei testi perché ci tengo molto e ne ho inserito brani nel presente libro.

Narrativa: "Begonza" (la "donna due volte gonza" con etimologia da me inventata) II classificata al Premio "Edicola" organizzato da Lalli Editore, poi II Premio "Natale agropolese"); "Leggende Arrabbiate", Premio Bontempelli; "4 Ciarle"; "All'incrocio", "Flash di Luce di sabbia di pensieri";

Teatro: "Bambola di stracci" (che piacque a Diego Fabbri nella giuria del Duse di Asolo), "Ifigenia ed Achille" (testo con note di versione televisiva, 1977, premiato nella forma dei tre atti al Candoni Teatro Orazero (Udine) e I Premio a Villa Alessandra (Controvento, Abruzzo), "Sky-scrapers" (="Grattacieli"), "Cronicario", "Apolide".

Il radiodramma "Rogna" al Candoni ebbe il II Premio per i principi cristiani.

Saggistica: III Premio Sìlarus per "Il commiato di Berto: grandezza e meschinità dell'io sono"; II classificata per "Lei ed io: a Natalia Ginzburg",  il saggio su Elsa Morante: "La felicità" è stato pubblicato nel n. 100 speciale di Sìlarus. Saggio su Candoni.

Ho conseguito il I Premio per la narrativa, Trofeo Sìlarus, con il racconto "Le fragili ali della Libertà".

Per il concorso a Firenze "Scrittori per la scuola" sono stata segnalata (nella Giuria Maria Luisa Spaziani) con i racconti "Una famiglia sexy ovvero del sexy per ironia" e  "Suicidio" che poi ho fatto confluire in "Flash di luce di sabbia e di pensieri".

Ho scritto diversi saggi per Archivum Bobiense,

 fondata da mons. Michele Tosi (che mi propose per  il  I Premio - così anni dopo mi fu detto da un membro della Giuria- al Premio Città di Bobbio, 1978, per il racconto "Bobbio per me". E mio zio, don Pino Zambarbieri, terzo successore di San Orione, al riguardo mi scrisse: "Altri avranno scritto cose più dotte ma nessuno ci ha messo tanto cuore e tanta umanità come te. La tua è la Bobbio degli umili ed onesti della mia giovinezza. Brava!").

Poi sotto la direzione di Flavio Nuvolone, docente di Patristica a Friburgo, ho collaborato alla preziosa rivista, già citata, con diversi saggi da "Un futuro per I mulini di Valtrebbia" (con la partecipazione di Gisa Bagnara Matrel)  a "Forni e pane", a "Quale futuro per il CDF Valtrebbia (Centro di Documentazione Fotografico)" e con saggi su artisti: Italo Londei, Alberto Nobile, Romano Bertuzzi, Luisa Mambriani, Tiziano Carboni e altri in Val Trebbia e vorrei scrivere di Giuseppe Scabini (pittore ignoto ma di gran talento).

Tre i libri pubblicati: Begonza (edito Lalli 1977); Scrivere o ricamare - scrittrici del Novecento italiano (edito Lo Faro 1991); Lettere d'amore e di guerra 1937-'45 (edito Lint Editoriale di Trieste nel 2003 e II edizione nel 2006).  Libro tratto dalle mille lettere dei miei genitori in tempo di guerra, da me donate all'Archivio di Pieve Santo Stefano (AR) dove il libro è stato tra i dieci finalisti nel 2002. La selezione storica su Archivum Bobiense (n.23 del 2001) con foto e documenti d'epoca.

Il libro si trova alla Berio  e all'Universitaria di Genova, nelle Biblioteche della Provincia perché acquisito in 40 copie dalla Provincia, (proponente Giorgio Passerini e assessore alla cultura Maria Cristina Castellani), alla Hortis di Trieste, al Centro Polivalente  di Bobbio.

 

      
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