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Suor Lucia De Gasperi di Francesco Giovannini (Edizioni San Paolo) è un libro uscito quasi in sordina in questo 2012, ma che dovrebbe essere divulgato. E’ profondamente permeato di spiritualità, con coordinate nella storia italiana del dopoguerra fino all’agosto 1954, morte dello statista Alcide, e nel dialogo con la sua secondogenita Lucia, divenuta suora e sua “essenziale collaboratrice”.

Il libro approfondisce tre fulcri d’interesse: la famiglia d’origine di Lucia, i contatti genovesi così importanti nella sua formazione (a Genova fu Madre Superiora), il carattere di Lucia, religiosa ed insegnante sempre tesa alla verità.

La famiglia ci viene ricordata così da Maria Romana, la sorella maggiore. “Andavamo a passeggio e i miei genitori dicevano “che bel cappotto! Lo compreremo”, “che bel divano! Lo compreremo”. Non comperavano mai niente”. Quando poi il padre divenne presidente del Consiglio e arrivavano i regali, rimandava quelli belli e costosi con un bigliettino “Grazie, ma non posso accettare”, teneva quelli di poco conto, su una mensola, soprannominata dalle figlie “vetrina degli orrori”.

Lucia, mentre stava per laurearsi a Lettere antiche con tesi su Esiodo (il primo rivoluzionario della morale antica), scrisse al padre: “Grazie d’averci raccontato sempre anche quando ritornavi a casa stanco, d’averci spezzato il pane della tua cultura così universale, così poco pedante”.

“C’è aria di Genova intorno a Lucia studentessa e novizia: una promessa di futuro” è un commento dal libro che riguarda il secondo fulcro. Dopo un primo padre spirituale, il trevisano don Luigi Moresco, Lucia incontra i genovesi don Franco Costa, assistente ecclesiastico in FUCI e il suo vice, don Emilio Guano, la genovese Bianca Penco, dirigente fucina; sua maestra di noviziato è suor Cecilia (che aveva avuto il precedente incarico nel collegio di Genova) e, dopo il periodo di postulazione, incontra nella comunità cui è destinata Madre Rosa Dominica Bozano di Genova.

Nella nostra città le Suore dell’Assunzione erano giunte nel 1892 e per volere di Siri si trasferirono (da San Bartolomeo degli Armeni e corso Firenze) presso La Sacra Famiglia di via Bobbio:  rimasero 42 anni in quella parrocchia dove visse anche Lucia. L’attuale parroco, don Fernando Primerano, ha trasformato la giornata per il saluto delle suore in un giorno di lode; l’anniversario della morte di Suor Lucia è ricordato dalle ex alunne, ora  mamme e nonne, e una di loro, la scrittrice Maria Antonietta Novara Biagini, ne dà sul sito www.riscossacristiana.it un ritratto di grande affetto.

Il cuore del libro resta il dialogo con il padre Alcide, di cui si ripercorre l’ascesa politica. Era trentino, perciò prima della grande guerra cittadino austriaco e deputato alla Camera di Vienna, ma dopo può dimostrare la sua italianità. Nel ‘24 subentra nella segreteria del Partito Popolare di don Sturzo; direttore del giornale cattolico Il Nuovo Trentino è arrestato (marzo 1927/ ottobre 1928), torna a casa (Lucia ha poco più di tre anni) ma per ordine di Mussolini deve soggiornare a Roma e s’impiega alla Vaticana. Nel ’44, ministro del 3° governo Bonomi, nel ’45 capo del governo. Nel ‘47  Lucia esce di casa per il cammino di fede.

Una delle grandi esperienze e con grandi iniziative delle Suore dell’Assunzione fu quando Papa Pacelli che era stato loro cappellano proclamò per il giubileo del ’50  il dogma dell'Assunzione della Vergine in cielo: "il cielo aperto anche per noi " come definiva questa ricorrenza monsignor Solera, rettore della Guardia . Lucia è a Roma ed ha iniziato a scrivere nel ’49 i “foglietti per papà” che gli invia fino al ’54. Raimondo Manzini e Aldo Pacini, che hanno scritto libri su questi “Appunti” li ritengo “una forma d’assistenza personale” al padre tanto che Alcide concluse il discorso del ’51 al Congresso giovanile democristiano di Ostia (e soffiavano venti di guerra) con sue parole: “Sperare è porre la propria mano in quella di Dio”.

Nel ’54, annno della morte, ad agosto, di De Gasperi, arriva il momento del dolore per due lettere, poi rivelatesi false, che Guareschi pubblica su Candido. Nel libro se ne accenna appena, ma erano montate su carta della Segreteria del Vaticano e Alcide nel ’44 della sua clandestinità sollecitava gli alleati ad un bombardamento su Roma che attizzasse gli animi contro gli occupanti. Il ’54 era un momento di veleni: pareva che De Gasperi volesse aprire ai socialisti di Nenni, mentre Pio XII temeva che la tolleranza verso i comunisti compromettesse democrazia e libertà della Chiesa. Paventava tanto questo rischio che nel ’52 quando Lucia prese i voti definitivi e Alcide con la moglie celebrava trent’anni di matrimonio rifiutò di riceverlo.  De Gasperi infatti aveva riposto di no al progetto di ambienti curiali per un’alleanza anticomunista con inclusi i Comitati Civici di Luigi Gedda (presidente Azione Cattolica), monarchici e missini. Guareschi, poi condannato per diffamazione, scontò 14 mesi di carcere. Per questa brutta storia si rimanda a Pio XII e Alcide De Gasperi. Una storia segreta di Andrea Riccardi.

              Maria Luisa Bressani

 

 

Le recensioni di questa pagina indicano la divaricazione di mentalità tra sinistra e destra politiche dal dopoguerra ad ora. E' un conflitto di idee e di principi come risulta chiaro dai tanti libri di ricerca da me recensiti e che qui propongo. Lascio al lettore di trarre le conclusioni, pur continuando a sottolineare in rosso certi concetti legati a queste diverse mentalità che mi sono diventati evidenti dai testi letti.

Inizio con due politici che tanti odierni farebbero  bene a prendere ad esempio per onestà e bene comune da servire secondo coscienza.

Suor Lucia De Gasperi di Francesco Giovannini

Il Giornale  2 marzo 2012

 

Sandro Pertini. Dalla Nascita alla Resistenza 1896-1945

di Andrea Gandolfo Il Giornale

In questi due grandi della nostra Politica risaltano divergenze di carattere: in Pertini si riscontra una durezza di carattere maggiore (salvo che nelle Lettere a Marion, la sorella) mentre da Presidente della Repubblica apparirà raddolcito come un nonno d'Italia. Però già nella prossima recensione di Giampaolo Pansa lo scenario a sinistra diventa inquietante.

Inserisco ora il libro che Rino di Stefano ha costruito sulle lettere dal carcere di Pertini alla sorella Marion e dove risaltano invece caratteri di dolcezza umana che riscontrammo poi in Pertini presidente forse il più amato dagli italiani, soprattutto schietto incapace di doppiezze togliattiane (giudizio di Cossiga su Napolitano)

I vinti non dimenticano di Giampaolo Pansa

Con I vinti non dimenticano (2010, Rizzoli, giunto alla sesta edizione) Giampa Pansa ci dà il seguito del Sangue dei vinti, fortunato libro del 2003 che gli diede fama di revisionista della storia oltre che di affermato giornalista. Giampa (Giampaolo), così chiamato in famiglia, è diventato un po’ di famiglia anche per noi: per la verità storica riportata in luce, per la pietas che gli fa scrivere: “Tutti, bianchi e rossi e neri, soffriamo allo stesso modo e spesso senza averlo meritato. Anche l’essere umano più lontano da me appartiene alla mia vita. I suoi morti sono anche i miei morti”. Tante le testimonianze che lo hanno raggiunto dopo l’onor dell’armi che nel 2003 rese agli ammazzati fascisti, i “cattivi”, i “buoni” erano solo della Resistenza.

Molte di esse riguardano la Liguria, pur se il libro include Toscana, Torino, Istria, terrorismo internazionale tra Spagna, Russia (dirigenti comunisti come Togliatti o Longo ivi addestrati), Jugoslavia di Tito (per cui opterà Ukmar-Miro, nato a Prosecco di Trieste che alla liberazione di Genova era capopartigiano numero uno della Sesta zona ligure). Le testimonianze rese a Giampa hanno ampliato la sua antica tesi di laurea in cui sulla Sesta, la zona partigiana più importante che gravitava su Genova, aveva scritto che i partigiani rossi erano 84 su 89. Non solo, scalza la grande bugia di una Resistenza, ancor oggi ricordata  come epopea (e in un clima di simpatia da “vino e tarallucci”) con alcune riflessioni: “Nell’autunno-inverno 1943 il connotato primario della lotta partigiana, il suo Dna, fu il terrorismo, la stessa tecnica delle Brigate rosse negli anni 70/80: seminar panico sparando contro i singoli quasi sempre indifesi”.  Ancora: “Scopo della dirigenza comunista delle Brigate Garibaldi  era conquistare il potere con le armi e fare del nostro paese uno Stato satellite dell’Unione sovietica”. “Come celebrare il 25 aprile?” è titolo significativo di premessa al libro. Giampa scrive: “La cultura dominante continua ad essere quella dei vincitori rossi. Gli sconfitti non devono parlare...”

Questo libro è perciò una lettura comparata con i testi della Resistenza dai primi mesi del ’44 quando al Nord il Pci costituì bande partigiane, profittando della renitenza massiccia delle reclute. La rete delle Brigate comuniste emerge in una costruzione non priva di errori come dimostra il disastro della Benedicta che nell’aprile ’44 segnò la fine della 3a Brigata Garibaldi. Il racconto viene dalla testimonianza a Pansa di una spia fascista, inviata tra i partigiani di quel reparto in vista del grande rastrellamento. Inizia così: “Sono nato nel 1921 da famiglia di origine calabrese; nel ’40 quando l’Italia entrò in guerra ero matricola a Giurisprudenza e non aspettai di essere chiamato alle armi, mi arruolai volontario”. Sul fatto dei tanti che andarono volontari si è sempre sorvolato, quasi una stravaganza o in qualche modo un obbligo, ma allora un’intera classe del Liceo Classico Parini di Milano, tutta compatta, con Caccia Dominioni, con il fratello di Gadda,  andarono volontari. Continua il testimone: “Dopo l’8 settembre invece di sbandarmi raggiunsi Genova ed entrai nella Guardia nazionale repubblicana, il Gnr, e fui mandato come spia sul monte Tobbio, al confine tra Genova e la provincia di Alessandria. Nella 3a Garibaldi Liguria erano inquadrati 573 ragazzi, nel gruppo della Brigata autonoma militare Alessandria 193, in tutto 766 ribelli, molti disarmati perché le armi erano poche. Era un centro di renitenti alla leva. I comunisti di Genova volevano una grossa Brigata delle Garibaldi alle spalle della città per dimostrare che erano gli unici in grado di dar vita alla lotta partigiana. L’imprudenza dei dirigenti fu micidiale. La responsabilità per me fu tutta del Pci di Genova che creò sul Tobbio le condizioni di un massacro. Quando seppi dei tanti ragazzi fucilati o deportati non mi rallegrai. Pensai: se perdiamo questa guerra ce la faranno pagare e il conto sarà molto salato. E’ andata esattamente così”.

Nel libro viene descritto Bogli (di Ottone, oggi in provincia di Piacenza) dove c’era un campo di prigionieri fascisti e “si fucilava quasi tutti i giorni”. Dove c’era l’aguzzino Walter. La testimonianza è del dottor Gianluigi Ragazzoni, catturato a portato a Gorreto dove era il comando della 3 Divisione Garibaldi Cichero, guidata da Aldo Gastaldi (Bisagno). Ricorda le torture di Walter e che nel grande rastrellamento invernale del 20 dicembre ’44, contro le formazioni della 6a Zona Ligure, questi scappò con 40mila lire che il comando della Cichero gli aveva consegnato per le spese del campo. I dirigenti partigiani, entrati in contrasto con i comunisti, Gastaldi-Bisagno e Marco Anselmi (comandante il battaglione Garibaldi Casalini), morirono in incidenti misteriosi. Nel Sangue fino alle ginocchia di Fabrizio Bernini narra l’omicidio di Anselmi.

Le storie raccontate sono un grande Muro del Pianto davanti cui riflettere per non dimenticare. Giampa ricorda le rapine in zona di La Spezia, a spese dei contadini perché i “resistenti” dovevano esser nutriti. Risalta anche la crudeltà contro le donne fasciste, specie le ausiliarie, stuprate, quasi sempre uccise e con le case poi saccheggiate. Secondo Luciano Garibaldi (il libro è costruito anche su citazioni da altri libri scelti con cura) furono 88 le ausiliarie Rsi uccise a Genova. Adriana Origone, fu stuprata e torturata, non uccisa. Quando il 23 aprile ’45 ci fu un esodo “biblico”  da Genova, 1500 uomini in gran parte della Brigata nera Parodi, Adriana  che non aveva mai partecipato ad azioni militari non pensò di dover fuggire. Fu stuprata da tre partigiani. Poi le percossero i seni con una canna fasciata con cuoio. Quando nel ‘51 si sposò da mamma non potè allattare causa quelle torture (particolare narrato dalla figlia Alessandra in Mio padre un Repubblichino).

La spiegazione del perché non fu uccisa - come cita Giampa - viene dai genovesi Sergio Pessot e Piero Vassallo con “A destra della città proibita. Quelli che non si arresero”. Le Fiamme Bianche, nucleo di giovanissimi fascisti genovesi, avevano minacciato: “Risponderemo ad ogni vostra azione”. La loro “epopea”, pur se disperata, incuteva timore e rispetto.                         

              Maria Luisa Bressani

 

CAMPO A - Fossa 14/12 di Roberto Nicolick

CAMPO A – Fossa 14/12 di Roberto Nicolick, edito da L. Editrice di Savona con il patrocinio della Provincia e che riguarda la strage nel maggio 1945 dei Biamonti e di Elena Nervo, loro domestica, si legge come un giallo a colpi di scena. I Biamonti, il padre Domingo capitano della CRI, la madre la nobildonna Nenna Naselli Feo e la figlia Angiola Maria di 23 anni, erano una famiglia benestante, non fascista: prelevati la notte del 14 maggio dalla loro villetta a Legino, quartiere periferico di Savona, furono portati al campo di Segno sopra Vado destinato ai sospetti di collaborazionismo con i Nazifascisti. Mandante del sequestro, responsabile con altri tre complici del loro omicidio con arma da fuoco davanti al Cimitero di Zinola, dove furono gettati in un’unica fossa, si appurò esser stato Luigi Rossi, proprietario di un terreno confinante con la loro proprietà. Un caporione partigiano da cui dipendeva il Campo di prigionia di Legino, sito nella locale scuola elementare, in cui si registrò il più alto numero di “fughe” di prigionieri stroncati a raffiche di mitra contro il torace e non contro le gambe, perciò con volontà di uccidere.

Per cercare i Biamonti si mossero i familiari e Luigi Rolandi, il fidanzato della figlia. Un amore quello con Angiola Maria nato sui banchi di scuola, a 13 anni. Luigi, alpino in guerra viene aggregato all’ARMIR nella Divisione Julia, è uno dei tre, su 53 tenenti del gruppo, che tornano dalla Russia. Prima era stato impiegato a Tolmino in operazioni di polizia di contrasto ai partigiani titini, quasi un’ironia della sorte perché nel Processo di Savona del 1952/54, istituito per far luce sulla scomparsa di Biamonti e uno dei primi contro ex partigiani il delitto del Rossi viene fatto passare come “non premeditato”. Grazie ad una sentenza della Cassazione del 1951, soprattutto grazie a regole di condono previste in “Amnistia e Indulto per reati comuni politici e militari” (1946, Gazzetta Ufficiale), a firma di Palmiro Togliatti, Ministro di Grazia e Giustizia. Il Togliatti, così caro al PCI e suoi eredi, che esortava gli italiani d’Istria ad obbedire al presidente Tito, accogliendo fraternamente la nuova Jugoslavia, che aveva lottato per spostare i suoi confini all’Isonzo. E in sintesi il Rossi – grande colpo di scena di questo drammatico giallo - commise “un atto non premeditato” perché s’indusse ad uccidere i Biamonti la sera del 19 maggio, quando sapeva dell’ordine di scarcerazione, “ma senza visibili preparativi”. Il camion che li portò al Cimitero di Zinola si mosse di notte “per fruire delle tenebre o per uno stato di perplessità del Rossi stesso”. E appunto secondo la sentenza della Cassazione “l’omicidio è premeditato quando il proposito, compiutamente formato di commetterlo, sia rimasto fisso, irrevocabilmente nell’animo del reo per un apprezzabile periodo di tempo”.

L’ordine di scarcerazione ufficiale arrivò la mattina del 21, troppo tardi. Una luce di pietas, anche a risarcimento della legge “azzeccarbugli”, è stata la Messa di suffragio che da allora in quella ricorrenza per i Biamonti e la Nervo fa celebrare il fidanzato di Angiola Maria, ora di anni 88 e ricco di tre nipoti. A Nicolick, che è andato a farsi raccontare quei fatti, ha mostrato la foto della donna tanto amata 64 anni prima. L’autore ha saputo apprezzare perché formatosi nello scoutismo cattolico conobbe cristiani carismatici come don Gnocchi ed ha maturato una chiara coscienza rafforzata dall’impegno politico di consigliere comunale a Savona (PDL).

Nessun pentimento da parte degli omicidi, anzi il Rossi al processo si proclamò “innocente”. Certo allora c’era un clima di paura e fuori dalle regole: Maria Viglietti, una savonese che abitava sola, “obiettivo indifeso”, per tre giorni riceve “visite” di “patrioti” che le requisiscono ciò che possiede; nel campo di Legino Giuseppina Ghersi di 13 anni, presa a calci da tre della polizia partigiana, è stuprata, ammazzata con un colpo in testa sotto gli occhi di detenuti terrorizzati e di colleghi partigiani, divertiti e ghignanti.

Per indagare sui crimini di guerra nel novembre ’46 giunge a Savona il Commissario Amilcare Salemi, nativo del Cosentino che viene fatto fuori mentre cena all’Hotel Genova, in una zona centrale. Con dignità la vedova, Concetta Pasquino, che presenziò alle udienze accompagnata dai tre figli piccoli, chiede solo di riavere gli abiti del marito.

Al contrario nel delitto Biamonti, il movente, importante come nei grandi gialli, fa schifo (scusate) per la banalità del male: l’avidità fu la molla. La “colpa” dei Biamonti fu di ospitare, come ospite imposta, Andreina Ghione, vedova di un partigiano Rossetti, già militante con il partigiano Rossi. Secondo testimonianze fu la sua amante e, desiderando impadronirsi di ciò che era dei Biamonti, gioielli, casa, aveva cercato di tirare dalla sua la Nervo, al loro servizio da 18 anni. All’onesta Nervo, al campo, furono sequestrate fin le 50 lire che portava nel grembiule.

Nelle attenuanti generiche del processo si legge che il Rossi aveva appena 21 anni e che l’Andreina, imbottita delle sue idee, aveva dichiarato che “era giunta l’ora dei signori, che dovevano essere appesi a le lanterne”. Il Rossi nel ’54, dopo il giudizio di Cassazione, avendo già scontato due anni di carcere dei 27 di condanna, sconta ancora solo 56 giorni e sono assolti i complici (uno accusato di stupro e omicidio).

Molto interessanti le ricostruzioni storiche d’epoca di Nicolick, con la denuncia di una polizia partigiana che aspirava a tenersi a vita “il posto di lavoro” diventando polizia effettiva e con un filo rosso che lega le efferate tattiche partigiane alle Brigate Rosse degli anni di piombo.

                        Maria Luisa Bressani

 

 

                  

 

 

Ribelli di Annamaria Fassio e Valerio Parodi

Ribelli (Le Mani editore) di Annamaria Fassio e Valerio Parodi (il partigiano Littorino) ha un’affettuosa prefazione di Marta Vincenzi. Per sintonia di vita in Valpolcevera e ricordando per la loro bellezza i protagonisti Valerio, diciassettenne, che sfugge quindi all’obbligo d’arruolamento, e Lisetta, l’innamorata sedicenne.

Fassio, che ha messo insieme gli appunti e registrato le spiegazioni di Littorino, ha un apprezzabile curriculum di scrittrice. Le si deve un linguaggio agile, una semplicità narrattiva aderente all’animo semplice dei protagonisti. Nella prefazione Vincenzi mette in risalto l’assenza di retorica resistenziale. “Bello!” definisce il fatto che nell’aprile del ’45 Littorino, scendendo dalla montagna con il pastore maremmano Bobbi, “orfano” delle sue padrone uccise dai fascisti, gli abbia legato il fazzoletto rosso partigiano al collo. Le padrone in Val d’Aveto, quando impastavano portavano taglierini ai partigiani. Le  uccisero i fascisti.

Manca la retorica resistenziale? Qualcosa di crudo (o crudele) al fondo di quella retorica, la crea anche se si vorrebbe assente. Primo episodio indicativo, dopo l’arresto del Duce, quando Littorino il 26 luglio lascia la San Giorgio con un gruppetto di operai per andare alla Casa del Fascio dove gettano i mobili dalle finestre. Ricordo lo sgomento per i saccheggi di quella giornata di don Berto, Cappellano della Mingo, costituita poi da elementi sfuggiti all’eccidio della Benedicta, narrato nel libro. La “Benedicta”  fu un rastrellamento con 147 fucilazioni, che nell’aprile ‘44 segnò la fine della 3° Brigata Garibaldi Liguria  cui apparteneva Littorino. Quel 26 luglio ’43, senza pietas, giù dalla finestra dalle Casa del Fascio, gettano chiuso nell’armadio, dove era stato scoperto, un gobbo, il guardiano notturno. Incolume, gli toccano poi la gobba “porta fortuna”.

Da un testimone dei tempi, allora bambino di otto anni, un altro gobbo, ma a Valfenera d’Asti: “Il povero commendatore Baloire, già colpito dalla natura perché gobbo, per dare un segnale a tutti che “loro” comandavano, dai Garibaldini (partigiani comunisti) fu preso e linciato sotto il Faraone, leccio con circonferenza di sei metri con intorno una panchina, punto di riferimento del Paese”.

Era guerra -anche civile,  non dimentichiamolo – ma un altro episodio raccontato da Littorino denuncia mancanza di pietas: l’uccisione di Mister X, spia, che uscendo dal bar a Teglia, viene freddato mentre ha i suoi bimbi per mano.

Il comandante Balilla aveva allora già organizzato a Teglia i GAP (gruppi di azione patriotica) cui partecipò Littorino. Da lui Balilla e poi Bisagno che incontra nel ’44, in “montagna” (in Val d’Aveto), vengono definiti capi “a 360 gradi”. Vincenzi li chiama “fratelli maggiori, maestri di libertà e giustizia”. Però mentre Littorino nel raccontare di Gastaldi (attraverso le parole della Fassio) nulla dice sulla sua morte quasi si fosse spento nel letto, qualche elemento in più (a parte monografie recenti) dal racconto di Giampaolo Pansa ne I vinti non dimenticano (ottobre 2010, Rizzoli). Scrive a proposito dalla zona partigiana più importante della Liguria, la Sesta, che gravitava su Genova dall’estate ’44 (e ricavando dalla sua Tesi di laurea di mille pagine): “Qui il predominio del Pci è asfissiante. Nel comando della 3° Divisione Garibaldi Cichero, i comunisti sono 7 su 8. L’unico non comunista è il comandante Aldo Gastaldi, il leggendario Bisagno. Un cattolico che morirà in un incidente molto dubbio, un mese dopo la liberazione. Facile immaginare la reazione dei quadri del Pci all’interno della divisione a questa sua circolare: E’ assolutamente proibito ai commissari politici far propaganda di partito”. Conclude Pansa che il bilancio dei 20mila uccisi dopo il 25 aprile ’45, senza le truppe americane e inglesi, sarebbe diventato liquidazione di massa. Se al loro posto ci fossero stati i sovietici di Tito, sarebbe  stato l’inizio di un regime autoritario comunista”.

Nel libro, l’adesione ideologica di Littorino trovando un volantino dell’Unità, giornale uscito dalla clandestinità poco prima dell’8 settembre: “Erano i miei pensieri”.

Certo, c’era fame di stampa, di parole! Per quanto riguarda la stampa cattolica nel febbraio ’42 il Grifone, mensile dell’Apostolato della preghiera, fu invitato ad usare “un più vigile senso d’italianità”. Nel ’43 chiuse Letture Buone, una delle più vecchie riviste genovesi; quindi Il Giornale storico e letterario della Liguria di Arturo Codignola e Il Barco del Guf locale. Tra il ’43 e il ’45, Giuseppe Bottaro, critico cinematografico del Corriere Mercantile, fu fucilato  al Turchino e morì Giovanni Mertora stampatore di fogli della Resistenza. Nel febbraio ’44 si fermò il Cittadino.

Tornando al libro, il linguaggio, pur nella semplicità, è condizionante come queste parole dopo l’armistizio riferite ai tedeschi: “Arrivano come lupi. Arrivano come invasori”.

Concludo con due riflessioni, controcorrente al libro. Con pietas, anche verso i tedeschi, dal diario di Chicca Boeri Bona, bambina di 11 anni (premiato nel 2004 dal Comune di Faenza). All’arrivo dei partigiani il primo maggio ’45 a Pianezza dove era sfollata da Torino: “Alcuni avevano facce da bravi ragazzi, altri da ceffi di galera. Quasi subito fecero sgombrare la folla per fucilare sul posto, dove morì il partigiano Gianni, un povero vecchio tedesco che piangeva e implorava”. Commenta: “Voglio bene all’Italia, mi fanno pena gli Italiani inaciditi e inaspriti, resi quasi assassini dalla mostruosità nazi-fascista, ma come dimenticare la legge umana e divina del non ammazzare?”

E il fazzoletto rosso partigiano al collo del cane Bobbi, mi ha fatto ricordare la morte di Cesare Amici Grossi, tenente colonnello di cavalleria, raccontata da Pianetti Della Stufa ne L’anima nello Scaffale (2001). Questi, che non aveva aderito alla Rsi come imponeva il Bando Graziani, il 7 agosto ’44, fu colpito da un colpo di mortaio in piazza S. Spirito a Firenze con un capo partigiano comunista, un altro partigiano ed un ufficiale di Marina. Sulla lapide, solo due nomi: del comunista Potente, detto “eroe nazionale”, e del partigiano Sentini. Non degli altri che avevano la fascia tricolore al braccio e che testimoniava servizio al Comitato di liberazione d’Oltrarno costituito all’arrivo alleato, ma che avevano il torto di non avere fazzoletto rosso al collo. Dimenticati più di un cane!

                            Maria Luisa Bressani

 

 

 

Dai testi finora esaminati risalta la  crudeltà di tante azioni partigiane non giustificabile con la legge di guerra, risaltano ruberie, voglia di esproprio proletario di una sottesa tradizione anarchica. Queste le radici storiche della sinistra di fine guerra e dell'immediato dopoguerra, ma risalta anche un progetto politico più vasto che non rispettava la sovranità italiana ma voleva accodare l'Italia al comunismo e alla Russia d'allora che ne era patria e che purtroppo riaffiora in certte alleanze anche odierne nel ricercare pur nella nostra Europa comunitaria chi è vicino a questa storia anche giacobina.

C'è ancora un elemento, ancora più grave, voler cancellare la memoria e ciò risalta bene nel libro di Silvio Ferrari La morte degli altri quando parla di Praga e di Palach.

C’è un “destino” nella prima pagina del libro di Ada Grecchi L’età delle passioni (Sperling & Kupfer). Due amici, Paolo e Roberto, figli di ferrovieri, iscritti al PCI di Reggio Emilia, nipoti di nonni  i cui nomi al cimitero sono “Libero, Ideale, Comunardo”, con mamme che alla domenica pomeriggio vanno in Chiesa mentre i mariti si trovano al Circolo, l’altra Chiesa. I ragazzi, giocando a calcetto, immagazzinano -senza volerlo- i loro discorsi. Più grandi, alle scelte radicali del “Se è sì, è sì” come diceva il cardinale Canestri (ricordando le zappe e le roncole appoggiate ad una cappelletta dell’alessandrino dove entrava con la mamma per una preghiera, qui a Reggio c’è sempre qualche bicicletta appoggiata al muro del Circolo), si ritroveranno militanti dell’altra Chiesa. Il protagonista Paolo, vuol stare nelle regole e diventa sindacalista a Milano, Roberto, poi arrestato, entra nelle Brigate Rosse per fare la Rivoluzione, perché “il PCI è compromesso con il potere come la DC che è fatta di antichi fascisti al governo”.

Ripercorriamo i crimini del terrorismo brigatista come in un bigino. L’autrice, avvocato, top manager Enel, vicepresidente della Commissione Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con incarichi internazionali nella Commissione europea, anche Assessore alle politiche femminili presso al Provincia di Milano, si è documentata attraverso Piombo rosso di Giorgio Galli e Che cosa sono le BR di Fasanella-Franceschini ma, leggendo, la memoria si fa Coscienza. Ci par chiaro che il suo ripercorrere il passato nasce da riflessioni personali di chi come lei, classe 1936, queste vicende le ha viste come tanti di noi di quella generazione ed altre vicine.

Il racconto si fa analisi del periodo in cui “gli esagitati avevano bisogno del mondo del lavoro per fare la rivoluzione”. Alla prima occupazione di fabbrica a Lambrate in un’azienda di prodotti elettrici, alla Falk e all’Enel  di Porta Volta, segue il 1969 di piazza Fontana. Segue nel ’74 il rapimento di Sossi “fascista sei il primo della lista”, l’assassinio di Coco per cui un compagno di Paolo commenta: “Noi non piangiamo quando muore un servo dello Stato”.

In un’escalatione di sangue e terrore (lunghissimo l’elenco dei gambizzati o giustiziati dalle BR nel ’77 a Milano, da Montanelli a Casalegno), arriva il caso Moro. Alla sua morte seguono i cortei di chi credeva si sarebbe potuto salvarlo e le sofferte dimissioni, nel nostro Paese in cui nessuno si era mai dimesso, di Cossiga Ministro dell’Interno. La confusione drammatica di quegli anni  continua con gli assassini di Alessandrini, Tobagi, Simone e Trantelli, il suicidio di Cagliari (Psi) coinvolto in Tangentopoli, le morti di D’Antona e Biagi. Quando il giudice non chiude le indagini su Cagliari e se ne va in ferie, questi, prima del suicidio, scrive: “Ci trattano come non-persone, come cani ricacciati ogni volta al canile”.

Uno spartiacque è però la morte di Moro da cui le BR attendevano legittimazione politica, mentre il consenso, sia pure strisciante nel mondo del lavoro, davanti a quel crimine cessò. E’ la pagina 138 del libro, grande pagina di Coscienza civile, come altre pagine di Coscienza riguardano Craxi al cui decisionismo e alla cui politica di rigore si deve il ritorno dell’ordine nel Paese con la sconfitta delle BR.

Alla vicenda personale e politica di Paolo, costretto a lavorare a Bruxelles (non aveva voluto collaborare ed è iscritto nelle condanne a morte delle BR) e alla sua paura quotidiana che lo accomuna ad altri dell’industria, colpiti dall’intimidazione brigatista al punto di sospettare ogni auto che li tallonasse, s’innesta la sua peripezia d’amore con moglie e amante perché il libro è storia confezionata in romanzo per meglio digerirla. Il triangolo è banale ma quasi inevitabile per un giovane del ’68 e della liberazione sessuale: la moglie, una “strisciona” come nella Bassa si dice delle donne dal sedere basso, per di più con baffi e gambe non depilate, l’amante che incarna il nuovo trend di bellezza femminile, d’indossatrice anoressica. Alla fine - il tempo è galantuomo- Paolo scopre, mentre la moglie sta facendo la chemio, che è stata lei la donna della sua vita, che l’ha fatta soffrire ma i loro silenzi si sono riempiti nel tempo di cose costruite insieme.

E va nel senso di una maggiore comprensione del mondo una perla del libro a pagina 84: l’amante di Paolo, alla ricerca del padre inglese, trova ad Edimburgo mentre visitava Holyrood Palace, senza averla mai vista nè averne letto, un’Abbazia di frati diroccata e bruciata secoli prima. Lei sapeva che c’era e dato che l’autrice è appassionata delle antiche Chiese d’Inghilterra, il particolare autobiografico va nella direzione della frase di Shakespeare che “tra cielo e terra ci sono molte più cose di quanto creda l’uomo”. Fenomeni di cui si Parla in Piramidi di tempo di Remo Bodei e la Coscienza è salvezza dall’irreversibilità del tempo.

                         Maria Luisa Bressani

 

 

La Morte degli altri di Silvio Ferrari

La morte degli altri di Silvio Ferrari (pubblicato con De Ferrari, editore benemerito per la cultura ligure) ci disvela la motivazione del titolo al penultimo capitolo. L’autore memorizza queste parole di Massimo Cacciari al Ducale alla vigilia di un proprio intervento chirurgico, definito di routine. Nella stanza incontra, circondato dai parenti, un ex allievo “prossimo” alla fine e questa interviene prima che a lui tolgano i punti. Da qui, nel dopo, una riflessione sulle perdite affettive che più hanno inciso in lui, tema questo anche trattato da Rita Levi Montalcini in Senz’olio contro vento (per lei lo spunto dai “salvati e sommersi” di Levi). La prima perdita per Ferrari è il cugino Rade Radulić, con l’autorevolezza di cugino maggiore, abilissimo velista e che si ammira nella foto di copertina. Rade, conseguito un diploma di radiotelegrafista di bordo, ottiene un posto (risultato notevole in quella Jugoslavia che sbarrava molte strade a chi era di una certa provenienza sociale) sull’ammiraglia della flotta commerciale nazionale. Muore a 23 anni (14 dicembre 1960) nello scontro con una petroliera nello stretto del Bosforo. L’episodio è descritto da Orhan Pamuk (Nobel 2006) in Istanbul.

Il secondo racconto è per la cugina Ksenija (soprintendente – quanta passione d’arte in questo libro! -, morta giovane  di tumore). Una volta la sentì dire mentre esaminava i segni del gotico a Zara: “Si ha un bel dire, ma qui niente sarebbe comprensibile senza Venezia”. Sconcerto quindi per lui, quando da una pubblicazione ostile ai croati, apprende che la cugina, ventenne, aveva contribuito a sfregiare i leoni veneziani sui fastigi delle porte della città.  Cerca di capire, la immagina sotto pressione di messaggi del regime: era il 1953 d’Italia e Jugoslavia contrapposte per Trieste. Ma proprio l’amore per l’arte, per la cultura comuni, sarà risorsa e vera unità d’Europa e Ferrari lo sa e lo dimostra. “E’ un bravo studioso” mi disse di lui una volta un altro zaratino: Nicolò Luxardo.

Sconcerto (forse, ormai non più di tanto per chi come lui ha vissuto con il cuore spaccato tra sponde lontane di due mari, Tirreno e Adriatico) quando immagina una seconda occasione di vita per Rade: è l’ultimo capitolo. L’occasione che tutti vorremmo davanti all’ombra obliqua della morte. Allora lo sente raccontare dei coetanei che, imbarcati su navi transoceaniche, magnificavano vita e società dell’America del nord e dell’Australia. Lo sente ricordare i tanti emigrati da Zara e dalle isole.

Dalla parte del nostro Tirreno ci fa riflettere, in particolare, il racconto “La doppia targa di via Figari” (Camogli). Ha quattro date: 1924-45 per il partigiano Enrico Figari ucciso dai tedeschi, 1959-78 per i nipoti Enrico e Luisa, figli del fratello Gianni, che non poté conoscere e morirono in moto schiacciati da un camionista tedesco. La storia affascina per il rapporto “politico” che Ferrari cerca d’instaurare con il giovane Enrico. E scopriamo che le feste dell’Unità e i comizi in Genova, dove lo zoccolo comunista è sempre stato forte, erano percorsi da contestazioni.

Il cuore ‘spaccato’ dell’autore, in questo bilancio esistenziale oltre a restituirci ricordi intensi sul centro storico di Genova come su usanze zaratine, è testimoniato da una frase: “Possibile che passato il confine le sole persone che m’interessano sono tutte anticomuniste?”

S’interroga sul perché lui, che in Italia ha scelto di militare nel partito comunista, quando rientrava in Jugoslavia constatava il carattere totalitario e illiberale del comunismo. Un regime di potere subito sulla pelle dall’amico Ljubo Milić come dal marito della cugina Desa che un giorno gli raccontò - con la sicurezza Ricordi quando affermava le sue massime di vita non nazionaliste- della comparsa a Medugorje della Madonna. Ferrari sa di dare al lettore una microstoria della Croazia recente che forse non sarà scritta, nel tempo della primavera croata stroncata.

Torna alla memoria la primavera di Praga perché Ferrari ricorda un viaggio nel 1988 nella capitale cecoslovacca con amici di cui mentre scrive uno è malato. Deve constatare che nessuno ricorda il martire Jan Palach. Per lui invece dopo che aveva fatto di sé torcia umana nel gennaio 1969 gli abitanti gridavano per strada: “La verità vince”. Vent’anni dopo come ha constatato Ferrari i giovani s’interessavano di più alle moto degli italiani in vacanza. Non è un caso: il comunismo vi fu fino al ‘90 ed opera da bulldozer di memoria.

Anch’io ho voluto andare a Praga per le mie radici che da Trieste salgono alla mitteleuropa (Vienna, Bratislava, Budapest) e l’ho fatto quattro anni fa. rdo la guida del viaggio: un giornalista alla radio, italiano e comunista, finito a Praga nel ’69 senza più tornare. Ad una signora romana che incauta lo paragonò al “nostro Vespa”, rispose imbufalito: “Quale male nell’ideologia comunista? Qui, le donne a 60 anni venivano impiegate a spazzare le strade, lavoro socialmente utile e così avevano un’occupazione”. Immaginai la signora dai jeans con tagli “Fontana” e la ramazza in mano e con lei immaginai me. Da bambina, avendoci definito con i compagni di giochi “devastatori” di un giardino e avendoci imposto di rastrellare alcune aiole, ciò a me fu proibito perché troppo piccola. Allora rimasi male, però pensando all’ideologia capace di darmi un’altra occasione, mi risposi: “No, grazie”.

                  Maria Luisa Bressani

 

 

    

L'età delle passioni di Ada Grecchi

Genova Violenta nei poliziotteschi anni Settanta

di Carlo Romano Il Giornale 30 dicembre 2011

Un piccolo-grande libro Genova violenta nei poliziotteschi anni Settanta messo a punto da Carlo Romano, saggista e curatore della Fondazione De Ferrari, che raccoglie e custodisce fondi culturali, mettendoli a disposizione di tutti gli interessati. E’ uno dei tascabili di pregio della neonata “Via del Campo Edizioni”, in compagnia con G8 Graffiti, Le Strade di De André e di Stokke mon amour, dedicato a stoccafisso e baccalà (in uscita ora).

Come viene spiegato nelle “Premesse” del libro “il poliziottesco è un sottogenere che non è facile tener separato dal filone complessivo del cinema poliziesco ma ha segnato la stagione anni Settanta e condiviso un certo gusto di titolazione”. Proprio i titoli dei film, che introducono ciascuno una decina di brevi capitoli, fanno capire lo spessore di questa opera breve: non interesserà solo chi ama film d’azione polizieschi, con affondi nel noir più grand guignol, ma c’interessa tutti come radiografia del nostro vivere degli ultimi quarant’anni.

Il 1973 inaugura il filone dei poliziotteschi con il genovese “La polizia incrimina, la legge assolve” di Enzo Castellari (che fa seguito a “La polizia ringrazia” di Steno del 1972). Con sfondo Genova e la Riviera seguono: “La polizia è al servizio del cittadino?”, “Il cittadino si ribella”, “Mark il poliziotto spara per primo”. E ancora: “Italia a mano armata”, “Genova a Mano armata”. Titoli che denunciano temi caldi. Irrisolti pur se ormai sono evidenti le falle di un sistema in cui il malvivente è stato troppo spesso assolto a dispetto del poliziotto che se lo vedeva sfilare dalle dita.

Il poliziottesco racconta e indaga due fenomeni: l’innestarsi -provocandone l’internazionalizzazione- della mafia sulla malavita locale (più rassicurante in quanto dotata di una sorta di codice d’onore); soprattutto l’incidere sulla malavita di una turbolenza, causata da tensioni politiche e dall’attività di gruppi ideologici armati. I poliziotteschi hanno anticipato indagini sociologiche recenti: le Brigate rosse (che tanti intellettuali, servi d’ideologia, negli anni settanta definivano “sedicenti tali” e credevano nere) si uniscono con un filo rosso ai sistemi dei vecchi partigiani. A pagare lo scotto di un richiamo “fintamente mitologico” sono le classi popolari genovesi, legate ad un concetto di mestiere altrove superato da una nuova organizzazione industriale, come nella Torino della Fiat.

In questo senso sono interessanti le pagine 20/21. Con il ricordo di un contrabbandiere vecchio stampo, Luigi Dapueto (Pieve Ligure) e di Pietro Soggiu, poi prefetto, che gli dà la caccia ma sa di essere di fronte ad un uomo abbastanza unico. Con la citazione di un saggio sociologico del 2003 La città e le ombre di Alessandro Dal Lago e Emilio Quadrelli (esaustivo su questi fenomeni). E di Quadrelli Andare ai resti. Banditi, rapinatori, guerriglieri nell’Italia degli anni Settanta mette in risalto come la protagonista F., una ragazza sessantottina, sia di origini sociali altolocate. Tali furono spesso i rivoltosi del sessantotto e dintorni, di cui il preside Italo Malco del D’Oria  aveva il coraggio di denunciare che erano figli di padre con lo yacht (altroché rivolta sociale!). Ma solo ora e raramente (v. il giornalista Pansa), solo anche con libri come questo, piccola ma esaustiva enciclopedia di film girati a Genova in quegli anni, balza vivo il ritratto di quel feroce terrorismo.

L’altro aspetto del libro che avvince è l’immutabile fascino di Genova. “Ero rimasto colpito dalla sua cinematograficità, dalla bellezza straordinaria ma variatissima, con una serie di set naturali diversissimi”, così il regista Mario Lanfranchi in un’intervista a Renato Venturelli (maggior esperto italiano di “noir”), che gli chiedeva perché avesse scelto la nostra città per “Genova a mano armata”. E non a caso, il curatore Romano ricorda che i fratelli Lumière già nel 1890 avevano filmato piazza Caricamento. Sarebbe interessante far conoscere attraverso Mostre fotografiche “i Set” di quei film girati  a Genova, pur se è una cornice che non si può circoscrivere come negli inseguimenti mozzafiato, in moto tra Nervi e Monte Moro, de “L’ultimo graffio” di Michele Saponaro (1983).

“I Set” conservati, come nel deserto tunisino per “Guerre stellari”, in Irlanda per il cottage dell’“Uomo Tranquillo”, hanno avuto buon ritorno turistico. Genova dei poliziotteschi è però tutto un set: caruggi, sobborghi, squarci di Riviera.

Tra i molti film  ricordati e di cui si mettono in risalto le parentele con il cinema americano o francese, da segnalare “La bocca del lupo” (2009) diretto da Pietro Marcello e voluto dalla “Fondazione Marcellino” dei gesuiti genovesi, una “docu-fiction” sul legame, cristallino e non fragile,  tra un balordo e un transessuale conosciuto in carcere. Una chicca d’attualità e tante le chicche per i cinefili!

                         Maria Luisa Bressani

 

 

Cercati col Lanternino di Enzo Costa

Quando ho letto la prefazione di Margherita Rubino a Cercati col Lanternino di Enzo Costa, edito da red@zione,  direttore editoriale Mario Bottaro, di per sé garanzia di qualità, mi son detta: “E’ il mio libro”. Mi riproponevo una lettura felicemente spensierata, anche caustica, come antidoto a nebbie e pantani politici attuali. I “Lanternini” sono i corsivi quotidiani di Costa su Repubblica, in prima pagina tutti i giorni salvo il lunedì, di cui il libro raccoglie quattro anni, 2009/’12. Rubino li definisce un dialogo con la città, irriverente e necessario. Con risvolti positivi se focalizzati su Sant’Egidio, i giovani in lotta, La Biblioteca De Amicis, il Suq, il circolo “I Buonavoglia”, sulle luci di Genova: carità, cultura, solidarietà. I “Lanternini” politici – sigla Rubino - ci danno Claudio Burlando che, in vista delle regionali 2010, sprizza comunicazione “come uno Zeman con il mal di denti”, lasciano sospeso il giudizio  su Marco Doria, esprimono condivisione ammirata per Marta Vincenzi. Ma chi scrive, tenendo un tempo per un settimanale l’Obiettivo sulla Provincia, la vide in veste di presidente come grande elargitrice di consulenze e studi sul dissesto idrogeologico mentre per fronteggiare il disastro del Ferreggiano meglio sarebbe stato ascoltare quel geometra che interveniva a riunioni di Circoscrizione predicando “necessità di pulizia degli alvei”.

Ero pronta al sorriso come terapia al mal di vivere attuale, invece leggendo scopro che la collezione di “pensierini” di Costa per altri aspetti  non mi piace.

Mi spiego partendo dal “Lanternino” (10/02/09) “Un giudice a Genova”: “Avrei preferito pagare l’Ici, pur di avere fondi per la Giustizia”. Parole di un magistrato afflitto per un sistema giudiziario al collasso, ma anche – sottolinea Costa – effetti collaterali della destra del fare che abroga l’Ici e “salva” Alitalia togliendo osseigeno a comuni, tribunali, scuole e quindi cittadini.” Ma come – mi dico – noi cittadini, noi che paghiamo l’Ici siamo nominati per ultimi? Noi protagonisti se avessimo dovuto pagare anche l’Ici avremmo avuto servizi migliori? La giustizia non sarebbe comunque impantanata nell’annosità dei suoi processi, ante abolizione dell’Ici, ante governo del fare, e che in Europa ci ha conferito la maglia nera? Noi purtroppo in Comune eleggiamo gente che non sa trovare risorse alternative alla tassazione, che in una Genova,  così “ricca di luci”, ma anche di tesori nascosti da valorizzare, ha lasciato spegnere il petrolio del turismo. E’ colpa dell’Ici o di funzionari non all’altezza della Superba?

E’ solo un primo esempio. Irrompe fin dal primo “Lanternino” (3/01/09) la questione della Moschea, caldeggiata tra gli illustri da Marta Vincenzi. Ad essa ne è dedicato uno più esplicito “La Moschea al Naso”(26/01/09), ma il problema non è tanto di cittadini che non vogliono nel proprio quartiere un elemento di disturbo (che sia un Sert, la Moschea o altro) quanto che ogni buona intenzione – a livello di chi lavora nelle Istituzioni – va accompagnata da accoglienza e da affermazione di pari diritti all’estero. Bello parlare di Moschea ma è doveroso pensare ai cristiani trucidati in tante parti del mondo. Cito, pur se si riferisce agli anni  ’70 quindi ad anni luce, che ad un ebreo polacco, emigrato nel ’47 in America, Leon Jolson,(che in Usa in ricambio dell’accoglienza aveva poi voluto devolvere le ricchezze accumulate per assistere gli immigrati, senza distinzione di razza o nazionalità), a lui il governo polacco negò di  ricostruire una delle sinagoghe incendiate dai nazisti. Ecco bisognerebbe pensare un po’ più ampio: non con il muro contro muro che non porta a nessuna integrazione, ma anche con l’affermazione della reciprocità dei diritti. Chi la deve assicurare se non chi governa e può, e se è un’Istituzione locale ogni seme gettato può dilatarsi, crescere nel mondo.

Peggio ancora: non mi piacciono questi “Lanternini” quando per stigmatizzare la parte politica avversa usano il linguaggio di chi vede passare un gobbo e si segna o di chi vuole segnarsi anche se chi passa gobbo non è. Vedi il 17/01/09 l’irridere alla stazza di Giuliano Ferrara, vedi il 30/01/09 il definire un Truman Show l’intelligenza di Maria Stella Gelmini e dell’economista Brunetta, il chiamarli “un duo delle meraviglie”, vedi il consueto astio per Berlusconi, la consueta piccineria popolare che già il giornalista Ansaldo stigmatizzava nei confronti del Re ucciso a Monza, quello che avrebbe indossato una cotta d’acciaio a preservarlo in battaglia dove invece si gettava con valore.

A questo punto, leggendo, mi sono annoiata. La politica con questa satira diventa una cosa sporca mentre si dovrebbe guardare ciò che dà il cittadino e cosa riceve, cosa gli rubano. Il lavoro e il sudore della gente, il non arrivare a fine mese e il non trovar lavoro, non fanno ridere. Ci vorrebbe una comune sintonia, non bla-bla sul bene comune.

                       Maria Luisa Bressani

Resistenza a Genova. Momenti e figure di Guido Levi

"Visto da destra e vista da sinistra" è il primo pensiero che mi ha suscitato Resistenza a Genova: momenti e figure di Guido Levi (De Ferrari - Genova University Press). Lo dico  perché il pregevole testo di Levi va comparato con altri.

L'autore, dottore di ricerca in Storia del Federalismo e dell'Unità europea, con attenzione all'antifascismo, alla Resistenza, al processo d'integrazione europea, in una prima parte del libro scandaglia tre momenti: Liberazione, Salvataggio del porto, Stampa clandestina, per dedicarsi nella seconda a ritratti storici di uomini della Resistenza: Eros Lanfranco, Giuseppe Gallo (e l'antifascismo mazziniano della "Giovine Italia"), il partigiano Luciano Bolis, Francesco Manzitti tra Resistenza e ricostruzione.

Sottolinea degli studi recenti l'aver messo in risalto "il ruolo delle donne, la resistenza dei militari internati, la renitenza alla leva, i rapporti con gli Alleati, le violenze postbelliche". Quando viene a parlare del Comando della VI Zona  (ed è quasi subito, p. 9), cita la ricerca da cui è partito  di Maria Elisabetta Tonizzi (2006, A Wonderful job. Genova, aprile 1945: insurrezione e liberazione) per l'encomio a quel piano "A" di liberazione che il Comando aveva messo a punto. Però Giampaolo Pansa, riprendendo con i I vinti non dimenticano la sua tesi di laurea, scrive:  “Scopo della dirigenza comunista delle Brigate Garibaldi (dei 9 membri del Comando della VI Zona 7 erano iscritti al partito con in essa un predominio del Pci asfissiante) era conquistare il potere con le armi e fare del nostro paese uno Stato satellite dell’Unione sovietica”. In “Come celebrare il 25 aprile?”, titolo del primo capitolo, scrive ancora: “La cultura dominante continua ad essere quella dei vincitori rossi. Gli sconfitti non devono parlare..." E proprio Pansa è citato da Levi alla nota 152, in chiusura al suo primo capitolo, dove ricorda in cifre il sangue dei vincitori da contrapporre (sic!) a Il sangue dei vinti (testo di Pansa giornalista-storico revisionista).

E Giacomo Ronzitti, presidente Ilresc (Ist. Lig. Resistenza e Storia contemporanea), nella prefazione al libro di Levi condanna chi seguendo l'ultimo De Felice, storico revisionista, parla di una  supposta "vulgata resistenziale". Precisa  che la "crescente ondata revisionista ha fatto seguito alla caduta del Muro di Berlino e al crollo dei regimi del socialismo reale, sfociando in pretestuosi attacchi e volgari polemiche, funzionali a palesi strategie politiche, mentre per controparte negli ultimi vent'anni sono stati gli Istituti storici della Resistenza a promuovere studi innovativi e stimolanti". Secondo me (e non son sola) sono Istituti che avrebbero dovuto anche essere della Storia contemporanea, mentre si sono arroccati su una Storia, vista da una parte sola. E' avvenuto fin l'anno scoso da parte dell'Istituto piacentino, diretto da Romano Repetti nel ricordare uno slavo farabutto, Gaspare, insediato a Cerignale con la sua banda, e causa della reazione nazi-fascista che incendiò il borgo il 29 agosto 1944: ritenuto però degno "di figurare nel libro della nuova Italia libera e democratica". Anzi con parole che mi ha scritto Repetti "le violenze dell'immediato dopoguerra si giustificano con la pratica e l'esaltazione delle violenze in Italia tra il 1922 e il '45", senza però dire che il 1922 seguiva tre anni di guerra civile (occupazione delle fabbriche...) e alla domanda d'ordine.

Un grosso peccato nel far Storia è il peccato d'omissione e così per il salvataggio del Porto di Genova Levi mette in risalto come la X Mas abbia impedito la penetrazione dei partigiani ma non ricorda che il loro comandante Arillo effettuò lo sminamento  né quel documento (citato su queste pagine il 7 maggio scorso da Gianni Plinio) sul suo nobile colloquio con il Cardinal Siri a convalida del fatto d'essersi ritirato nel Porto per opporsi ad atti di distruzione da parte dei tedeschi. Per Arillo, per una lettura comparata, vale Proscritti  di Pessot e Vassallo su quando si arrese con la X Mas pretendendo dagli Alleati "l'onor delle armi". Concetto questo dell'onore sconosciuto a molti storici d'oggi, mentre si collegava strettamente al giuramento prestato in guerra.

Riscontro la stessa omissione sull'apporto dei cattolici alla costruzione comunitaria mentre Levi segue il filo di "prime proposte concrete di unificazione continentale provenienti dalla cultura dell'antifascismo". Constato che fin Wikipedia riduce le dodici stelle della bandiera europea a "simbolo d'armonia", mentre sono quelle dell'aureola di Maria. A pochi chilometri da Maastricht, dove le nazioni d'Europa completano la fase iniziale del processo unitario, c'è Banneaux: Maria in una sua apparizione vi fece scaturire una sorgente dedicandola "a tutte le nazioni". Un caso?

Mi è piaciuta di più nel libro di Levi la seconda parte dedicata agli uomini. Conferma la poliedricità determinata, quasi eroica d'italiani e, nel caso, di fede partigiana.

                 Maria Luisa Bressani                           

 

 

 

Prima di dare la replica a recensioni dove risaltano i   concetti della Destra, onore e ideali e in questo caso la replica a Levi verrà da un libro di Piero Vassallo, desidero ancora citare due testi. In Missione Nemo  si vedrà il fiume di soldi pee determinare la fine della guerra in Italia, arrivato da poteri che non erano quelli della gente ma esterni (come è sucesso nelle primavere arabe mentre il principio dell'autodeterminazione dei popoli nel mondo globalizzato e negli interessi economici che lo guidano sembra andare a farsi benedire). Ciò farà capire come l'Italia d'allora e quella attuale possano essere in balìa di altri, di poteri forti. I soldi allora venivano da Banche sostenute da Persone e Gruppi che già si preparavano al dopo. Ricordate l'impennata recente dello spread?

Non solo, cosa che in una recensione si può omettere ma nel libro c'è un compagno del Gnecchi Ruscone, anche lui ragazzo e finanziato, che si spese quei soldi in donnine e si beccò la lue. 

Quindi inserisco  I 60 anni di Cisnal-Ugl.

E vi inserisco un episodio autobiografico nella Chiesa del Padre Santo al doposcuola: a dimostrare come i bambini per educazione

possano respirare un clima distorto e superficiale  e scambiare il lutto per la morte di Guido Rossa come un momento di vacanza a scuola.

Non è diverso dalla rimozione della memoria che è avvenuta in certi paesi sovietici, mentre la memoria è il bene più prezioso di ogni singolo e dei popoli.

 

     

Missione Nemo di Francesco Gnecchi Ruscone

A Francesco Gnecchi Ruscone da bimbo in casa insegnarono che “ogni privilegio è un debito”: etica cavalleresca che impone un “ritornare” ciò che si è avuto e che formò il carattere del protagonista di Missione “Nemo” – Un’Operazione segreta della Resistenza militare italiana 1944-45 (Mursia). Cooptato da Emilio Elia, detto Nemo, (capitano di corvetta della Regia Marina, già combattente nella I Guerra mondiale, poi nella II, quindi primo questore di Milano), doveva eseguire rilievi cartografici della linea difensiva  progettata dai tedeschi a nord del Po. Elia dopo l’8 settembre ’43 agì per l’Intelligence britannica per trasmettere notizie militari, industriali e politiche. Obiettivo finale degli Alleati era “stabilizzare l’Italia del dopoguerra dal punto di vista sociale prima che politico”. Cardine della ricostruzione i bacini idroelettrici, fornitori di energia alle industrie di pianura. “Nemo Op. Sand II” con “sand” (=sabbia) si riferisce allo sbarco di Elia (portato dagli Alleati) in un paesino  delle Cinque Terre.

Le scelte di Francesco, in linea con la sua famiglia di soldati, nascono improntate ad onore ma con pragmatismo. Ritiene lo sbarco degli Alleati in Sicilia “un’invasione di truppe straniere”. Per non “tradire” va, per arruolarsi volontario, al Distretto di Milano. “Guagliò non fare ‘o fesso, vattene a casa”, lo  blocca il sergente di servizio.

Una settimana dopo cade Mussolini, per la sua famiglia risorgimentale “l’uomo della sfida sfacciata all’autorità della monarchia”. A casa si leggevano giornali stranieri, il padre Gianfranco, tenente di cavalleria, era stato schedato come  ostile al Regime per non aver preso la tessera del Pnf, ma ad inizio guerra riprese servizio. Su Francesco, dodicenne quando fu conquistata l’Etiopia, influiva il fascino del cugino di mamma, Paolo Caccia Dominioni, allora al comando di un battaglione di ascari eritrei. Mamma Antonia, già studentessa dalle Suore del Sacre Coeur di Parigi, pianse una volta in 90 anni: per Parigi conquistata nel ‘40 dai nazisti.

Pianse anche Emilia Jona Pardo (il cui figlio di recente consegnò la Medaglia dei Giusti alla famiglia Custo che li ospitò in guerra): pianse, ritenendola “fine della civiltà”, con la sua insegnante di francese, Soeur Feliz delle Suore della Misericordia di Nevers. Niente più dello studio aiuta a capire un popolo e perciò lo rende caro.

Mio padre triestino, città infiammata da ideali, allora sul fronte Occidentale nel 5° Reggimento Artiglieria Pesante Campale (Divisione Po), era convinto “che i tedeschi stessero togliendo le castagne dal fuoco per l’Italia”. All’armistizio del 24 giugno ’40 che alla “pace europea mancasse  persuadere i Balcani per via diplomatica e vincere l’Inghilterra, che la Germania avrebbe facilmente vinto”. Più pragmatico Gianfranco, padre di Francesco, pensava che “in caso di vittoria la Germania avrebbe sottomesso l’Italia, in caso di sconfitta avremmo avuto miseria e vergogna”.

Con lo stesso pragmatismo Francesco, ventenne studente del Politecnico, si lascia cooptare da Nemo perché, caduto Mussolini, ritiene “il problema maggiore portare l’Italia fuori dalla guerra”. Parte in bici per la missione con  due libri: Kim di Kipling e Introduzione all’Architettura moderna di Sartoris. Dopo un anno di attività, torturato dalle SS germaniche di Padova, non fa il nome di nessuno dei compagni. Riscattato con un pagamento in monete d’oro, commenta: “Gli eroici nibelunghi, prima del fugone finale, sono diventati un’anonima sequestri”.

In corollario alla missione, è mandato a recuperare 40 casse di documenti segreti dell’Archivio di Stato, trafugate dai tedeschi, tra cui viene ritrovata la collezione numismatica di Vittorio Emanuele III. Nel suo raccontare, ciò che più piace, è il proporsi senza enfasi.  Di sé e dei suoi compagni dice: “In noi un po’ di Sandokan e Don Chisciotte, di Primula Rossa e Gianburrasca, dovevamo fare quello che ci pareva giusto e farne un buon lavoro”.

Nella premessa Marino Viganò, diplomato in Scienze politiche alla Cattolica di Milano, dottore di ricerca in Storia militare a Padova, sottolinea: “In Inghilterra Harry Hinsley tra il 1979 e il ‘90 pubblicò in cinque volumi la storia dell’Intelligence, mentre la storiografia italiana ad ora non ha avuto quasi accesso alle carte del SIM (Servizio Informazioni Militare). Per raccontare “Missione Nemo” ha scelto Gnecchi Ruscone perché ne lesse l’ autobiografia in inglese, del ‘99: Quando essere italiani era difficile. Così difficile raggiungere le carte del SIM che lo storico Gianfranco Bianchi riferisce sulla “Nemo”(Per la Storia, Vita e Pensiero, 1989) in 10 righe “autocompiaciute” (secondo Viganò) per la scoperta. Bianchi è stato giornalista per 50 anni, storico del Fascismo di cui raccolse documenti dalla caduta di Mussolini. Grande educatore di coscienze di giovani, fondò con Apollonio la Scuola della Comunicazioni Sociali, con sede prima a Bergamo poi alla Cattolica.

Nell’appendice documentaria, redatta da Viganò con Susanna Sala Massari, colpisce il fiume di denaro (finanziamenti della missione) da gruppi industriali e banche, italiani ed esteri. Nell’elenco nominativo dei quasi 200 collaboratori, anche don Paolino Beltrame Quattrocchi e Suor Giovanna.

               Maria Luisa Bressani

Rivolgo un pensiero di ricordo al mio professore e relatore della I Tesi alla Cattolica di Milano sul Cittadino in 100 anni di storia genovese, per la Scuola Superiore delle Comunicazioni Sociali (SSCS) , Gianfranco Bianchi qui citato dal Viganò al di sotto dei suoi meriti di ricerca. (Il ricordo su Presenza è alla pagina "I Maestri").

Lo ricordo con la moglie Mirella di cui ci raccontò una volta a lezione:.

Per manifestarle il suo amore le diede un bacio Perugina e poiché la moglie era l'istitutrice di una giovane della Milano bene che poi volle fare la giornalista a finì nel circuito dei giornali osé, lui e altri colleghi fecero sì che loro articoli non firmati figurassero a nome della giovane donna in modo da poterla far iscrive all'Albo e tirarla fuori da quella schiavitù.

Bianchi e la moglie erano carissimi amici di Ottavio e Rosita Missoni: quanti bei ricordi di quell'Università Cattolica, serbatoio di cultura e di spiritualità.

60 Anni di Cisnal-Ugl  di Mario Bozzi Sentieri ed Ettore Rivabella

Nel 1990, nel ricordare i 40 anni dalla fondazione della Cisnal (Confederazione Nazionale Lavoratori), l’allora segretario Antonio Aloia afferma sullo sfascio dell’economia genovese con crisi d’Ansaldo e Fincantieri: “E’ stato deciso e programmato da anni dal potere politico con l’acquiescienza dei sindacati della Triplice. Ci sono 3600 operai che verrano messi sul lastrico e che la Triplice ha la faccia tosta di sfruttare ancora facendo fare loro uno sciopero non per conservare il posto di lavoro ma per far intascare a quei sindacalisti le trattenute sulle ore di sciopero. Abbiamo perso i 12mila posti di lavoro dell’Italsider, siamo a 42mila posti in meno su tutta l’economia genovese. Perderemo anche quelli di Ansaldo e Fincantieri grazie ad una politica clientelare condotta con la complicità della Triplice”.

Quella crisi, di cui Prodi per le industrie a partecipazione statale è stato l’origine, insediando una dirigenza non all’altezza, perdura tuttora ed ha costretto i giovani a cercar lavoro fuori città.

Le parole di Antonio Aloia (dal 1978 era reggente dell’Unione e della delegazione regionale) sono riportate in 60 Anni di Cisnal/Ugl a Genova di Mario Bozzi Sentieri e Ettore Rivabella, con molti altri documenti storici. La Cisnal(Confederazione Nazionale Lavoratori), fondata a Napoli nel 1950, diventò poi UGL(Unione Generale del Lavoro).

Bozzi Sentieri, apprezzato scrittore-giornalista, con “UGL News Genova” ha rilanciato l’informazione sindacale interna ed esterna, affiancando Ettore Rivabella, segretario UGL Liguria, eletto per Genova nel 2004, allo scadere dei 25 anni di Aloia stesso. Di Bozzi Sentieri ricordo -straordinario atto d’amore da presidente della Fondazione Colombo- l’eccezionale valorizzazione a Liguria Spazio Aperto di ogni angolo, paese e città di questa nostra terra riguardo storia, protagonisti, prodotti. Di Rivabella basti ricordare gli incarichi direttivi in un’azienda di credito internazionale.

Dove va Cisnal-Ugl dopo 60 anni? Ce lo indica l’effige di Filippo Corridoni, scelta a simbolo di tradizione mazziniana e anticlassista, di solidarismo d’impronta cattolica e che oggi parla il linguaggio di partecipazione e ridistribuzione degli utili ai lavoratori.

Corridoni fu l’Arcangelo Sindacalista, il rivoluzionario socialista trascinatore con le idee di operai e contadini, che ebbe processi, che allo scoppio della I Guerra Mondiale era in carcere, che, ucciso in Carso, ebbe la medaglia d’oro.

Nei 60 anni tante le battaglie: il primo segretario generale Giuseppe Landi fu nel 1926 tra i promotori delle Scuole sindacali per formare una nuova coscienza sociale. Non solo, la tosta Renata Polverini, già segretaria generale, è stata prima donna alla guida di una confederazione “storica”. Si deve alla Cisnal-UGL l’idea del sindacato come “avanguardia di popolo”, anche lo stacco dal MSI per maggior indipendenza. In questa Italia che a sinistra resta “dei cortei e degli scioperi”, nel 1969 la Cisnal prese posizione contro quello generale, poiché gli scioperi scattavano sempre al rinnovo del contratto di lavoro ed era un tentativo per aprire ai comunisti in Parlamento. L’opposizione si attirò l’attacco fisico, che d’altra parte c’era stato fin dalla nascita: da Valpolcevera a Sampierdarena, a Cornigliano, zone operaie, molti lavoratori uccisi o oggetto di violenze.

Alcuni episodi: 1949 operai comunisti aggrediscono lavoratrici dei Sindacati Liberi nei pressi della Miralanza; 1950 –Vertenza S. Giorgio- lavoratori non aderenti alla Fiom sono percossi in Piazza Dante; 1950 sono condannati a nove mesi di reclusione gli aggressori di Giorgio Cereghino dei Cantieri OARN colpevole di aver cooperato alla preparazione della “Peregrinatio Mariae”.

E si continua: nel 1970 Ugo Venturini che partecipava ad un comizio di Almirante è ucciso da “teppisti di osservanza comunista”. Seguono gli anni di piombo: nel 1979 è ucciso dalla Br.R. Guido Rossa, sindacalista della Fiom CGIL all’Italsider e militante comunista che aveva denunciato “il postino” delle Brigate all’interno della Fabbrica. Denunciare era combattere la violenza che certa sinistra (in malafede) allora tentava accreditare come “nera o fascista”.

In proposito un mio ricordo, da insegnante volontaria al doposcuola nella Chiesa di via Del Commercio. Il sacerdote, don Glauco, considerato prete-operaio, capace di ricuperare per strada i ragazzini che bigiavano, quando uno di loro disse “Domani è festa!, a scuola si sciopera per Rossa”, gli tuonò: “Domani è lutto!” Ricordare oggi è capire anche la paura che le Brigate Rosse suscitavano ai tanti, onesti e disarmati: vili cecchini in agguato contro inermi!

                         Maria Luisa Bressani

Destra storica: eroismo ed ideali!

Premetto alla rassegna l'intervista-ritratto che feci a don Berto (prete partigiano), cappellano della Divisione Garibaldi Mingo che si commosse per il figlio fascista della "donna della pesa", primo giustiziato sotto i suoi occhi perché non  volle abiurare la sua fede e che espresse altri concetti controcorrente alla vulgata storica che mi donò quel giorno dell'intervista.

    

Perché monsignor Bartolomeo Ferrari, oggi di 93 anni, detto don Berto quando tra il 1944/45 visse sui monti con la Divisione Garibaldina Mingo, diventò cappellano partigiano?

<<Non vorrei sembrare più di quel che sono, ma i miei maestri in seminario, Emilio Guano, Franco Costa, Siri e Lercaro, mi avevano insegnato un po’ di spirito critico verso il fascismo. C’erano state perquisizioni alle sedi di Azione Cattolica con i Crocifissi gettati a terra …

Poi fu la quotidianità ad educarmi. Presi messa nel ’36, andai a Santa Maria della Neve di Bolzaneto. A sera passavo a salutare gli operai che uscivano dalle Ferriere e qualcuno si scusava di non darmi la mano: “Sono troppo sporco…”, era il senso del rispetto. Scoppia la guerra e la processione di madri con figli richiamati; avevano meno di vent’anni, di qualcuno subito non si ebbe più notizia>>.

Tra gli episodi che lo segnano l’incontro con il comunista Maffei che gli chiede d’incontrarsi con i compagni in chiesa. Dà il permesso ma consiglia: <<Se viene un’ispezione mettetevi a pregare>>. <<Non so come si fa>>, risponde l’uomo. Ne celebrerà il funerale nel dicembre ’43 dopo la fucilazione al Forte di San Martino con il cugino diciottenne di monsignor Livraghi. Un atto di coraggio; poco prima a Sestri era stato impedito il funerale di un partigiano circondando la chiesa con mitragliatrici.

Preso di mira dalle SS per la sua inclinazione ad aiutare i deboli, va dai partigiani con il consenso implicito del cardinal Boetto: <<Non ti posso dire di sì, ma anche quei ragazzi hanno bisogno di Dio>>. Un altro incontro, nel dicembre del ’44, con Nando camicia nera di 22 anni giustiziato dopo un processo sui monti, ci mostra il Berto sacerdote di tutti. Il ragazzo, figlio di madre vedova, era andato in Russia da volontario, rimpatriato per una pallottola in un polmone, viene poi preso prigioniero. Nel confessarsi gli dice: <<Se vi avessi conosciuto prima sarei anch’io partigiano, però muoio da fascista perché la fede di un uomo non si cambia in un giorno>>. Lo ricorda come un gigante, illuminato nella notte con torce dal basso, mentre grida morendo:<<Viva l’Italia libera e indipendente>>.

A guerra finita don Berto si recava in carcere a Marassi, in particolare dai due partigiani della Buranello che avevano ucciso dei carabinieri. Se qualche squadrista chiedeva di dar notizie alla sua famiglia, lo faceva. Teneva conferenze (dalle 80 alle 90 tra il ’45 e il ’46), lo chiamavano il “prete rosso” e quindi, ponendosi il problema, si recò da Siri che gli disse: <<Vai e parla da prete!>>

In quei tempi accesi, i compagni assoldarono un killer per eliminarlo. Sapeva troppe cose, non era dei loro, era il Berto che nel giornale della Mingo, quando gli avevano passato da stampare un volantino che cominciava con “il compagno Stalin”, aveva tolto la parola “compagno”, non sentendolo tale. Quel giornale, da lui pubblicato e diretto per 14 numeri fino alla liberazione, si chiamava “Il Ribelle–il Patriota” e il sottotitolo del primo (dicembre ’44) precisava: <<Esce quando può e quando vuole>>.

Don Berto credeva nei compagni di strada, nell’amicizia; la sua è anche storia di affetti profondi. La sorella, sempre pronta ad aiutarlo, dopo il rastrellamento di Olbicella torna a casa piangendo dirotto (le hanno detto che lui era tra le 23 vittime), ma la madre la consola:<<Sta bene, se no l’avrei sentito qui>>, e si fa segno al cuore.

Fu molto amico di don Carlin Bruzzone, parroco di Borzoli che aiutava i prigionieri di qualsiasi parte. Quando suonava l’allarme, con una pistola sotto la tonaca, raggiungeva la sentinella di guardia al deposito di carburante per impedirgli di farlo saltare se, per ordini ricevuti, avesse acceso la miccia: la sua Borzoli non poteva saltare in aria!

Fu il prete che nel nasconderlo in canonica gli disse: <<Qui sei tranquillo, al pianterreno ci sono le SS, al primo piano ci siamo noi e in soffitta nascosti… i partigiani>>.

Maria Luisa Bressani

 

 

 

Don Berto cappellano della Mingo, prete partigiano ma anche di tutti: i comunisti volevano farlo fuori. Il Giornale 20 luglio 2004

Genova e i suoi caduti di Padre Celso Da Favale

Un grande libro di memoria Genova e i suoi caduti di Padre Celso Da Favale.

Grande perché ricorda i 4675 genovesi, caduti nella I Guerra mondiale, i cui nomi stanno nella Cripta sotto l’Arco di piazza Della Vittoria. Grande perché in suggestive foto ripropone non solo l’Arco opera di Marcello Piacentini ma anche le sculture e i bassorilievi di Dazzi, De Albertis, Prini con effetto dell’Arte che oltrepassa i tempi. Come in un film ci scorrono innanzi le statue “Le Fame” di Arturo Dazzi  (La poesia lirica, La bucolica, La spada, Lo scudo, ecc.), i suoi realistici momenti di guerra con il soccorso prestato dalla “Croce Rossa”, la “Messa al campo”, il “Corpo a corpo” e altri tragici momenti; nella Cripta il “Crocifisso” di Edoardo De Albertis, il “San Giorgio” e gli angeli delle “Vittorie” di Giovanni Prini.

L’emozione cresce attraverso testimonianze d’epoca. In un articolo del Secolo XIX sull’inaugurazione del monumento, 31 maggio 1931, Re Vittorio Emanuele III rievoca i caduti con la parola “Presenti”. Come se questi rispondessero all’appello con la stessa suggestione di parole di Sant’Agostino in una targa commmemorativa, apposta dopo, dalla “Città di Genova per i caduti della guerra del 1940/45”: “Coloro che ci hanno lasciati non sono degli assenti, sono degli invisibili che tengono i loro occhi pieni di gloria fissi nei nostri pieni di lacrime”. Non è retorica se quel “Presente/Presenti” ritorna -quasi metafora del nostro vivere- con i nomi dei consiglieri comunali, presenti in aula con il sindaco Pericu, nella Delibera del 26 marzo 2003 che, grazie al cosigliere Bernabò Brea di Alleanza Nazionale, ritratta la precedente di sospensione del sussidio di euro 129 e 11  centesimi: le 250mila lire annue fissate da Benito Mussolini per far celebrare alla domenica la Messa nella Cripta. In pratica solo 40 lire a Messa, ma tant’è! Solo 40 lire però importanti se un padre avesse accompagnato i figli a quella Messa per educarli al ricordo come si fa nel condurli ad un Museo.

Grande questo libro per altri due motivi di testimonianza. Il libro ricorda i Cappellani militari: i sacerdoti richiamati nella grande guerra furono 2200, ne caddero 102, altri 747 morirono per cause di servizio, 795 i feriti, molti i decorati. Da una bella foto i dieci Cappellani, addetti alla celebrazione della Messa in Cripta, ci guardano con occhi limpidi e segue il racconto della vita di alcuni molto meritevoli e anche la memoria dei 300 Vigili del Fuoco che con il loro Cappellano Mychael F. Judge dell’ordine dei Frati Minori morirono l’11 settembre 2001 sotto le macerie delle Twin Tower. Segue la lunga storia dei Cappuccini liguri, Cappellani militari già sulle galee genovesi a Lepanto nel 1571 o nella guerra del Duca di Savoia nel 1603 contro Ginevra e in altri momenti storici nodali.

Grande infine questo libro per tre Omelie dell’autore, riportate nelle ultime pagine. Il Cappuccino Padre Celso Favale  si è adoperato per continuare a far celebrare la Messa nella Cripta e per la cura di questa; all’attivo ha altri libri di testimonianza, tra cui: Il mio paese, Favale di Malvaro capitale degli emigranti, I Patroni e le Preghiere delle Forze Armate, la Messa del Malato.

Per il lettore è in queste tre Omelie il momento più emozionante e controcorrente in una storia genovese, di oblio e d’incuria con degrado del Monumento e con lo sfregio di siringhe abbandonate da tossici senza ideali contro il mal di vivere. L’Omelia per il 62° anniversario della morte di  Mussolini  ce ne ricorda alcuni meriti e una frase di Pertini quando seppe che era stato arrestato: “Fatelo morire come un cane!” Si perdona il partigiano, ma alla fine la storia -negli occhi dei testimoni- trova un suo riscatto come in queste parole: “Mussolini ha lasciato l’Italia un po’ meno povera di come l’ha trovata”.

La seconda Omelia ci ridà Luigi Ferraro medaglia d’oro al valor militare, uomo “semplice, umile, molto umano”.

La terza il 15 aprile 2007 è in memoria di Fabrizio Quattrocchi: “Proveniente da un’ottima famiglia, cresciuto alla scuola di lavoro, rettitudine, dovere quotidiano ed anche d’amor di Patria... Mentre altri nella sua stessa situazione hanno perduto al faccia, lui ha rifiutato la mortificazione del ricatto ed ha offerto la sua giovane vita da Italiano vero, da eroe”. Così Padre Celso, da testimone autentico del nostro tempo e nell’infuriare di polemiche di un’Italia cialtrona. Ricordate come da alcuni Quattrocchi fosse definito “mercenario”? Gran libro per non dimenticare!

                    Maria Luisa Bressani

Proscritti di Piero Vassallo. Il Giornale 12 giugno 2011

In questa recensione segnalo il nome di Arillo dimenticato da Levi nella recensione Resistenza a Genova per precisare contro un mio compagno di liceo che sosteneva essere insignificante l'opera di Arillo perché pensando al recente fatto della Concordia era molto più salvifico per Genova togliere di mezzo le navi che potevano ostruire il porto e io mi meraviglio assai di questa "protervia" tardiva e persistente verso inermi che sarebbero saltati in aria, mentre se i traffici di un porto riprendono dopo, nel tempo, chi è vivo può sempre ricostruire e a trovare come mangiare. E' questa dimenticanza umana, verso la vita umana sacrificata ad azioni di guerra come si è visto in diverse stragi, che non posso accettare da parte della tradizione partigiana e di chi ne esalta questo aspetto.

Quanto alla definizione sottolineata in rosso di chi definì i DC cleptomani inserisco ora una mia recensione al libro del bravo giornalista Paolo Lingua su Taviani e vederete come nella Genova del tempo tutti i posti fossero occupati per via politica. Anche questo mi sembra inaccettabile mentre partiti come la Dc e il Pci nelle sue varie declinazioni successive non hanno mai dismesso questa prassi. Ecco perché le parole di Popolo della Libertà mi sono risuonate nuove ma anche tutte le parole che ridanno voce al cittadino e non lo considerano interessante solo per il suo voto.

 

Colloqui con Paolo Emilio Taviani, 1969/2001 di Paolo Lingua

“Colloqui con Paolo Emilio Taviani” (De Ferrari) di Paolo Lingua racchiude trent’anni di conversazioni -  1969/2001 - sulla storia politica della Liguria e d’Italia. A Lingua poco prima di morire, a 89 anni, Taviani mandò le pagine in bozza del suo “diario”  (Il Mulino stava per pubblicarlo) sulle “vendette” partigiane nel ’45 in Genova. Di matrice comunista contro fascisti e fiancheggiatori furono “spesso vendette personali” come è scritto nel libro. Nel primo capitolo oltre alla formazione politica di Taviani, ricorrono la Resistenza e il dopoguerra, ma fin da questo “antipasto” colpisce uno sbrigativo voler voltar pagina su quei fatti nella dichiarazione: “Fu Adamoli a capire che la questione andava chiusa rapidamente. I comunisti più avveduti capivano che gli Alleati non avrebbero tollerato a lungo esecuzioni e vendette...” E un elogio fideistico: “A Genova i comunisti anche negli anni della guerra fredda ebbero sempre i piedi per terra”.

Il libro riserva altri bocconi indigesti tra cui  l’intervista di Scalfari direttore dell’Espresso (che doveva restare conversazione privata) sull’origine e il marchio ideologico delle stragi nel periodo degli “opposti estremismi”. Nell’intervista la matrice è definita “di destra” e Taviani non smentì: crebbe poi il numero di “fessi” che disse “nere” le Br rosse.

Nel capitolo “Misteri” Taviani (per 21 anni al Governo - ’53/’74 - cinque alla Difesa e otto all’Interno per cui è impossibile sostenere che il ministro fosse “all’oscuro dei fatti”) ne declassa alcuni ad incidenti: la morte del partigiano “Bisagno”, la morte di Enrico Mattei.Ridimensiona a montatura  artificiosa il “golpe” De Lorenzo. Del generale ricorda che dopo aver vissuto della sua pensione morì lasciando come eredità più vistosa un cavallo di razza (l’equitazione era stata sua antica passione).

Altro boccone indigesto per il lettore che vuol sapere gli “spaghetti in salsa cilena”: suo sogno d’importare l’esperimento rivoluzionario del golpe di Santiago (11 settembre 1973) per applicarlo da noi come alleanza di socialisti, comunisti e democristiani di sinistra.

Anche un boccone, Tangentopoli esplosa alla chiusura delle Colombiane, fu indigesto a Taviani.  Precisava non coinvolse i parlamentari della vecchia Dc ligure.

Brillano nel libro quattro antagonisti di Taviani: Roberto Lucifredi “avversario duro ma leale”, il cardinale Siri e il suo braccio destro al Nuovo Cittadino, il direttore Luigi Andrianopoli. Ne ho detti tre, ma prima di chiamare in causa il quarto, evidenzio la pagina 45 in cui Lingua, osservatore politico di razza, ricorda che nel 1966 quando Taviani fu ministro dell’Interno suoi fiduciari restarono “a reggere in Liguria le categorie professionali più importanti, Camere di Commercio, Confindustria, Casse di Risparmio. I partiti alleati vennero inseriti e aiutati: i socialisti, l’alleato più forte, ebbero dappertutto vicesindaci e vicepresidenti...” Un sistema capillare di occupazione che fa capire perché questa Dc sarebbe implosa e perché da allora “i partiti” (non le formazioni di popolo libero) avrebbero avuto il fiato corto. E vengo all’ultimo “antagonista”, Pertini, pur in rapporti di stima con Taviani. Il Pertini che surclassandolo ebbe la Presidenza della Repubblica anche se sul piano del partito contava poco (leggi p. 35: tessere e sezioni). Quattro antagonisti con in comune il carisma che mancò ai molti suoi “delfini”.

Nel libro anche il suo “testamento”: adesione e fedeltà al Partito popolare italiano, cui dar ali in Europa, da intendersi in continuità alla vecchia Dc. In questo libro l’arte di scrivere fa digerire la storia politica con lo scintillio di osservazioni intelligenti. In questo senso due citazioni, una di Lingua: “Mazzini un presbite in un paese di miopi in malafede”, l’altra di Taviani sul primato della scoperta di Colombo da contrapporre ai Vikinghi: “E’ scopritore chi torna e racconta e spiega quello che ha visto”. Non chi vi è capitato e non ha capito nulla.

                       Maria Luisa Bressani

Icone della falsa Destra di Piero Vassallo

Icone della falsa destra di Piero Vassallo (Solfanelli Editore - Chieti) ha in copertina “La nave dei folli” di Bosch, monito sulla pazzia di certa politica italiana. Vassallo ne esamina le radici storiche da filosfo per concludere, già in apertura di libro, sull’attualità. Capire meglio i giorni nostri interesserà più lettori.

Dall’iniziale approccio: “I centri culturali costituiti dagli intellettuali di Gianfranco Fini sotto l’insegna della confusione tra politica classica e scienza comiziale (il vaniloquio sofistico), tra aristocrazia e casta parassitaria, tra tradizione e cascame regressista, costituiscono l’ostacolo principale all’affermazione di una vera destra”.

Più avanti ricorrono altri due approcci alla questione e servono entrambi come un  vero “inizio” per capire. A pagina 99 (quasi in fine del volumetto di 115 pagine) l’affermazione su “un centrodestra che ha bisogno di una seria riflessione sulle sue radici e di una squadra di studiosi per approfondire, sostenere realistiche intuizioni che alimentano il partito di Berlusconi”. Per far capire che “l’alternativa a Berlusconi non è la frivolezza rampante nella falsa destra ma il nichilismo di Emma Bonino”. L’autore ne paragona il pensiero alle catastrofi moderne in libera uscita dagli incubi umani dipinti da Bosch (parole che stringono un forte legame con il primo messaggio lanciato in copertina).

Un altro “inizio” si legge in un fatto storico non così lontano se la nostra Sindaco voleva riproporne un’esaltazione 40 anni dopo ed è “Tambroni a Genova nel 1960”. Era stato nominato capo del governo da Gronchi, Presidente della Repubblica, grazie al voto determinante dei deputati missini. La sinistra DC persuase tre ministri a dimettersi, ma Gronchi confermò l’incarico a Tambroni e “per la prima volta dal ’45 l’arrogante sinistra democristiana  si sentì spiazzata e umiliata”. L’incarico gli era stato affidato per gestire gli affari ordinari durante le Olimpiadi a Roma, ma (e l’analisi politica si eleva!) Tambroni concepì “una politica d’ampio respiro, per trasferire una parte dell’ingente ricchezza prodotta dal miracolo economico in benefici (riduzione dei prezzi di alcuni generi di prima necessità e della benzina) a favore delle famiglie itlialiane”. Vassallo osserva: “Un governo di destra che diffonde il benessere ed ottiene il consenso dei lavoratori era un doppio schiaffo al volto dogmatico dell’utopia comunista contemplante lo sfascio della famiglia tradizionale”.

I fatti sono noti. Portarono un’emarginazione della destra per 33 anni, finita grazie alla dichiarazione di Berlusconi a favore di Fini. Ancora Vassallo: “Rievocare la caduta di Tambroni fa capire la spaventosa pericolosità degli esponenti della destra che lavorano per abbattere Berlusconi”.

Oltre a questi tre “Incipit”, tutta un’approfondita analisi che esplora false “Icone” della destra, cui il libro dedica singoli capitoli: Cristina Campo, Simone Weil, Réné Guénon, Emil Cioran, “Nietzsche o l’eclissi della ragione”, “Evoliani di sinistra & Gramsciani di destra”, “Gómez Dávila un Pitigrilli senza sorriso”. E’ una parte specialistica e di ardua speculazione che interesserà chi è più addentro in studi di filosofia, storia ed editoria moderne. Per tutti vale una frase di Liana Millu, maestra elementare: “Vado anche dove non capisco per mio stimolo ad imparare e documentarmi”. Un aiuto sono - come  numeri tracciati in un pampano su cui saltare per appoggio – fulminee riflessioni di Vassallo sull’attualità: “Il brodo di cultura per ponti tra sinistra e destra è l’estremismo”, “Il conformismo e la superficialità circolanti nella neodestra contribuiscono alla sopravvivenza della riforme liberatorie di conio sessantottino: sfascio della famiglia, culto dell’adulterio, sostegno statale alla stampa pornografica, legalizzazione dell’aborto, della droga, canonizzazione della pederastia”. L’aiuto più grande viene dal non dimenticare che nel biennio 1945-‘46 furono sterminati 30mila fascisti e ci fu l’epurazione dei più atutorevoli pensatori d’area. Dal ricordarci che l’Unità avvenne anche perché le casse del Regno sabaudo erano vuote e quelle del Re di Napoli straricche. Perciò data commemorativa dovrebbe essere non il 5 maggio (inizio di una sciagurata guerra civile) ma l’11 febbraio 1929 dei Patti Lateranensi che “ha restituito l’Italia a Cristo e la pace agli italiani”. In quest’ottica  rivendicare le autonomie regionali significa chiudere la parentesi del centralismo amministrativo, ultimo residuo della cultura totalitaria che infestò l’età moderna a partire dalla rivoluzione giacobina e napoleonica. Di qui la legittimità delle tesi sostenute dalla Lega e in questo senso è la frase conclusiva del libro: “Quando si considera la direzione riformista dell’economia politica di Tremonti e il patto sottoscritto da Cota con i cattolici tradizionalisti, non si può non riconoscere che il futuro della vera destra è già cominciato”.             

                            Maria Luisa Bressani

 

Di Paolo Armaroli è appena uscito Lo strano caso di Fini e il suo doppio nell’Italia che cambia (Tutte le anomalie della XVI legislatura e oltre), edito da Mauro Pagliai (Polistampa, www.leonardolibri.com). Armaroli, per trent’anni ordinario di Diritto pubblico comparato all’Università di Genova, deputato parlamentare (1996-2001, XIII legislatura,), capogruppo An della Commissione affari costituzionali e con altri incarichi politici di rilievo, ci consegna un libro di memoria della recente Storia parlamentare. Storia precisa e non di parte.

Armaroli si attiene ai fatti e non commenta a parte qualche scintillante battuta come “sembra un prefisso telefonico” per la percentuale dello 0,46% del partito di Fini confluito in “Lista civica” di Monti o “l’occhio di triglia” ai grillini di Bersani, il democratico dal sigaro che a me richiama Gambadilegno in Topolino. (Ma nessuno gli rimprovera il pernicioso incitamento al fumo?).

Fini, definito per il carattere “surgelato findus”, ci è presentato così: “Segretario del Msi–Destra nazionale, per 13 anni (1995/2008) presidente Alleanza Nazionale, con Berlusconi cofondatore del PDL preferisce mettere a richio la carriere politica per giocarsi la carta di Presidente della Camera.  Diventa in dissenso rispetto all’area d’appartenenza governativa su “laicità, rapporti Stato e Chiesa, caso Englaro, reato d’immigrazione clandestina”. Opera secondo un “patriottismo costituzionale che è solo una porzione di quello nazionale con radici nel Risorgimento”.

Quando avviene la completa trasformazione di Fini – dottor Jekill in Mister Hyde (sindrome descritta da Stevenson, che Armaroli ci richiama?).  Fini dichiara d’essere arbitro imparziale alla Camera e da presidente ha fondamentale funzione nel rallentare, approvare emendamenti (in proposito le pagine 39/40), però – dice – “fuori non gli si può negare il diritto di dire la sua”. Il 5 luglio 2011 quando Napolitano deplora la norma salva Finivest, Fini non si trattiene dal censurare l’operato del presidente del Consiglio mentre da presidente della Camera non dovrebbe prender partito su questioni all’ordine del giorno parlamentare. Non solo, abbonda in promesse da marinaio: le sue dimissioni, tante volte annunciate. La  mutazione genetica in Hyde secondo Armaroli si fa più evidente, ma  vorrei, a titolo personale, ricordare di Napolitano alcuni silenzi, alcune esternazioni che hanno fatto scrivere di “presidenzialismo” in atto. Fini deve aver creduto di poter stare sotto ali protettive. Nella “parola ai lettori” su questo Giornale ho trovato un commento di certo Pier Francesco Pompei su Napolitano con titolo: “Lo stalinista che volle farsi re”. In sintonia anche commenti di bravi giornalisti sul suo primo settennato “non così buono come si pensa”, non da “salvatore della Patria”. A me stupisce la sopportazione per le sue prediche paternalistiche.

Il libro di Armaroli è da centellinare, specie nelle pagine che riguardano i ribaltoni tra cui l’avviso di comparizione a Berlusconi (da parte dei magistrati di Milano, preannunciato dal Corriere della Sera), nel novembre 1994 durante la conferenza mondiale sulla criminalità a Napoli. Da italiana mi sentii umiliata. Altri ribaltoni: di Fancesco Cossiga dopo la caduta del primo governo Prodi (ottobre 1998) che permette a D’Alema di diventare per due volte di seguito presidente del Consiglio, di Fini che passa all’opposizione nel 2010. Un altro, sui generis, quello dell’appoggio dei senatori a vita al secondo ministero Prodi (2006/08).  Niente di nuovo se Armaroli, coltissimo, ci ricorda il Dictionnaire des girouettes (dei voltagabbana) comparso nel 1815 dopo l’abdicazione di Napoleone e commenta: “Basterebbe che il rappresentante del popolo che passa da una coalizione all’altra decada dal mandato parlamentare e sia sostituito secondo la legge elettorale vigente”. Annota pure: “Chi scrive ci ha provato nella XIII legislatura, ma la mia proposta di legge costituzionale incontrò ostilità del centrosinistra (che si avvantaggiava dai ribaltoni) ma anche del centrodestra che la bollò come illiberale”.

Una sommessa riflessione su quando Fini (fatto ricordato da Armaroli) si scaglia contro la moglie di Bossi in quanto babypensionata e Reguzzoni gli ribatte che il PDL non ha mai citato sua moglie, Tulliani, “coinvolta in fatti di gossip e giudiziari”. Penso che la mutazione genetica di Fini sia avvenuta in concomitanza al rapporto con la seconda moglie. Mi viene in mente una battuta di Cossiga che, richiesto su che carta del mazzo avrebbe assegnato a Fini, rispose sornione “asso di cuori”. Ma gli elettori avrebbero voluto un politico di cuore, leale e siamo contenti di dimenticarlo.

                         Maria Luisa Bressani

                  

Lo strano caso di Fini e il suo doppio nell'Italia che cambia di Paolo Armaroli

Le due recensioni precedenti dimostrano che bisogna essere  critici sulla storia della destra, però tornando all'antico a chi di destra è sempre stato ed ha appunto creduto in quegli ideali di cui parlavo, in questo senso si legga il libro di Raffaele Francesca che non è più.

Antirevisionismo di un "Revisionista" di Raffaele Francesca

Da Raffaele Francesca in Antirevisionismo di un “Revisionista” (Appunti di storia contemporanea, “Pagine”, v. www.poligraficalaziale.it): “...mentre comunemente viene indicato come ‘revisionista’ chi si oppone alla ufficiale vulgata storiografica, mi sembra “revisionista” chi nega, falsifica, tace, sbianchetta, inventa, presentando come verità storica ciò che verità storica non è”.

L’autore, pubblicista (non si consideri qualifica riduttiva da quando Ugo Stille, pubblicista, diresse – e bene!- il “Corriere della Sera”), morto nel 2010, offre con questo libro - aureo Testamento di un libero opinionista - una preziosa riflessione sulla storia recente. Il lettore scoprirà da sé quanto siamo stati turlupinati e capirà perché questo colto collaboratore di prestigiosi giornali non sia stato assunto dalle testate genovesi: troppo scomodo!

Genova ha una storia di città sinistrorsa, che si va facendo “sinistra” per la nostra sicurezza. Mi vengono in mente le devastazioni del G8, le scritte di sfregio dei manifestanti con don Gallo sulle pareti dell’Assunta di Nervi. Mi sovviene l’avvocato Giovanna Galeppini che un extracomunitario aggredì mentre andava a S. Maria di Castello e più non si riprese.

Sui Centri sociali, oggi con sedi sponsorizzate dal Comune,  l’autore ha scritto (p.130): “Violenta accolita di anarcoidi, teppisti nullafacenti che qualcuno sovvenziona anche con i nostri soldi”. Nel 2004 il Comune elargì a don Gallo 178mila euro, nel 2010 per i suoi 80 anni la Regione altri 10mila, tutti tolti dalle tasche dei cittadini. Nel menzionare a proposito del “don” l’articolo “Tempo di bilanci, per chi ha creato dal niente una struttura che produce redditi e un giro d’affari di tre miliardi l’anno” (Bruno Viani, “Secolo XIX” nel 2000), ricorda pure alcune sue iniziative: “Predicare la diffusione delle droghe leggere, seminare piantine di marijuana, distribuire ai ragazzi siringhe e preservativi, aiutare le prostitute albanesi ad abortire..., ospitalità al brigatista rosso Rocco Micaletto”. Ma già le Brigate Rosse erano “sedicenti tali” per intellettuali, utili idioti.

Mi sono dilungata sul “don” perché quando un libro m’incuriosisce lo apro a caso prima di leggerlo tutto. Mi sono capitate le pagine su di lui e nel capitolo precedente la “Replica a un vecchio partigiano comunista” sulle Foibe, un negazionista come quelli che (nonostante l’Europa unita) l’ex Jugoslavia continua a voler accreditare.

Il libro inizia dagli ultimi atti della guerra e dalla liberazione. Alcuni titoli: “I partigiani ‘salvano’ il porto di Genova, mettendone a rischio l’incolumità”, un fatto che si apparenta all’esplosione di San Benigno (ottobre 1944), anch’essa opera di partigiani. Un altro capitolo (p. 162): “Giustizia per i morti di San Benigno. La magistratura si rifiuta di perseguire gli autori della strage di 2000 innocenti”. Quasi fotocopia d’irresponsabilità, le pagine sulla strage causata dai “patrioti” a Sant’Anna di Stazzema.

E poco prima di questa una “chicca” sul comunista Napolitano, indignato nel 1974 perché l’espusione di Solzhenitsyn dalla Russia fu accompagnata -secondo lui- dal solito polverone propagandistico. Vuol portarci “una riflessione seria e oggettiva” (come quelle cui ci ha abituato da Capo dello Stato) sulle “degenerazioni provocate in Italia dallo sviluppo monopolistico e dagli arbitri padronali”, una riflessione “contro abusi polizieschi e giudiziari, contro la sopravvivenza di norme giuridiche fasciste che colpiscono come ‘vilipendio’ delle istituzioni i reati d’opinione”. Non solo si dimentica l’articolo XII delle “Disposizioni transitorie e finali” della nostra Costituzione che vieta la riorganizzazione del partito “fascista” ma, quanto al lessico, dell’Italia scrive “paese” con la minuscola, mentre dà la maiuscola allo “Stato”, l’Urss, che lo scrittore sfidò.

A Napolitano, come a don Gallo, e ai comunisti di casa nostra, l’autore ricorda i morti per le purghe staliniane e per i regimi comunisti nel mondo (200milioni). Al “prete comunista”, ricorda i tanti preti uccisi in Russia, nella guerra civile spagnola, nel triangolo della morte italiano. Ricorda, a fine guerra, la morte in croce inflitta  da partigiani comunisti al sottotenente bergamasco Gino Lorenzi, che non volle abiurare la sua Fede.

L’autore non risparmia ricordi su Pannella che portò in Parlamento Toni Negri e questi percepisce 3108 euro, cinque volte più della pensione media di vecchiaia di un operario (v. Tabelle INPS), o su Taviani e la sua versione “fantasy” sulla battaglia di Piazza De Ferrari (23 aprile 1945): “La battaglia che non c’è mai stata”. Ricorda una frase di Marx: “Buttate alle ortiche onestà, integrità. Nel partito si appoggi ciò che fa avanzare, senza noiosi scrupoli morali”.

A chi durante la presentazione dei suoi libri lo definiva fascista, l’autore rispondeva: “L’importante è accertare se ciò che affermo corrisponda alla verità opppure no”.

                         Maria Luisa Bressani

 

Dal D'Oria, Liceo classico di Genova, sono usciti un sacco di personaggi illustri e ricordo Fantozzi-Villaggio, Lauzi, Paolo Fresco (amministratore delegato FIAT), Bianca Montale e anche l'unica testa pensante della sinistra cioè D'Alema. Mi stupisco quindi di miei antichi compagni, pur rispettando tutte le idee, che nulla sanno di Arillo e dello sminamento delle banchine del Porto di Genova, che sono infatuati di don Gallo, che da ex Dc si sono subito spesi per il sindaco Doria perché per loro passare dalla Dc al Pd è naturale nonostante volaori diversi, però come le recensioni precedenti hanno anche fatto una critica alla destra e alla confusione nata dal '68, altre teste pensanti abbondano tra gli italiani come dimostrano le due prossime recensioni di due monarchici doc, persone che in genere sono più galantuomini di altri. Una è incentrato sul broglio del referendum da cui nacque la nostra Repubblica, l'altra dimostra cosa hanno patito gli italiani quando siano finiti sotto il regime comunista.

Gli Ebrei una vicenda umana anche planetaria; Andrea Doria ed Emanuele Filiberto di Savoia

La coscienza degli uomini guida la Storia verso un suo cammino provvidenziale: mi sembrano voce di coscienza due libri di Mauro Navone Gli Ebrei una vicenda umana anche planetaria; Andra Doria ed Emanuele Filiberto di Savoia (pervenuto in redazione nell'Intervista all'autore di Michele D'Elia, direttore di "Nuove Sintesi"). I libri sono stati pubblicati in forma elettronica e come Ex Libris da Simonelli di Milano (www.eBooksItalia.com).

Una recensione, anche a leggere tutto come uso, si può ridare per sintesi o per spigolature (spunti). Raccolgo alcune spigolature, iniziando con dati numerici sul Referendum istituzionale del 2 giugno 1946, riportati in entrambe le pubblicazioni. I nostri libri scolastici di Storia non li riportano mai.

Gli elettori aventi diritto furono 28.005.449, gli elettori che optarono per la Repubblica 12.672.767, cioè il 45,25% degli italiani aventi diritto, con esclusione dei residenti nella Provincia di Bolzano e in altre cinque della Venezia Giulia, Trieste compresa, allora escluse dal territorio nazionale. (Inciso personale: sono coloro che verso la frontiera orientale con il regime comunista sentirono di più l'italianità anche perché spesso "giustiziati o angheriati come fascisti", mentre testimoni del tempo che  ascoltai, mi dissero: "eravamo monarchici").

Al Referendum non votarono quelli ancora prigionieri di guerra, né i residenti nelle ex-colonie. Il Referendum fu perciò svolto in un tempo non giusto, pur se giustificato da tensioni di vera emergenza. Il Governo De Gasperi lo considerò conclusivo prima che la Corte di Cassazione  desse risultati definitivi e si pronunciase sul metodo di calcolo della maggioranza e sulle contestazioni. Per validità avrebbe dovuto esser suffragato da una maggioranza assoluta, unica vera espressione di un Popolo.

Dal libro sugli Ebrei, che ne traccia la storia dalle origini e dà i dati sull'Olocausto (seimilioni) Paese per Paese dei 18 europei, in una semplice domanda di Navone un'altra spigolatura: "Perché non s'intervenì pur sapendo delle camere a gas?" Il primo lager nazista di sterminio fu quello di Majdnek nel 1942. "Nel tempo non corto del funzionamento di queste camere di morte dal 1942 al '45 chi indubbiamente sapeva e poteva distruggerle con semplici azioni aeree mirate di qualche apparecchio a volo radente  dotandolo di almeno due normali bombe da 250 chili di comune esplosivo, perché non intervenì?"

Altre spigolature possono riguardare le parole di Mussolini che dopo un colloqio con Hitler (18/19 giugno 1940) sostiene "il popolo tedesco aver già in sé i germi del collasso". E perché si ricorda solo l'assassinio di Matteotti (10 giugno 1924), mai quello del sindacalista mussoliniano Armando Casalini (12 settembre 1924)? Perché non si ricorda quando Filippo d'Assia, marito di Mafalda di Savoia, nell'aprile 1943 chiese ad Hitler, a Klessheim presso Salisburgo, d'aprire trattative d'armistizio con gli anglo-americani, dopo le catastrofi militari di Russia e del Nord Africa, per salvare il salvabile?

E Mafalda? Altre semplici domande di Navone la riguardano. Perché ferita ad un braccio a Buchenwald nel bombardamento del 24 agosto 1944 fu assogettata ad intervento chirugico tardivo e in modo incomprensibile dal punto di vista terapeutico? Perché già deportata sotto falso nome,  fu sepolta come donna sconosciuta nel cimitero pubblico di Weimar, con sepoltura  concessa per iniziativa di pochi che la sottrassero al forno crematorio? Nel libro quasi contraltare alla sua figura, quella della moglie di Goebbels con la conclusione: "una vita tedesca, testimonianza del rovesciamento di civiltà verso follia e assassinio".

Solo un accenno all'altro libro: la fascinazione che si stabilì tra Andrea Doria di 75 anni e il Savoia di soli 14 al primo incontro nel palazzo doriano di Fassolo alla presenza di Carlo V, quando Emanuele Filiberto chiede di partecipare alla spedizione contro i turchi.   Il Doria per la Liguria non diede il via ad una dinastia monarchica perché non ebbe figli e suo cugino  Gianettino Doria (considerato come nipote) morì nella congiura dei Fieschi; il coraggioso Savoia  rilanciò nella stima europea la dinastia.

L'ingegner Navone, nato nel Regno d'Italia, si sente tuttora legato alla dinastia audace che unì l'Italia.

           Maria Luisa Bressani

Gli italiani di Crimea nuovi documenti e testimonianze sullo sterminio

di Giulio Vignoli News Archivio 2013 UMI 16 aprile 2013

Ogni anno, il 29 gennaio, la comunità italiana di Kerch in Crimea sul Mar Nero si riunisce al molo per pregare. Per cantare “Fratelli d’Italia” e “Va, pensiero” ricordando la deportazione di massa in Kazakhistan, 1942, che Stalin ordinò per i nostri connazionali e i familiari, considerati nemici del popolo. I due terzi morirono nel tragitto di ottomila chilometri sui carri piombati, per fame e malattie. Finita la guerra dopo la denuncia dei crimini staliniani da parte di Kruscev, la maggior parte dei sopravvissuti tornò in Crimea, a mani vuote e i beni confiscati non furono restituiti.

Nel ’91 il parlamento sovietico ha approvato una mozione di condanna delle deportazioni staliniane indicando venti nazionalità da riabilitare, ma non l’italiana. A fronte di deportazioni etniche che hanno riguardato migliaia, perfino milioni d’individui, perseguitati dalla “follia criminale del comunismo” come la definisce il professor Giulio Vignoli, i 2000 italiani di Crimea sono irrelevanti.

Gli italiani di Crimea – Nuovi documenti e testimonianze sulla deportazione e lo sterminio (Edizioni Settimo Sigillo, euro 16) è il nuovo saggio di Vignoli e le voci dei testimoni sono raccolte da Giulia Giacchetti Boico. Fa seguito a L’olocausto sconosciuto. Lo sterminio degli italiani di Crimea degli stessi autori, presentato nel 2008 a Palazzo Ducale.  Nell’occasione alcuni testimoni suscitarono profonda commozione per quella comunità italiana, in Crimea dal 1830 per un flusso migratorio specie dalla Puglia, comunità che poi subì tre deportazioni tra il ’42 e il ’44.

Tuttora Giulia Boico tiene corsi d’italiano gratuiti in una stanza in affitto a spese dell’associazione Cerkio (Comunità degli Emigrati nella Regione di Kerch Italiani d’Origine).

Giulio Vignoli, già professore di Diritto Internazionale nell’Università di Genova, autore di numerosi studi sulle minoranze italiane nel mondo (i profughi istriani, giuliano e dalmati, Nizza italiana e di recente i connazionali cacciati dalla Libia) non si è mai accontentato solo di fonti scritte, cercando con viaggi personali i testimoni del tempo. Nella prefazione il giornalista Stefano Mensurati mette in risalto la sua tenacia nel rintracciare queste nostre “orme” e come però Vignoli “si sia scontrato con l’indifferenza e il fastidio dell’Italia ufficiale”. Ad inizio libro, una precisazione: l’invio – senza risposta!- del volume del 2008 (con segnalazione della data della raccomandate e della ricevuta di ritorno) a Napolitano.

Quanto al comunismo a pagina 144 un testimone, Valentino Malyscev Bruzzone di Mariupol, ricorda che dei 1500 comunisti italiani (che là si rifugiarono nel 1924 del fascismo italiano) 1200 furono fucilati. Nel 1933 suo nonno con i tre figli maschi fu rimpatriato in Italia mentre sua madre, sposata con un russo, dovette restare. Nel 1938 suo padre fu arrestato per questi legami familiari italiani, e poi fucilato. La madre venne ricoverata in una “prigione psichiatrica”, un’invenzione del NKVD (Commissariato del popolo per gli affari interni che ebbe altri nomi tra cui KGB). I prigionieri vi morivano presto o i medicinali psicotropi ne rovinavano la volontà.

A proposito dell’inaugurazione della lapide in memoria delle vittime italiane, posta nel 2007 presso San Pietroburgo, Bruzzone commenta: “Dall’Italia sono venuti più di cento loro parenti. Presente anche “un politico comunista o sedicente non più tale”, Piero Fassino, a rappresentare ufficialmente la Repubblica italiana. Che spudoratezza!”

Voglio concludere ricordando alcune delle efferatezze.

- L’illusione del Kolkos, la cooperativa agricola collettiva.

Per formarla negli anni Trenta i contadini benestanti furono espropriati e confinati in Siberia. Gli altri furono costretti ad iscriversi al Kolkos: una “servitù della gleba statale”. In un Kolkos modello, l’italiano “Sacco e Vanzetti”, Marco Simone (l’italiano che lo dirigeva) nel 1938 viene arrestato con altri connazionali per una denuncia falsa. Mandato in esilio, vi muore nel 1943.

Per la collettivizzazione forzata delle campagne, molti italiani volevano tornare in Italia. Dalle schede del consolato di Odessa per Nicola Di Fonso (che lavorava al “Sacco e Vanzetti”) è scritto: “Le scarse compartecipazioni che riceve sono appena sufficienti per pagare le forti imposte applicategli”. Per i comunisti russi, progenitori dei nostri, “paghe basse e tasse alte” sono “Metodo”.

- La lettera come civiltà.

Il testimone Demetrio Timoskin La Rocca (o Larocco) ricorda come Antonio, zio di sua nonna,  nel 1921 a vent’anni raggiunse New York e molto tempo dopo spedì loro una lettera con 100 dollari per aiutarli. In Unione Sovietica i questionari per l’iscrizione agli studi chiedevano “hai parenti all’estero?” e chi rispondeva “sì” era sospettato e discriminato. Demetrio, che ora vive in Germania, riesce poi a sapere  dello zio Antonio, poiché l’indirizzo sulla lettera era stato abraso, su Internet, un motore di democrazia come la lettera. Osserva: “Non capisco la posizione della Repubblica italiana. In Germania tutte le persone di origine tedesca ricevono non solo la cittadinanza, ma anche il risarcimento del danno morale”.

Da noi, gli unici a muoversi finora sono stati i privati con donazioni e ricerche negli archivi anagrafici e nelle diocesi delle città italiane di origine per far riconoscere l’italianità ancora negata. E’ anche la Dante Alighieri i cui primi contatti con gli italiani di Crimea risalgono al 1993 con l’istituzione di un comitato a Kerch che ora non esiste più ma sarà presto ricostituito. A Kerch è di nuovo centro di aggregazione la Chiesa cattolica, costruita nel 1830 ma sotto il comunismo adibita a palestra.

                         Maria Luisa Bressani

E' evidente che storicamente e ancor oggi dato che le radici contano destra e sinistra sono diverse. Però una domanda a chi legga: si è per caso rifugiata in Italia la Russia del prima della caduta del muro di Berlino, di prima che Eltsin - mitico! - salisse su quel carro-armato a guidare la rivolta, del prima che ritornasse cristiana?.

Cito tre casi dove hanno finito per prevalere omertà e silenzio:1) chi disse "abbiamo una banca" avrebbe dovuto essere esecrato e non chi propalò quelle parole; 2) Penati è stato forse uno di quei numi tutelari che nella romanità difendevano le case perché d'un tratto è diventato del tutto innocente; 3) il Monte dei Paschi di Siena è stato una voragine inghiotti soldi però anche qui ormai è silenzio.

E allora a me è tornata in mente questa poesia di Galich perché quella Russia da lui sperimentata sembra essersi trasferita qui da noi.

4. INDICE. POLITICA: SINISTRA, DESTRA

Francesco Giovannini        - Suor Lucia De Gasperi Il Giornale  2 marzo 2012

Vignetta di Krancic su Napolitano: I ragazzi di Budapest Il Giorale  3 giugno 2012

Andrea Gandolfo -Sandro Pertini.Dalla Nascita alla Resistenza 1896 - 1945- Il Giornale 

Rino De Stefano  - "Mia cara Marion, lettere di Pertini dal carcere alla sorella" Corriere Mercantile 

In Provincia le raccolte de Il Lavoro: testimonianza di Umberto Merani su Pertini Settimanale cattolico 11 aprile 1997

Pertini luci ed ombre Lettera a Montanelli : domanda di Nico Luxardo su Pertini Il Giornale 30 aprile 1990

SINISTRA

Giampaolo Pansa             - I vinti non dimenticano - (mia recensione inedita, ma contenta d'averla scritta, 2010, anche p. Storia)

Roberto Nicolick            - CAMPO A. Fossa 14/12 - Il Giornale 14 novembre 2010

Annamaria Fassio e Valeria Parodi - Ribelli -

IV Cammeo. Radici a Sinistra: crudeltà, esproprio proletario, ruberie,

appendere i "signori alle lanterne", cancellare la memoria, falsi processi

Silvio Ferrari              - La Morte degli altri - 2013 (V. anche pagina Autori)

Giovanni Talleri Il giorno della Memoria sia per tutte le vittime i ogni guerra e Gli slavi dal suo Sito anno 2008 (v. anche pagina Terre 3 Trieste)

Ada Grecchi                 - L'età delle passioni - Il Giornale 14 luglio 2010

Carlo Romano - Genova violenta nei poliziotteschi anni Settanta - Il Giornale  30 dicembre 2011

Enzo Costa                  - Cercati col Lanternino -

Guido Levi   - Resistenza a Genova. Momenti e figure -

Piero Vassallo Contravveleni al nichilismo Il Giornale 19 novembre 2011

V Cammeo: poteri forti, educazione distorta

Francesco Gnecchi Ruscone   - Missione Nemo - Il Giornale  7 maggio 2011

VI Cammeo: un ricordo per il prof. Gianfranco Bianchi,

la cui ricerca storica in Missione Nemo non è stata ben apprezzata

Mario Bozzi Sentieri, Ettore Rivabella-60 Anni di Cisnal/Ugl-

"Sul Comunismo" di don Luigi Stefani in "Sradicati" Firenze 1974, in  Pensiero e Azione di un Patriota dalmata, II Edizione a cura di Carlo Montani

DESTRA STORICA: IDEALI, EROISMO

Don Berto cappellano della Mingo, ma anche prete di tutti: i comunisti volevano farlo fuori Il Giornale 20 luglio 2004

Sacerdoti nella bufera della Resistenza: fu anche mattanza di una parte del clero. Il Giornale 20 luglio 2004

Alessandro Brignole Colonia di Rovegno, parroco di Alpe ucciso dai partigiani  La Trebbia 20 febbraio 2014o 

Padre Celso da Favale - Genova e i suoi Caduti Il Giornale 17 dicembre 2010

Paolo Lingua Colloqui con Paolo Emilio Taviani 1969/2001 Il Giornale 8 gennaio 2010

Piero Vassallo  - Proscritti Martiri Eroi che non sono nei libri di scuola Il Giornale 12 giugno 2011

Paolo Armaroli  - Lo strano caso di Fini e il suo doppio

                                     nell'Italia che cambia - Il Giornale 6 giugno 2013

Raffaele Francesca  - Antirevisionismo di un "Revisionista" -

Mauro Navone - Gli Ebrei una vicenda umana anche planetaria;

                         Andrea Doria ed Emanuele Filiberto -

Giulio Vignoli   - Gli italiani di Crimea - Nuovi documenti

                            e testimonianze sullo sterminio - News Archivio 2013- UMI (Unione Monarchica Italiana) 16 aprile 2013

VII Cammeo: l'Urss del "tieni la bocca chiusa",

di cui scrisse Galich è forse qui da noi, oggi?

Di Alexander Galich         - Il valzer dei cercatori d'oro -

 

 

                                                HVAR    LEONI VENEZIANI

IV Cammeo Radici a sinistra: crudeltà, esproprio proletario, ruberie, appendere "i signori alle lanterne",

cancellare la memoria, falsi processi

V Cammeo: poteri dall'esterno, educazione distorta

    

VI Cammeo: un pensiero per Gianfranco Bianchi,

la cui ricerca non è ben apprezzata in Missione Nemo

VII Cammeo: l'Urss del "tieni la bocca chiusa"

di cui scrisse Galich è forse qui da noi, oggi?

In Provincia le raccolte de Il Lavoro:

testimonianza di Umberto Merani su Pertini

Settimanale cattolico 11 aprile 1997

Lettere al Giornale, domanda di Nico Luxardo

a Montanelli su Pertini

Il Giornale 30 aprile 1990

 

Nico Luxardo: penso sia Nicolò, storico e scrittore,  a lungo  presidente Istituto Storia Patria - Zara (v. Pagina Profughi Giuliano Dalmati I Luxardo del Maraschino), mi stupisco però che Montanelli non lo abbia individuato, quindi forse un nipote dato che di persona per giornalismo (un articolo sui liquori fatti in casa proposto e accettato dalla rivista Come di Mondandori che però chiuse prima dell'uscita dell'articolo) contattai Nicolò a Torreglia (PD). nzi ricordo di avergli detto che io pure sapevo fare un liquore con le bacche di lauro ceraso, mi avvertì di stare attenta in quanto il nocciolo della bacca è velenoso e quindi deve restare integro nella macerazione.

Intervista a Rino Di Stefano curatore lettere di Pertini a Marion

Il Giornale  28 novembre 2004 (boxino e articolo)

Sacerdoti nella bufera della Resistenza: fu anche mattanza.

Il Giornale 20 luglio 2004

Degli articoli precedenti vorrei sottolineare alcuni particolari per far capire come sia diversa la storia narrata nei libri o da chi va scoprire qualche lapide partigiana nella retorica da anni imperante del XXV Aprile e chi quei fatti li visse chi li ha studiati chi li ha narrati cercando di essere obiettivo al di là delle proprie convinzioni.

Su don Berto non c'è da commentare perché parla lui nell'intervista che gli potei fare, sul secondo articolo segnalo dal libro "Sacerdoti cattolici nella Resistenza"  la frase del prefatore Giuseppe Stella Vescovo di La Spezia dal 1945 al '75: "La lotta fratricida segnò la scomparsa dell'onestà e della solidarietà nel clima di sospetto e odio"... "lo straniero (i tedeschi) era tracotante e sospettoso ma spesso pronto a dimostrarsi più comprensivo e generoso dei fratelli militanti su barricate opposte".

Dal secondo articolo segnalo la frase di don Primo Mazzolari: "Quando capiremo i morti allora finirà l'odio e ogni divisione" che è una frase araba fenice!- in quanto tuttora l'odio persiste e si dividono i morti in quelli bravi e quelli cattivi. Quanta ottusità...

Quanto ai tedeschi segnalo dall'articolo "tragici errori" quelle parole di Lucio Ceva sulla Divisione Monterosa: "Bella gente che marciava e muoveva bene, frutto dell'addestramento in Germania, soprattutto gente con un'etica di guerra". Di Ceva segnalo oltre al saggio su Archivum Bobiense( n. 22 e 23 del 2000/2001 che mi è capitato di leggere in quanto pubblicato a fianco della prima selezione delle Lettere dei miei genitori): "Una battaglia partigiana: i combattimenti del Penice e del Brallo nel quadro del rastrellamento ligure-alessandrio-pavese-piacentino di fine agosto 1944 (Quaderni de Il movimento di Liberazione in Italia)". E non sembri uno sconfinamento di campo: siamo sempre nell'appennino a ridosso di Genova, solo che in Val Trebbia e non nella Riviera.

Quindi di Ceva segnalo un'altra frase quando dopo la liberazione di Roma il 4 giugno '44 calano a Bobbio prima i fascisti della Compagnia della Morte, poi a fine giugno una trentina di militi della Legione autonoma Muti di Milano: "Si ebbe la senzazione di poter essere sottoposti a qualsiasi arbitrio senza che esistesse alcuna autorità cui appellarsi". Quindi segnalo quanto ai tedeschi che erano in procito di un rastrellamento che il 23 novembre '44 (Festa di San Colombano) il vescovo Bertoglio di Bobbio manda incontro al comandante tedesco tre sacerdoti con alcuni laici. Il maggiore tedesco all'incontro si presenta con in mano i Promessi Sposi e lascia in pace Bobbio..." L'umanesimo ci salvò una volta di più.

Non solo quando mio zio Alfredo bobbiese di 18 anni, addestrato in Germania con la Monterosa, torna nella sua vallata e passa ai partigiani della VII Alpini di GL comandata da Italo Londei compagno di scuola di una sorella di Alfredo, zia Pina (tuttora vivente) , lo accompagna dai partigiani (quasi a custodirlo)  il maggiore Emilio Della Valle e quando alla porta del casolare si palesano i partigiani e chiedono al maggiore se anche lui vuol passare con loro, questi rifiuta. Monsignor Tosi, primo organizzatore degli Archivi storici bobbiesi, nei suoi scritti definì Della Valle: "uomo  d' eccezionale rettitudine e di grandissimo amor patrio". Ecco le cose, i sentimenti personali, le fedi politiche di cui tener conto con rispetto e senza dimenticare.

Segnalo anche sui sacerdoti il libro di ben 638 pagine "Nella bufera della Resistenza: testimonianze del clero piacentino durante la guerra partigiana" (edito nel 1985 dalla Tipografia Columba di Bobbio) e altri testi ci sono sia per quello che in Emilia fu definito il triangolo della morte ne ha scritto il giornalista Roberto Beretta in Storia dei preti uccisi dai partigiani (PIEMME 2005), sia per la Liguria, sia per ciascuna delle nostre valli.Però ce ne sono altri di nomi al di là di quelli ricordati già nei libri, anche tenendo conto che ils acerdote non lascia discendenza giovane. Ha qualche vecchia madre che è già morta quando lui muore e spesso non ha nipoti perciò è più facile non farne memoria. Dico questo perché Italo Londei fondatore della VII Alpini GL in Valtrebbia voleva che ricercassi per lui un sacerdote che gli avevano detto fosse stato ucciso in quel di Ferriere da un maresciallo di una Brigata partigiana sempre di GL ma non del suo gruppo, operante in Valtrebbia ma raggiunsi solo la nipote (una giovane che nulla sapeva) e avrei dovuto andare a consultare l'archivio parrocchiale di quella  valle del piacentino. Così rinunciai.

Ma l'avvertenza d'uso resta la stessa e sono sempre le parole di don  Primo Mazzolari: "Quando capiremo i morti allora finirà l'odio..." Quando li capiremo, quando non li divideremo in buoni e cattivi come fanno ancora tanti sciocchini ignoranti  d'oggidì.

Precisazione  per quanto noiosa ma necessariaNei giornali accadono refusi incomprensibili o per fretta di ultimare una pagina o per stanchezza di chi deve impaginare e magari dovrebbe svolgere la metà del lavoro che fa se avesse altri a supportarlo, ma anche per distrazione o pressapochismo: in questo caso la mia firma abbreviata dato che altri due miei articoli erano in questa pagina: il principale sulle Confraternite di Meoli-Gardella e di spalla quello di Remo Viazzi sulla I Crociata, ecco che il taglio basso dove compare questa mia recensione su Pertini porta come firma MB mentre da sempre al Giornale e specie dal 2004 da quando ripresi la collaborazione con Lussana la mia firma abbreviata è MLB.Mentre ad esempio MB fa pensare ad un ben più illustre collaboratore delle pagine nazionali: Bertarelli che in genere si occupa di cronaca di cinema e che seguo con interesse.

Non solo avendo prima riportato il mio testo da computer e non da Giornale avevo sottolineato in rosso una parte che ritengo importante cioè: le avvertenze per l'uso di questa lettura. E Pertini per quanto forse il presidente più amato a me storicamente è anche sembrato troppo duro per il mio carattere, le mie simpatie presidenziali vanno a Ciampi (da cui sentii riesumare il concetto di Patria in modo non sospetto come potrebbe essere - secondo me - , per l'attuale e sempre verde Napolitano novantenne quello che approvò i carri armati in Ungheria (vedi Vignetta di Krancic da Il Giornale del 3 giugno 2012) mentre io ragazzina ne provai disgusto e comprensione indelebile di violazione di diritti umani).

Piero Vassallo: riflessione sulla Sinistra. Contravveleni al nichilismo 

Il Giornale 19 novembre 2011

Contravveleni e Antidoti al Pensiero Debole di Piero Vassallo (Edizioni Sofanelli) vuol segnalare le molte vie di uscita dal pensiero nichilista che ha esondato nella nostra cultura avvelenandola. Intende mostrarci la reale geografia della produzione filosofica del Novecento italiano, cioè quella non nichilista e quanto sia importante pur se poco conosciuta. In controtendenza con noi ci segnala  nella Russia di Putin una straordinaria fioritura del pensiero cristiano. Un libro dunque d’interesse per chi ama la verità storica.

Ad introdurre la conclusione, le “Idee per un movimento d’ispirazione cristiana”, sono riportate forti parole di Stefano Zecchi che fu bimbo profugo da Pola dove vide la crudeltà del comunismo contro l’italianità. Zecchi che perse un caro amico d’infanzia nella strage di Vergarolla e come lui, Umberto, ha chiamato il figlio. Eccole: “Di Sinistra è sempre chi decide per il nuovo, chi alza le insegne del progresso anche se nuovo e progresso annientano la vita, distruggono la dignità delle persone. A destra si ritrovano gli anticonformisti che non sentono la necessità di avere lo scudo protettivo del moralismo di sinistra”.

Vassallo le riporta perché in sintonia con il suo pensiero e contro il folle grido imperversante del “vietato vietare”. Con cristallina diagnosi politica non trova giustificazione al compromesso storico che vorrebbe continuare l’alleanza con la “gioiosa macchina da guerra del progressismo”.

Il versante progressista annovera vari protagonisti: procure e toghe giacobine, case editrici ingombrate da pattume letterario, folla di storici consacrati alla falsificazione sistematica della memoria italiana, un salotto buono con le fumisterie adelphiane, un apparato del vetero Pci, perdurante e impegnato nell’effimero di film, romanzi, canzonette, avanspettacolo. Inclusa è “la desolante scuola di Maurizio Costanzo e Maria De Filippi”. Il pensiero di Gramsci è morto anche perché  sostituito dal Voltaire di un Veltroni/ Crozza, di ciancia buonista. L’egemonia progressista è discesa nei bassifondi dell’avanspettacolo perciò il pensiero debole ha dilapidato l’eredità di Gramsci.

Non solo, sul versante progressista si registra – contro l’educazione della nostra Chiesa – il sovvertimento della legge naturale: eutanasia, manipolazioni genetiche, gravidanze eterologhe, accelerazioni abortiste, famiglia pederastica, libera droga. Per i rapporti con la Chiesa Vassallo ci ricorda che non c’è fede senza ragione, che la persona è il fine della società civile e non deve diventare schiava dell’economia da vedersi anch’essa nell’ottica dei valori non negoziabili. Come afferma Giulio Alfano in La ragione e la libertà se l’autorità impone leggi ingiuste, si ricordi la parola data da San Pietro agli Apostoli (Atti, 5, 29): “Si deve obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”.

A nostra riflessione una citazione da La ragione alla radice della politica di Giovanni Turco, pensatore antimoderno: “Iustitia facit legem”, anzi “veritas facit legem”. Al contrario di ciò che vediamo nell’esercizio di tanta magistratura nostrana  Giustizia e Verità sono concetti che si corrispondono, per cui la Giustizia presuppone la Verità del “suum” e del “debitum”.

Quanto al vetero comunismo, tuttora imperversante salvo il cambio del nome, valgono ancora le parole di Siri sui falsi rivoluzionari di sinistra, sui vandali urlanti: “Vengono magnificati perché si sono rivoltati, perché hanno messo a posto la legittima autorità, perché hanno avuto il coraggio di distruggere quello che altri hanno edificato”.

Il libro presenta sei capitoli dedicati a singoli filosofi, tra cui Antonio Livi (“La via del ritorno al reale”), Cornelio Fabro (“La disintossicante lettura delle filosofie moderne”), Sciacca (“Interprete e continuatore di Vico”), Kant e Hobbes. Trova spazio anche “La reazione cattolica alla contraffatta teologia di Karl Rahner”. Addentrarsi nel testo comporta una solida cultura filosofica ma filosofia è riflessione sulla quotidianità, sull’uomo e i suoi problemi: è quindi il caso di sforzarsi di capire e imparare.

Altri otto capitoli riflettono su argomenti fondamentali come “Le vere radici dell’Unità nazionale e l’educazione cattolica degli italiani”,  “Ebraismo e cristianesimo”. Infine viene ricordata Maria Adelaide Raschini (succeduta a Sciacca nella cattedra di Filosofia teoretica a Genova) con alte parole: “L’antimoderno nella luce della carità intellettuale.

Val la pena di elencare, citate da Vassallo, fonti pulite cui attingere: Centro di Vita Italiana, Isspe, Fondazione Giocchino Volpe, Ass. Giusnaturalisti cattolici, Fondazione palermitana Thule, Centro culturale Lepanto, Alleanza Cattolica, Rivista Romana, Carattere, Ordine Civile, L’Alfiere, La Torre, Controrivoluzione, Tradizione.

Un però: perché le clientele e consorterie di sinistra continuano a sopraffarci e a scapito del merito? Bisogna trovare il modo di difendersi ed opporsi.

                   Maria Luisa Bressani

Sul Comunismo di don Luigi Stefani in "Sradicati", Firenze 1974

Questo testo avrebbe meglio figurato nella pagina Profughi Giuliano-Dalmati, però lo inserisco qui e vorrei sottolineare il titolo Lacrime e sangue che ho messo al Cammeo XXXIII dal  titolo "Cultura è...anche: "lacrime e sangue" . Mi voglio scusare per il mio titolo per me assai veritiero ma nel confronto infinitamente diverso e inferiore rispetto a chi patì guerra e sopraffazione. Il confronto nella vita va sempre fatto anche per ridimensionarci.

Però questo testo viene a fagiolo anche per quei vetero comunisti, Napolitano in testa, che credono di essere andati avanti, che dimenticano il proprio passato, che pensano basti cambiare il nome ad un partito mentre poi il modo di ragionare resta lo stesso: giurassico e offensivo dell'individuo. Sarebbe ora che qualcuno insegnasse loro a capire, a ragionare.

Questo testo è nel libro dedicato a don Luigi Stefani Pensiero e azione di un patriota dalmata, II Edizione a cura di Carlo Montani

Commento mio  sul socialismo e scusatemi in quanto non credo di possedere "un'anima politica".

 La bella copertina di Pertini Giornalista a Genova,firmata dall'elegante artista  Raimondi Sirotti, e  a fianco la dedica di Umberto Merani pur se il socialismo è fuori dalle mie corde anzi ne ero da sempre molto critica nonostante (non mi convinceva quel sole nascente del loro simbolo con la pormessa di un mondo uguale per tutti perché in realtà già alla nascita non siamo uguali) la speranza che additava,  già 50 anni fa, il mio insegnante di religione al Liceo D'Oria don Franco Guttuso: l'ingresso dei socialisti a fianco dei comunisti poteva operare la modernizzazione del vecchio PCI e farne un partito migliore per il popolo e meno giurassico. Lo diceva con altre parole ma il concetto era quello ed era una speranza. Poi si è visto come il Partito socialista sia stato fagocitato e messo all'angolo dai vetero-comunisti che esistono e finora hanno fatto lo stesso con tutte le formazioni che a sinistra si sono con loro alleate da Rifondazione a Italia dei Valori, forse anche Sel ecc. I loro travagli non mi interessano per niente, sono  liti in un pollaio di idee.

C'era alla presentazione del libro su Pertini in Provincia un relatore discordante con gli altri: un giovane emergente Marcello Veneziani

Dal Sito di Giovanni Talleri mancato nel gennaio 2010: Il giorno della memoria per tutte le vittime e Gli Slavi (2008)

Subito dopo aver riportato un testo di Silvio Ferrari (v. anche Pagina Autori), che all' Università ha insegnato Letteratura serbo-croata,ne metto uno di Giovanni Talleri sugli Slavi in quanto questo pittore e scrittore triestino, uomo d'altri tempi (aveva vent'anni quando dovetta affrontare l'8 settembre e optò per il campo di concentramento pur di non prendere le armi con i tedeschi ma disapprovando del tutto il "tradimento" consumatosi per l'Italia in quella data) dà una visione diversa di quelle terre e "dell'occupazione italiana". Ne ho scritto a pagina Terre 3 Trieste con parole sue.

Ma anche nel rileggere la storia vale sempre quella frase dell'avvocato Giovanna Galeppini: "Se c'è intelligenza, c'è possibilità di dialogo" e non a caso questa pagina sulle radici storiche di Sinistra, Destra inizia con due grandi politici De Gasperi e Pertini, che entrambi volevano il bene dell'Italia ma venivano da radici diverse e avevano idee diverse sul come realizzare il cosiddetto bene comune.

Alessandro Brignole Colonia Levillà di Rovegno:

parroco di Alpe ucciso dai partigiani La Trebbia 20 febbraio 2014

 

      
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