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Lo spunto per questo Sito è stato l'incombere della sentenza Mediaset e la  consapevolezza interiore che sarebbe stata di condanna e questo perché già secondo Artistotele la Giustizia è una Virtù  che brilla come la stella del mattino, ma nella quotidianità si corrompe e non fa luce.

I magistrati, uomini come gli altri, spesso sono poco virtuosi anche nell'applicazione della giustizia e uno dei testi che mi è più caro è Per l'uccisione di Eratostene di Lisia dove si discute anche del diritto dell'imputato a difendersi da sé in quanto più al corrente dei fatti. Non solo, ci sono le leggi non  scritte ma impresse nel cuore di ciascuno quelle che costituiscono la Coscienza in base alle quali (e tra  queste sorpattutto la legge della pietas) Antigone decide di dare sepoltura al corpo del fratello. Ma noi da questa voce di Coscienza poco sembriamo aver appreso e da noi la giustizia spesso rassomiglia alla legge del taglione, alla voglia di umiliare oltre ché far fuori l'avversario. In Ritratto in piedi che Gianna Manzini dedica a suo padre, un anarchico, ma di quelli di un tempo che avevano ideali e non certo i No Tav odierni (che impediscono turismo e libera circolazione e sfregiano il paesaggio e i boschi con devastazioni a mo' di scritta che durano per un certo tempo e come pure i no global, i black bloc, i ragazzi dei centri sociali capaci di devastazioni cittadine che nessuno risarcisce e coperti da impunità) questi le dà un isegnamento, fin un comandamento: "Non umiliare mai".  Non solo Gianna Manzini scrive: "Alla Verità non si può togliere l'altezza" ma questo della Verità è un versante facilmente confutabile a non voler esser (detto con la massima ironia) la Pravda.

E ditemi chi vota secondo disposizioni di partito e non secondo Coscienza a Voi sembra un uomo maturo, degno di chiamarsi uomo?

Questa pagina ha avuto anche un input (ad iniziare per il desiderio di fare qualcosa di positivo) dalla raccolta di Lettere per Silvio compiuta da Marzia Catalano: una bella idea perché le idee c'è chi le ha e chi no.

Avevo chiesto a Marzia di poter recensire quelle Lettere come chiusa a questo Sito, ma Marzia ha obiettato che le lettere sono cosa privata.

E in un certo senso ha ragione benché proprio nella presentazione delle mie Scrittrici sull'Agenda Lo Faro (1991 e Lo Faro ne era Editore) non trovai di meglio che riportare parole del Nobel Elitis sul suo auspicio che

"un giorno ogni particolare della nostra vita privata possa avere anche dell'interesse pubblico".

Ciò implica molta trasparenza e vincere quel pudore che si nutre nel consegnarsi del tutto ad eventuali lettori e ciò implica che ciò che si vuol dire non è necessariamente cosa di cui vergognarsi o un  segreto inconfessabile ma piuttosto un'etica di vita, della propria vita, che spinge a dire ciò che si crede possa fare del bene anche ad altri.

Così  chiudo ora questa pagina - defintiva- con una bandiera che abbiamo appeso alle ultime lezioni al nostro balcone e questo perché non si può dire di sostenere un'idea, in questo caso  il programma liberale di Berlusconi, se poi non se ne dà   segno. Non ho mai avuto tessere del PDL, mio marito sì e poi l'ha rimessa disgustato della mancanza di organizzazione, però ritengo che una bandiera non contenga del male e per questo non vada né stracciata né calpestata né sfilata dall'asta come fece con me "vecchietta" un giovane palestrato alla manifestazione di Brescia l'11 maggio scorso. Finora avevo visto sventolare anche dai balconi del mio condominio al massimo bandiere arcobaleno. Né ho mai approvato chi brucia le bandiere americane, cioè gli invasati che poi hanno fatto confluire odi e risentimenti nel mondo delle primavere arabe e del medio oriente. Non approvo ciò. Metto ora la bandiera e poi ne aggiungerò altre (FI, gli arancioni di Biasotti, un'altra del PDL di colore più intenso in quanto a Roma mio marito l'ha scambiata con un napoletano e nel nostro Sud i colori smorti non piacciono (c'è azzurro e azzuro).

Ho in mente fosche profezie che parlano per il nostro tempo dell'UNICA LEGGE. Piacerebbero forse alla Finocchiaro che da sempre ama leggine e pandette e si sente custode dell'Unico Verbo e della superiorità morale (inesistente!!! storicamente) della sinistra.

Ecco la bandiera azzurra che sventolò "felice" dal nostro balcone e vedremo cosa succederà ma almeno qui dico  e nessuno dico nessuno nel nostro condiminio nessuno ci disapprovò come succede spesso da parte degli intolleranti e di chi desidera un'Unica Legge per chi scrive sul Giornale, su Libero, ecc. Ma chi critica non conosce chi scrive e la stima tra persone si guadagna sul campo, in anni di vita. Quindi nessuno, pur se di altre idee, criticò.

                                                                                                                    

 

Cari Amici, caro eventuale Lettore, ecco la bandiera di FI che sventola dal mio balcone di casa e poiché abbiamo tanto bisogno di speranza ecco l'alba che ho colto da casa mia a Bobbio il 18 settembre 2013 alle 6,11: quindi ha ragione Berlusconi, "svegliamoci!" e aggiungo "svegliamoci presto!"

Durante il mio lavoro ho ricevuto ringraziamenti, eccone tre nel tempo che mi sono cari.

Inizio dal primo che arrivò nel 2008 quando smisi di seguire la cronaca della Circoscrizione/ Municipio VIII Levante:

è di Beppe Damasio, un consigliere fondatore di Momento Liberale.

Il secondo è una lettera  del 1993 di Franco Croce Bermondi, professore ad Italianistica all'Università di Genova, a seguito di un articolo scritto per un Convegno su Giorgio Caproni a Montebruno in Valtrebbia dove mi trovavo a passare e dove mi fermai per assistere e scrivere.

Il terzo è un grazie del 1982  per il saggio "Signora della penna" che le dedicai da parte di Colette Rosselli, moglie di Montanelli: un grazie su Gente e portatomi da Daniela, oggi dottoressa, che era stata una mia  allieva al D'Oria. Preciso che pur entrata a collaborare al Giornale, pagine di Genova con Massimo Zamorani, non gli dissi mai di Donna Letizia sempre convinta che la propria strada si fa da sé pur restando grati se qualcuno e in questo caso una donna giornalista e scrittrice  importante e simbolo di classe e gusto raffinato.


"Grazie a Maria Luisa Bressani
Per tanti anni presente alle riunioni del Consiglio della
Circoscrizione del Medio levante oggi Municipio.
Ci eravamo abituati a vederla sempre attenta ai grandi e piccoli
problemi come corrispondente del Cittadino.
Lascia l'incarico ma non la voglia di scrivere.
Un pizzico di nostalgia in Lei e in noi .
Grazie Sig.ra Bressani anche questo piccolo blog cercherà di tenerla
ancora informata.
Tanti cari Auguri

Beppe Damasio

Mi congedo da te , eventuale lettore. Vostra Maria Luisa (Marisa in famiglia) Bressani Ferrero,

però ora saluto con una foto abbastanza recente di nonna che legge ai nipotini, peccato che qui ce ne siano solo quattro e quindi ne manchino due. E questa letura messa in pratica da una nonna come me è la fede nel libro quella per cui un po' mi prendeva in giro Emilia Maciocco Tassi mia insegnante alle medie (v. Pagina In Memoria) che aveva constato le mie fonti quando alzavo la mano in classe erano immancabilmente: "L'ha detto mio fratello Ferruccio (4 anni più di me quindi per me "il capo", " l'autorità") oppure "l'ho letto in un libro"

Ieri Berlusconi ha votato sì al governo Letta e oggi i "sinistri" parlano di sconfitta, resa, ecc. senza averne apprezzato generosità, signorilità in questo caso, vera responsabilità. Credo i suoi lo abbiano poco difeso e vale quella storia Ulisse-Berlusconi che nella recensione a Specchio Oscuro di Dionisio di Francescantonio (pagina Difesa della Libertà)ho sottolineato in rosso.

Resta la speranza di un Paese normale che ci  consegna alla fine di quella recensione tramite il suo alter ego Ulisse.

Speranza di un Paese senza giacobinismi da Rivoluzione francese che poi francesi assennati commentavano così: Egalité. (= Point), Fraternité. (=Point), Liberté (= Point).

Ma c'è stato forse risarcimento per Maria Antonietta che non fu quella del "non hanno pane, dategli brioches?"

Quanti sono i giudici politicizzati che sbagliano ad arte, che impastrocchiano per condannare?

Nella lettera qui a fianco - il riconoscimento di un lettore a me sconosciuto che per chi scrive resta il riconoscimento più alto e che si riferisce ad un mio articolo Le mucche di Neirone dove accenno al processo ad un uomo probo e che ritrovate alla prima pagina "Coro al vivere (=premessa). Ho vissuto vicenda analoga e il dolore provato per un direttore d'ufficio 40 anni fa, incriminato e poi assolto perché il fatto non sussite ha mosso il mio giornalismo con la volontà di tenere la "penna pulita" di non darmi allo sciaccallaggio dei 40 articoli in prima pagina che distruggono la vita di una persona perbene.

Direttore di un ufficio ritenuto modello fu incriminato perché "non poteva non sapere" e guarda caso era un ufficio modello, fu accusato di omissione d'atti d'ufficio e di favoreggiamento per un suo dipendente che fu incarcerato e dopo sei mesi rimesso in libertà perché nulla aveva fatto di illecito.

A quel dipendente fecero forse le scuse? Lo risarcirono?

Non so perché non lo conobbi, so del direttore che si vide rovinata vita e carriera, ma diceva: "Raccontano che il giudice che sta mettendo insieme un faldone di mille pagine, di notte debba dormire seduto però credo sia non per dolori fisici ma per la sua cattiva coscienza, mentre io dormo sonni tranquilli".

Fu la vicenda del Direttore che conoscevo - poi assolto perché il fatto non sussiste!!! - a spingermi sulla strada del giornalismo e fu 40 anni fa perché sono un po' lenta e prima scrissi a ruota libera con i tanti riconoscimenti, poi per entrare nel giornalismo volli farlo attraverso una Scuola e scelsi quella dell'Università Cattolica.

Ma una domanda importante: quanti sono stati da allora  i processi sbagliati, quanti gli assolti perché il fatto non sussiste? Chi dei giudici ha pagato? Perché il Referendum sulla loro responsabilità civile si è concluso come  nella prassi come se gli italiani non si fossero già pronunciati e siamo stati costretti tutti, in quanto siamo noi lo Stato, a pagare per loro? Come succede per la Rai con tanto di canone pagato da tutti e con esborsi miliardari per gli uomini di sinistra che fanno satira o spettacolo. Che vergogna è mai questa?

Sottolineo che alleati ai comunisti che purtroppo esistono qui da no c'è una buona parte di cattolici. Un tempo si era coniato il termine cattocomunismo.

Non ritengo Napolitano un garante al di sopra delle parti ma resto alla frase che Cossiga disse di lui: "di doppiezza togliattiana".

Ormai non scriverò più cercherò di insegnare qualcosa ai nipoti attraverso i libri e quando mi sarà possibile (i bambini d'oggi hanno tanti impegni) certo non leggerò loro il libretto di Mao che un tempo furoreggiava, ma ho tanta malinconia nel constatare un'Italia che sembra non cambiare mai che non sa prendere in considerazione la pietas, la carità verso l'avversario politico ma ha solo la bava alla bocca dei mastini e un odio antico e come arma più usata il tradimento.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         

Anzi per gli smemorati, specie i cattolici, concludo con un articolo riguardo Stepinac, perché il metodo della sinistra di filiazione comunista è sempre lo stesso: la galera per gli avversari politici o per chi dissente. Nessuna dittatura è stata così feroce come quella comunista ed è un'anima che un liberale non potrà mai accettare. I comunisti hanno solo cambiato nome al partito ma non il modo di pensare ed hanno continuato a fare proseliti sia con la distribuzione di posti pubblici sia con la loro scuola di formazione politica.

Stepinac come si evince dall'articolo fu oggetto di un "tristissimo processo" che però a noi posteri rivela il costume comunista dei processi e il loro spirito manettaro.

Il tempo a volte sembra fermarsi e non esser passato in meglio.

Nell'ordine Nonna con Annalisa (nata in Inghilterra) a distanza di quattro giorni da Maria (foto a fianco) torinese e oggi di anni 10.

Di fianco Nonna con Lidia milanese che a febbraio 2014 ha compiuto sei anni

Due ricordi del mio giornalismo:

1) del CAV (Centro Aiuto alla Vita- 1985)-"Mamma queste cose non si fanno" e il giornalista esordiente impari dall'esperienza del caporedattore

2) di Enzo Catania, "direttore" nella collaborazione al Giorno

scelto come "mio" per il suo comandamento "stare fra la gente"

Con Stepinac e i falsi processi con false accuse credevo di aver finito, ma gli articoli sono come le ciliege che una tira l'altra e mia madre ne mangiò tante da farne una scorpacciata che provocò in anticipo la mia nascita. Resto appassionata di ciliege e scrivo come le stessi mangiando.

Voglio concludere con il ricordo di quell'episodio del mio giornalismo per cui mio figlio Cesare diede un pesante giudizio su di me dal senso "Mamma, queste cose non si fanno".

"Queste cose non si fanno" era il titolo di un libro di galateo per bambini edito da Mondadori che spesso avevo utilizzato con i miei figli: sorridendo insegnavo loro che certi comportamenti non si devono tenere come invece oggi vedo nelle toilettes degli autogrill bimbi che si tirano rotoli di carta igienica squadernandola e consumandola sotto gli occhi di mamme, indifferenti e tolleranti, solo intente a rassettarsi allo specchio o al cinema bimbi che rovesciano i pop corn a terra sotto gli occhi delle mamme che chiacchierano imperterrite, ecc.

Venendo a quell'espisodio del mio giornalismo (1985, redazione del Giornale caporedattore Massimo Zamorani), ero stata chiamata dal CAV (Centro di Aiuto alla Vita) per segnalare una storia umana in modo che qualche caritatevole offrisse un lavoro alla coppia  in difficoltà. Si trattava di due siciliani che avevano  attuato la fuitina d'amore, lei era incinta, e fuggiti a Genova dal loro paesino dormivano in auto al parcheggio della Foce. Forse scrivendone qualcuno si sarebbe impietosito. Volai in redazione da Zamorani, fiera della fiducia di cui ero stata  investita.

Zamorani aveva tanto di trench addosso e borsello in spalla, anche lui era fiero quasi stranito perché quella notte Montanelli (che era fama fosse molto insonne) l'aveva chiamato per non so quale servizio da inviato speciale. Mi disse: "Si spicci a raccontare". Ascoltò e poi mi bloccò: "Lei non scrive perche con siciliani e fratelli della ragazza inviperiti e in nome dell'onore assatanati di vendetta il giorno dopo l'uscita dell'articolo non voglio ritrovarmi due cadaveri sulla coscienza". Masticai amaro ma la storia continua così: "Dal CAV mi chiamarono di nuovo per aiutarli a rintracciare la ragazza. Le avevano donato un vestito rosso per tirarla su d'animo e si era in periodo natalizio come adesso, ma la ragazza era sfuggita al loro contatto e con il vestito rosso e molto appariscente si aggirava chiedendo la carità sotto i Portici dell'Accademia". Dissi ai figli: "State bravi che oggi pomeriggio vado a cercare la ragazza" e Cesare il secondogenito replicò: "Mamma, queste cose non si fanno. Ti abbiamo sempre detto che per il tuo giornalismo non dovresti spendere più di quello che guadagni, ma ora è peggio. Non pensi che se vai a De Ferrari, in centro Genova e ti metti a chiedere di una ragazza incinta vestita di rosso, dato che hai una figlia adolescente possono credere che tu stia cercando tua figlia? Ci hai pensato?". Ignorai il commento e cocciutissima mi fiondai alla ricerca. Arrivai a sapere che la ragazza era nel sottopasso del Portello quindi per me quasi di casa perché l'avevo percorso al volo tante volte all'Annunziata ai tempi dell'Università per prendere qualche autobus (allora con i mezzi pubblici mi ci voleva più di un'ora, anche un'ora e mezza per tornare a casa). Trovai la ragazza e la invitai al bar degli studenti per farla mangiare mentre mi raccontava la sua storia. A un certo punto sentendosi a suo agio mi mise una mano sulla coscia. La guardai stupita e lei: "Da noi, in Sicilia, se un uomo si permette anche solo di sfiorare una donna così è subito scandalo".

Poi, cocciutissima, riuscii a mimetizzare la storia in un articolo, avevo capito che se non scrivevo la notizia ad inizio o alla fine, ma la inserivo tra altre verso il centro dell'articolo sfuggiva alla vigilanza del caporedattore e così scrissi ed orgogliosissima telefonai al CAV che avevo dato come riferimento per chi volesse aiutare la coppia. Risposta della marchesa Zerba che allora ne era responsabile e che avevo sempre trovata intenta a sferruzzare per le mamme indigenti: "Troppo tardi, la ragazza entrata nel sesto mese ha perso il bambino" "Oh, mi dispiace!" "No, meglio così, il suo compagno in Sicilia aveva lasciato moglie e quattro figli".

Zamorani allora talvolta mi ripeteva: "Non  m'importa altro che lei si convinca che ho ragione" e nel tempo mi è capitato di ripensarci e di convenire che aveva sempre avuto ragione, fin una volta che lui che mi pare fosse stato pilota d'aerei, aveva dovuto affrontare per telefono una giovane che poi vidi in redazione in pelliccia di visone chiaro e che telefonando spiegava l'articolo che voleva scrivere su certi aerei e lui ripeteva, quasi gocciando sudore e stringendo i pugni per non rispondere fuori dalle righe: "Guardi che non è così" e penso che l'aver detto ai tanti pivelli come me che gli passavano al fianco: "Vedrete che ho ragione", sia stato un modo vero di fare formazione giornalistica perché alle prime armi crediamo tutti di essere i "salvatori del giornalismo" e invece non capiamo quasi niente.

 

 

Ora ritrovo questi due pezzi a firma di Enzo Catania conservati da me con il titolo genuflesso di "Il mio direttore". Mi chiedo oggi cosa mai mi avesse spinto a scrivere così allora, dato trattarsi del direttore che mi aveva ammesso a collaborare al Giorno dicendo: "Questa la facciamo scrivere e non la paghiamo..." Così almeno mi disse una segretaria d'amministrazione quando arrivarono i pagamenti fatti avere a me del successivo direttore, Guglielmo Zucconi (ne ho scritto alla pagina In memoria) e se in seguito i giornali mi avessero pagato altrettanto - come le migliori firme del Giorno in quel momento! - sarei decisamente un po' più ricca.

Ma ora ho anche capito il perché istintivamente lo avessi scelto come "mio direttore" ed è per il suo congedo al Giorno in cui declina il suo credo di giornalista: "Stare sempre con la gente" ed è ciò che mi è capitato ripercorrendo il mio giornalismo quando ho aggiunto quel "Cronista per la GENTE in più di 30 anni". Di Catania riporto anche il titolo di una lettera successiva del 1996 e la sua foto.

Infine ricordo che lessi di una ragazza che descrivendosi chiedeva a Catania cosa avesse lei che non andava... E il direttore le rispose che "lei - per come si descriveva -  era una ragaza 'elettrica' (notate la sapienza dell'aggettivo) cioè che prendeva fuoco subito per sostenere un'idea anche a costo di tirarsi critiche o di esser sbattuta fuori ecc."

Da quel momento perfino in casa mia, identificandomi con lei, m'inalberavo: "ma io sono una ragazza 'elettrica' non potete pretendere che non mi arrabbi o che non critichi..." E ad una di queste sfuriate un giorno un figlio, Cesare,  replicò: "Mamma, elettrica senz'altro, anzi quasi pazza, però ragazza... lo sei stata tanto tempo fa".

Ed ora la parola al "mio" direttore pur se non l'ho mai conosciuto di persona.

E questo titolo ben si adatta a tutti i politici che al contrario di Berlusconi forse ingenuo ma certo uomo di buon cuore non tengono conto degli umori delle necessità della povertà della gente e se ho tanto amato il "Giornale pagine di Genova" di Massimiliano Lussana è perché lo ha sempre concepito anche come una vetrina delle richieste della gente, un giornale modernamente fatto anche dalla gente.

E focalizzate l'attenzione su quella frase del sottotitolo nel "A tu per tu con il lettore" di Enzo Catania: Il menefreghismo spesso fa chiudere gli occhi davanti alla disperazione, cioè proprio come diceva Lalla Romano: "Non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire, peggior cieco di chi non vuol vedere".

Né interpretate che il bimbo del quadro stia guardando la colomba. 

A quel bimbo "Il bimbo dal volto girato" tanti anni fa ho dedicato un racconto sull'indifferenza di tanti rapporti umani e sul menefreghismo di tanti adulti: perché così è più comodo  e  aiuta specie verso chi dà fastidio: "Il bimbo che piange, il vecchio, il  malato"...

Nel nostro caso l'avversario politico che sarebbe meglio per alcuni se non esistesse.

INDICE "FUTURO: LIBERTA' o...?"

Bandiera del PDL esposta dal balcone di casa mia alle ultime elezioni 2013

Bandiera di  FI eposta dal balcone di casa mia dopo il pronunciamento negativo della Giunta contro Berlusconi  FI

Alba del 18 settembre 2013 da casa mia a Bobbio con il cielo tra gli alberi piantati da mio padre: sperare è sempre un must!

Tre Assist a ritroso nel tempo (come si dice oggi) e a me i più cari e  dopo un "vero encomio" da un lettore:

1) 2008 di Beppe Damasio fondatore di Momento Liberale,

2) 1993 di Franco Croce Bermondi per un mio articolo su Giorgio Caproni,

3) 1982 di Colette Rossselli, Donna Letizia,  moglie di Montanelli dalle pagine di Gente 

4) l'encomio: Lettera di Ernesto Canepa che mi definisce "penna pulita" al  Giornale  12 gennaio 2010

Motivo del mio giornalismo: mala giustizia contro un direttore di ufficio modello e persona perbene cui distrussero vita, salute di famiglia e carriera (anche con 40 articoli di prime pagine di giornali) e poi  fu assolto perché  "il fatto non sussiste" (comunicazione  in poche righe all'interno dei giornali):  effetti devastanti del desiderio di far "tintinnar manette"

Foto in Bobbio con quattro dei miei sei nipotini mentre leggo loro: un libro speranza di futuro e di civiltà

Foto delle mie tre nipotine Annalisa, Maria, Lidia, oggi non riconoscibili perché allora neonate: almeno una volta precedenza alle donne! (infatti ho  anche tre nipoti maschietti: Stefano, Michele, Massimo)

Processi falsi ( ... è immarcescibile sistema comunista/giacobino): a Stepinac arcivescovo di Zagabria di Anton Benvin Settimanale cattolico 25/2/1993

Due ricordi del mio giornalismo:

1) Ricordo del CAV  (Centro Aiuto della Vita-1985)  "Mamma, queste cose non si fanno..." e il giornalista esordiente impari a rispettare l'esperienza del  caporedattore 

1) Ricordo di Enzo Catania mio direttore nella collaborazione al Giorno perché:

 nel suo congedo dice: "Stare sempre tra la gente"

2) definisce una ragazza "elettrica" per il fatto che (come me!) prende fuoco contro ingiustizie o cose che non vanno e per questo paga sempre 

3) in una lettera della domenica titola: "Il mondo inizia dagli altri non da noi: il memefreghismo spesso fa chiudere gli occhi davanti alla disperazione" Il Giorno 17 novembre 1996

In sintonia con il menefreghismo denunciato da Catania quadro di Alberto Helios Gagliardo con "il bimbo dal volto girato" di fronte alla colomba di pace . (Berlusconi ha teso qualche colomba di pace..., l'hanno sempre rifiutata i bersaniani per primi ed anche i grillini: tutta gente senza speranza)Di fianco come il quadro fosse di Cristo tra i ladroni la mia foto di bimba sui 3/4 anni e di qui la domanda a me stessa se io abbia mai rubato, dall'altra parte una mia foto attuale un po' malinconica, ma lo sono di natura.

"Sisto Dalla Palma e Lucia Mondella manzoniana, la donna dal pensiero segreto" e Sindacati rovina d'Italia come certa Magistratura.

Lourdes 2008: perché volli diventare giornalista.

LXIII Cammeo: la giustizia un'abbagliante lucidissima croce.

"Prima ti distruggono e poi ti assolvono" Lettera sul Caso Bertolaso di  Giacomo Zecchini Il Giornale 13 agosto 2014 

"Il Deserto" riflessione di Maria Luisa Bressani (fine anni Settanta) di prossima pubblicazione con altri 11 racconti

I recensione al mio primo libro pubblicato, sul Piccolo di Trieste 19 gennaio 1978

II recensione sempre su Begonza su Sìlarus di Elisabetta Salati Di Iaconi

"Margherite" omaggio di Valerio Fiandra (direttore della Lint di Trieste quando pubblicai con lui le Lettere dei miei genitori) 

alla presentazione alla Libreria Minerva 22 maggio 2003

Quadro di Alberto Helios Gagliardo: la colomba di pace

al "bimbo dal volto girato"

Berlusconi ha offerto qualche colomba di pace, ma gliela hanno rifiutata e sono così moralmente deteriorati e arroganti che credono di poter mettere da parte un alleato di governo senza prenderlo in considerazione, senza difenderlo come dovrebbero per senso di lealtà,  facendo come se non fosse mai esistito mentre se ne sono serviti per governare al di là di tutte le fregnacce che dicono sugli ostacoli frapposti dal PDL e che questa nuova maggiorana Letta-Alfano sarebbe più coesa.

Ma il tempo è sempre il miglior giudice. Vedremo, vedrete.

E ancora in omaggio al "mio" direttore

recensione al suo Morire d'orrore, 1998

Enzo Catania, Morire d'orrore, Marsilio, Venezia 1998.

Perché in un orto chiuso di libri, a tema religioso o spirituale come questa pagina "Scaffale" del Settimanale cattolico diocesano, proporre una lettura su serial killer e delitti negli ultimi cent'anni?

Il primo perché è diversa da altre del tipo, fiorite in questo periodo sull'onda emotiva di efferati fatti di cronaca. E' diversa per il modo di narrare dell'autore, che da buon giornalista pur senza giudicare, mette paletti invalicabili tra bene e male. Lo spunto al libro gli viene dall'essersi trovato in metropolitana a Milano di fronte a un pluriomicida, che poi scoprì essere tale dalle foto dei quotidiani. Un fatto che può capitare a me o a te, ma che d'improvviso può travolgere una vita.

Il male e il bene fin dall'inizio non restano concetti astratti e vengono visti in due persone agli antipodi. Lacenaire, un assassino dell''800, che per la prima volta uccise a Verona. Gliene parla un ingegnere suo compagno di viaggio a Lambarané, al lebbrosario fondato dal medico e organista alsaziano. Una volta giunti a quella destinazione, il giornalista ferma il narratore dell'orrore: "Caro amico, qui m'interessa solo la storia di Schweitzer". E' la coscienza vicente!

Tra i moventi del male Catania ne individua un lato oscuro, un raptus, testimoniati dall'imprevedibilità della cronaca nera. In proposito seguendo i fatti della nera traccia - ed è un altro buon motivo alla lettura - una galleria di grandi cronisti, da Angelo Rozzoni, a Mario Zoppelli, a Nasi.

Tra le cause dell'uccidere ne individua però una primaria e comune:l'interesse.

Con il nome di business questo è l'alibi dei nuovi mafiosi, traditori di "codici d'onore". Proprio sulla mafia Catania ha scritto una ponderosa storia e, agli antipodi della piovra, sempre iseguendo il rapporto male/bene, ha raccolto la voce di vittime di errori giudiziari in Sono innocente, con prefazione di Guglielmo Zucconi.

Nel suo narrare accompagna sempre all'indagine storica una sorta di pietas per la gente comune, la cui vita è sconvolta dall'imprevedibilità del male.

"Stare sempre tra la gente" è stato il suo motto da direttore del Giorno, in un travagliato momento recente di difesa d'autonomia per la testata. In vent'anni a quel giornale dei mitici direttori Baldacci e Pietra, dei cattolici Rizzi e Zucconi, dalla gavetta di cronista salì al vertice.

              Maria Luisa Bressani

Ho visto che su Facebook furoreggiano foto di bimbi dato che alcuni scelgono di mettere la propria immagine bambina quando però già nei piccoli volti si legge un po' come uno diventerà. Li imito.

Foto di Maria Luisa Bressani sui 4 anni dato che al ritorno di mio padre dalla prigonia di Saida a Bobbio nell'ottobre 1945 e dopo alcuni mesi tornammo a Trieste dove ero nata l'11 giugno 1942 e lì iniziai nel '48 la I elementare prima di venire a Genova dopo il Natale di quell'anno dove continuai alla Brignole e Sale

Lourdes 2008 il testo dove spiego perché volli diventare giornalista

Quel testo che don Nevio Martinoli il sacerdote che concelebrò al mio matrimonio e mi chiese di scrivere per superare il dolore di esser stata messa a casa per e-mail dal Cittadino mi aiutò davvero in quel momento: ripensai alla ragione per cui avevo voluto diventare giornalista e capii che era stata troppo alta perché permettessi di lasciarla umiliare o immiserire.

Una considerazione perché so che il lettore eventuale potrebbe non aver tempo di leggere come spesso succede: il processo che mosse la mia penna finì con l'assoluzione dell'imputato, direttore di un ufficio modello delle odiatissime finanze "perché il fatto non sussiste". Nessuna scusa o risarcimento per avergli rovinato la carriera  e sulla stampa 40 articoli di prima pagina ma solo in poche righe  la notizia d'assoluzione all'interno, ben occultata se così si può dire. Invidia, anche vendetta (di qualcuno che le tasse aveva dovuto pagarle e questo con il senno di poi) e mala giustizia e sono passati da allora più di 40 anni però il mio dolore al riguardo è ancora vivo. Ricordo chi incontrandomi tagliava la strada per andare dall'altra parte, chi entrando in qualche sala per un pranzo di famiglia interrompeva di parlare e chiudeva in fretta il giornale oggetto di commenti e in quel momento la limpida coscienza di mio suocero: "Mai potrei pensare ciò che scrivono sui giornali io che conosco tuo padre" e la sua mano sulla spalla a darmi fiducia. Preciso anche che sul Secolo XIX quel giornale di più di 40 anni fa e giornale della città dove mio padre aveva lavorato e con stima nulla uscì da parte dei giornalisti: ci fu silenzio sulla vicenda e va ad onore del garantismo di quella testata com'era in quel periodo.

E ricordo che quando mio padre ricevette l'avviso di garanzia stavo insegnando al D'Oria e mia madre venne ad avvertirmi e fu il prof. Gennaro a dirmi: "Signora scenda nell'atrio, c'è sua madre e non l'ho mai vista così sconvolta". Risalii poi in classe e tornai a spiegare e poi mentre leggevo, forse Dante o non ricordo cosa, scoppiai a piangere e fu in quel momento che decisi al di là di cose che accaddero dopo e che riporto nella "Home page" che non avrei più insegnato: troppo umiliante piangere davanti ai miei allievi per cui dovevo essere guida e comunque da allora nonostante dolori e lutti importanti non ho più pianto così. Avevo imparato ad indurire il cuore o a tener dentro il pianto. 

E ricordo che sarà stata telepatia dato che nulla potevo immaginare ma per tre notti prima di quel giorno avevo sognato di sprofondare in un'auto a portiere chiuse insieme a mio marito, ma poi la quarta notte, dopo aver saputo da mia madre, ancora lo stesso sogno ma d'improvviso riemergevamo ed eravamo su un cocuzzolo a guardare Genova dall'alto e c'era il sole. E poi: iniziò allora il Parkinson di mia madre (possono essere cellule del cervello "bruciate" all'improvviso per un trauma o un grande dolore, ipotesi anche accreditata scientificamente) e la vidi tremare tante altre volte - per 25 anni - e talvolta forte come in quel giorno per me drammatico al D'Oria.

E scusatemi se nel mio Sito concludo con questa esperienza fondamentale nella mia vita. 

La foto in Home page scattata per puro caso dal fotoreporter Francesco Leoni nello studio di Ada Peiré mi servì per presentare il racconto Le fragili ali della Libertà vincitore del Trofeo Sìlarus e    I Premio narrativa nel  XIV concorso (Battipaglia 10 aprile 1982).

Fosse stato per me avrei voluto essere con Salinger ignota come immagine all'eventuale lettore e notate che il Maria Luisa, mio vero nome scelto però come sostitutivo di quello Marisa in famiglia, è come voler mettere un paravento: è la timidezza e i timidi quando incominciano non finiscono più per la voglia di disvelarsi del tutto.

La roboante frase che mi è scappata sul quadro di Gagliardo come Cristo tra i ladroni cioè tra le due immagini, una di me bambina ed una attuale, mi ha fatto riflettere sul perché l'abbia detta, chiedendomi se ho mai rubato qualcosa-

E allora sì, da bambina: ho rubato una volta fin due pannocchie di granoturco che mi servivano come cibo per le mie bambole e lo potei fare perché aiutavo con gli altri bambini che abitavano nella casa con giardino in Bobbio, dimora di mia zia Rina, un contadino mentre mondava dalle foglie le sue pannocchie sul terrazzo-veranda del primo piano. Ma si potevano anche considerare un pagamento perché a quel contadino a agli altri compagnetti, alcuni più grandi altri più piccoli di me, in quel cerchio tutti seduti a terra a gambe incrociate io bimba di città raccontavo le mie storie e dovevano piacere se quel contadino andò a dirlo a mia zia. La stessa cosa mi accadde con nonno Luigi a Trieste, immobilizzato in un letto per una cancrena ad una gamba che i figli avevano deciso era meglio non gli fosse amputata. Era a pochi giorni da quando morì e in quella stanza della sua sofferenza voleva solo me bimba piccina perché gli raccontavo storie che lo facevano "tanto ridere": gli raccontavo di quando a Bobbio facevamo scappare le galline dal pollaio sito vicino a casa della zia e poi queste non facevano più uova (probabilmente le scodellavano in giro) e quindi noi bimbi fummo tutti redarguiti e diffidati dal ripetere quell'impresa. Gli raccontavo di quando seguivamo per scoprire dove andasse, con chi s'incontrasse, il cane Bill che ad una certa ora scappava verso il paese, gli raccontavo dei pulcini che prendevo in mano, piccoli piccoli, piumosi come batuffoli. E lui, quel mio nonno signore, un tempo a Trieste tra i miei 4 e 6 anni mi portava fuori insieme a mio fratello anche nelle giornate di Bora quando si doveva far catena con altri per attraversare una strada senza esser spazzati via ed è per quello che amo tanto il vento teso, mi mette l'allegria di quelle scorribande a tre  nella mia città d'allora.

Vengo poi alla foto dell'altra ladrona, quella adulta, e per lei garantisco che non ha mai rubato nulla. Avrebbe voluto come una maga Morgana rubare il sapere di qualche Merlino o di chi mi poteva sembrare un Merlino nel suo lavoro, ma poi quella finta Morgana si accorgeva che il sapere di ogni possibile Merlino a lei non serviva per niente, aveva a disposizione solo le piccole cose imparate con fatica e solo sue, le sue conoscenze di approfondimento in qualche settore: perciò proprio una frase di quelle che si dicono tanto per dire la mia sul quadro di Gagliardo tra i ladroni, ma scrivendo non bisognerebbe mai scrivere tanto per scrivere. Forse una cosa anche peggiore del rubare non ho mai fatto ed è quel comportarsi davanti alla sofferenza da "bimbo dal volto girato" come  a me sembra quello del quadro pur davanti all'invitante colomba.

Lourdes, 150 anni dalle apparizioni della Vergine a Bernadette Soubirous: si è inaugurata la grande festa giubilare, per i cristiani è Evento; ogni anno sono milioni i pellegrini che vi convengono per una risposta di Fede.

Cosa sorprende il pellegrino che si reca a Lourdes, cosa gli lascia dentro? Vorrei portare la mia esperienza personale su cosa mi colpì quando vi andai per la prima volta nel 1978 e, la seconda, vent’anni dopo quando mia madre era mancata da un mese. La prima andai con tutta la mia famiglia, i miei cari genitori che non sono più, mio marito, i miei tre figli di età allora tra gli 11 e i 7 anni: da parte di noi tutti per sciogliere un voto di gratitudine. La mia famiglia d’origine aveva attraversato un grande dolore ma a Lourdes mi resi conto che per quanto sia grande o sia stata grande la personale sofferenza diventa minima rispetto al mare scuro della sofferenza altrui. Mi colpì una giovane donna, molto graziosa, dai lunghi capelli neri, su una carrozzina al cui fianco camminava il suo bambino.  Mi colpirono i suoi occhi amari e disperati, quasi mi vergognai di aver creduto dolore ciò che avevamo attraversato. Alla benedizione dei malati mi colpì un fatto straordinario: tutto si faceva luce e pace, tutti nella preghiera sembravano pacificarsi. E’ questione di colori: prima era stato il  mare in burrasca descritto nell’enciclica Spe Salvi dove il Papa ricorda che Ave maris stella è un inno di più di mille anni fa, dell’VIII/IX secolo: “la vita è come un viaggio sul mare della storia, spesso oscuro ed in burrasca...” (49). Poi Lourdes, con la benedizione dei malati, diventava un cielo chiaro cui le persone partecipavano. Ha scritto il poeta, e Nobel greco, Odisseo Elytis: “Elle est retrouvée. Quoi? L’eternité./ C’est la mer melée au soleil”. Nella prima Basilica mi aveva stupito una tavoletta votiva di filippini che si erano salvati da un naufragioA Lourdes non c’è il mare, ma la marea di teste di persone in preghiera, in piedi e in carrozzella, i barellati, sembravano un mare tornato in bonaccia.

A sera, la processione con le torce levate. Nella scenografia delle tre Basiliche, è estasi nel camminare fianco a fianco in tanti nella fede, nel cantare insieme e il coro dei sofferenti, di corpo o d’anima, sale angelico. Quasi sempre una voce s’alza sopra le altre, purissima come balenassero i cieli azzurri dell’Aida di Verdi, quando prigioniera leva il suo canto di libertà. La voce, alta sulla sofferenza, si spinge – gioia allo stato puro – su, al cielo.

Mi colpì, quella prima volta, anche il dolore nella vita di Bernadette stessa il cui padre fu perfino ingiustamente incarcerato e le di lei infermità fisiche che riflettono parole di Santa Caterina nella lettera 5, riferite al dolore, imperscrutabile  che ci viene da Colui che per amor nostro si è fatto uomo in croce: “Egli ci dà o permette pene e infermità con grande misterio per la nostra santificazione”.

Del secondo viaggio, che volli fare con l’UNITALSI a un mese dalla morte di mia madre, sofferente di Parkinson da trent’anni e che si spense dopo quasi cinque anni da vedova, perché mio padre si era schiantato nell’assisterla, mi colpì invece – profondamente – la gioia del pellegrinaggio in comune. Grazie a don Nevio avevo potuto fruire di uno degli ultimi due posti disponibili a pochi giorni dalla partenza, si andò in treno, don Nevio stesso accompagnò i pellegrini: era il 10 febbraio 1998.

Sembra un fatto misterioso, ma io ci credo: è la chiamata di Maria ad andare da Lei. La mamma di Francesco, un compagno di scuola  e  negli scout del mio figlio più piccolo, morì molti anni fa di cancro. Era diventata testimonial dell’Associazione che raccoglieva fondi per la ricerca e ne parlò una volta pubblicamente al Teatro S. Pietro di Quinto. Prima della malattia e ancor più durante aveva incominciato a partecipare ai primissimi pellegrinaggi a Medjugorje e una volta anch’io avevo voluto recarmi là, con mio marito e il nostro secondogenito in un viaggio di soli tre giorni andata e ritorno in auto dall’Italia, anche allora per sciogliere un voto. Avevo avuto mezz’ora per stare in chiesa: mi aveva impressionato una Madonna all’ingresso, che definisco “zingara”, dal volto slavo e con le vesti macchiate fin alla vita a simboleggiare i peccati degli uomini. Ero rimasta un po’ delusa non avendo potuto concentrarmi bene nella preghiera, non avendo partecipato ad una Messa, avendo trovato il luogo quasi deserto, non avendo conosciuto nessuno dei veggenti. La madre di Francesco, che non è più, mi disse allora: “anch’io vorrei tornare a Medjugorje e capiterà anche a te, ma è la Madonna che chiama quando ci vuole..."

Considero quel 1998 in quest’ottica. Condivisi il viaggio con due sorelle che venivano da Lampedusa (e già allora c’era il problema degli sbarchi di clandestini), con una bellissima anziana dai cognomi Fera Romanengo che reggeva le fila delle preghiere e ci faceva cantare in assoluta letizia Ave, ave Maria, ma che nel libro dei canti teneva la foto di un figlio morto giovane; ci raccontò un miracolo cui aveva assistito nell’immediato dopoguerra sul treno per Lourdes dei malati e da allora con il marito, avevano avuto consuetudine di tornare ogni anno per servizio. Condivisi la stanza d’albergo con un’altra bella creatura, Maria, una signora della riviera di Ponente, che m’invitò a mangiare i frixeǖ da lei preparati nella festa pubblica per il restauro della chiesetta del suo Paese. Anche lei per anni era stata pellegrina in servizio volontario.

Molti di noi avevano un proprio dolore ma alla cena della sera tutti cantavano, levavano le mani in atto di gioia.

In quel viaggio piansi nella via Crucis tutte le lacrime che avevo tenuto dentro durante la malattia della mamma; quindi dissi al confessore che non riuscivo a perdonare l’indifferenza omissiva verso gli anziani e per di più malati: gente anche tra gli amici o familiari che si defilano dalle visite perché non hanno la pazienza di aspettare il segno di riconoscimento da parte del sofferente, specie se la fisionomia è cristallizzata e resa fissa dal male. Il confessore mi sgridò perché dovevo perdonare e gli risposi che era troppo presto.

Quel pomeriggio rimasi molte ore là dove il Gave passa davanti alla Grotta ed era stata Maria  a dirmi che “fa silenzio” in segno di rispetto, davanti a quella rosa rossa in alto sopra la cappella che anche a febbraio fiorisce. Avevo sempre portato in portafogli il nome di tre giornalisti, non di Genova e che non scrivevano su giornali genovesi perché questi giornali avevano avuto molto rispetto per mio padre (data la stima di cui godeva per il suo lavoro a Genova), coinvolto come direttore di un ufficio finanziario in un processo. Lo si voleva montare come esemplare ed era anche "una vendetta" per rovinargli la nomina a direttore generale a Trieste, la sua città; finì in una bolla di sapone con la sua assoluzione  “perché il fatto non sussiste” pur se lo avevano accusato non solo di omissione d'atti d'ufficio dato che "il direttore non può non sapere" anche di favoreggiamento - accusa certo più pesante- perché avrebbe favorito un dipendente che si fece sei mesi in prigione e poi risultò del tutto innocente e fu scarcerato. L'avranno risarcito? Non so ma non credo!

Nei sei anni che passarono, di corso del processo, era stato dolore forte: avevo perfino creduto una volta, in campagna, quando passarono due aerei facendo il botto per aver superato il muro del suono, che mio padre si fosse sparato (e ricordo quella volta, in Bobbio, come salii le scale per andare da loro con il cuore in gola) pur se mio padre diceva del giudice al suo processo: "corre voce che dorma seduto per dolori vari o per la sua cattiva coscienza mentre io dormo disteso dato che al contrario di lui sono tranquillo". Però invece continuava ad arrovellarsi in monologhi infiniti rivolti alla mamma che ascoltava paziente e tremava forte di Parkinson (tremore scatenatosi per la prima volta quando papà aveva ricevuto l'avviso di garanzia) ma anche di dolore per lui. E in Bobbio appunto  li sentivo (ogni sera) e soffrivo per loro. 

La Lourdes del 1978 era stato un ringraziamento e il cero riportato mio padre l’aveva messo sopra il quadro della sua stanza disegnato a matita da un compagno di prigionia a Saida in Algeria dopo la definitiva sconfitta delle nostre truppe in Africa nel maggio 1943. Un altro momento buio della sua vita quello, senza perdere la fede nel ritorno e nel ritrovare i suoi cari, mentre a causa delle interruzioni postali (specie in Val Trebbia dove era ritornata ad insegnare la mamma) restava senza notizie nostre una volta per nove mesi, un’altra per undici. Ma Le scriveva: “posso dire come San Francesco, tanto è il bene che mi aspetta che ogni passo mi diletta”. Per questo motivo ho donato le mille lettere che i miei genitori si scrissero tra il 1934 al ‘45 alla Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, (AR) sotto il monte de La Verna dove il Santo ebbe le stimmate.

Quando quest’anno l’UCSI mi ha voluto premiare a Bobbio ho fatto tre dediche: a mia madre che vi fu ragazza fino al matrimonio a ventidue anni; a don Pino Zambarbieri, uno dei miei zii con monsignor Angelo e don Alberto, perché fu lui a spingermi a scrivere e a non chiudermi in casa dedicandomi solo ai figli perché conoscendo il mondo esterno li avrei meglio accompagnati da adolescenti e adulti; la terza dedica fu all’uomo (mio padre ma molti sapevano e non c’era bisogno di dirlo) che ha mosso il mio giornalismo, “un uomo coinvolto ingiustamente in un processo ma assolto perché innocente”. “Il mio giornalismo – dissi - è nato da una questione di mala giustizia (in un primo tempo) e per tenere la penna pulita, per non fare come quei tre giornalisti dei quaranta articoli in prima pagina e della notizia d’assoluzione all’interno in poche righe”. Avevo sempre desiderato andare a conoscerli se fossi diventata un poco nota come giornalista, guardarli negli occhi e dir loro: “non sono come voi”. Quei tre nomi che avevo nel portafogli li buttai nel Gave, lì davanti a Maria, ma non è servito alla mia memoria perchè ne ricordo nome e cognome, benissimo. 

Era però quello un primo perdono, speravo  di perdonare nel tempo l’indifferenza verso l’anziano ammalato, in particolare verso mia madre. “Stella del mare, brilla su di noi e guidaci nel nostro cammino”, (Spe Salvi,50)

                  Maria Luisa Bressani

 

I Recensione a Begonza sul Piccolo di Trieste il 19 gennaio 1978

II  Recensione su Sìlarus di Elisabetta Salati Di Iaconi

 

Perché chiudo con queste due recesioni a Begonza, mio primo libro edito, nel 1977?

Uscì sul Piccolo di Trieste l'unico giornale cui inviai il libretto, pubblicato per vincere la mia timidezza, tramite mio zio Gigi. Il titolo, a leggerlo ad anni-luce di distanza, questa è per me oggi l'impressione, è quanto mai significativo. "Nel sapore dell'autobiografia" è un po' la sigla del mio scrivere che per quanto mi nascondessi in panni altrui (nei racconti o romanzi o opere di Teatro spesso in panni maschili) rappresenta quella spinta personale a voler capire e farmi capire.

E da quella prima Recensione altri tratti più che veritieri su di me: sono a volte dispersiva, divagante, ecc.

Ricordo parola di Grazia Deledda quando scioccata dall'accoglienza alla sua prima prova autobiografica decise di "temperare la penna" ma di non scrivere più  "nulla sui fatti che potevano accadere d'intorno e nulla che potesse riferirsi a persone ed avventure sarde" Invece poi capì che la prima pista era quella giusta: l'interesse genuino per la sua terra e i suoi compaesani. Se non avesse studiato la sua Sardegna, se non l'avesse raccontata, probabilmente non avrebbe ottenuto il Nobel. Tutti siamo troppo debitori nell'immaginazione, nei pensieri e nei progetti alla terra che ci ha cresciuti".

Dedicavo queste parole nel 1991 a Grazia Deledda prima scrittrice presentata nel mio libro sulle Scrittrici del '900 italiano e c'è una frase da me scritta allora in corsivo per sottolinearla: "Uno scrittore coglie spesso nei 'si dice' della vita un'ingiustizia profonda verso la propria verità. Ne consegue la battaglia per ristabilirla almeno sulla pagina, che poi, se vale e sa comunicare, nel tempo si prende la rivincita".

Lo stesso concetto lo esprimo riguardo Natalia Ginzburg: "Dapprima lei si rifiutò alla memoria. La sua era fatta anche di cose terribili e angosciose, avrebbe dovuto trovare una mediazione. Voleva scrivere come un uomo, sfuggire ai sentimenti che si credono 'mondo femminile', voleva 'maneggiare storie per illuminare la realtà' ".

"Poi - ma era passato il tempo - tornò alla fonte della memoria che aveva già racchiuso nel nitore di Inverno di Abruzzo nel '44 e di Le scarpe rotte del '45. Vi tornò a passi da lupo ( a proposito di Lessico Famigliare, Natalia Ginzburg scrive: "Così arrivai alla memoria pura: vi arrivai a passi da lupo...") . Badate: passi da lupo, non da agnello. I lupi hanno scarni fianchi e musi in febbre come dice Kipling. Spinta da una fame imperiosa, dalla pista fulminea sulla selvaggina giusta. Un lupo è avido, irresistibile per imperio. Ormai Natalia sapeva identificarsi del tutto con il suo mestiere, ne era padrona assoluta. Il punto d'arrivo per lei: capire che in una storia importano e restano alcuni momenti vitali e particolari, l'intima qualità" ed è ciò che scrive in "Lui ed io".

Scusate se in questo Sito che è diventato un diario non solo professionale anche umano e della mia vita ho messo questi stralci dal mio libro sulle Scrittrici, identificandomi però una volta di più con loro. Perché quando alla pubblicazione di Begonza (e solo un libro dei tre che furono acquistati direttamente presso l'Editore Lalli era stato richiesto da Silvia Rinesi, mia compagna al Liceo, le mie 40 copie in omaggio le avevo tutte regalate), quando sentivo dire in mia presenza, contando sul fatto che "mite" non avrei replicato, ma sono anche quella che ascolta oggi e risponde domani: "Voi begonzatevi pure, io ho altro da fare..." ebbene rispondo ora. "Sì l'autobiografia, è stata anche un po' la mia sigla nel tempo, sì per il coraggio di mettere a nudo la mia anima, i miei pensieri".

Così quando Valerio Fiandra, direttore editoriale alla Lint di Trieste, mi regalò questo mazzetto di margherite alla presentazione a Trieste delle Lettere dei miei genitori, il 22 maggio 2003 (l'avevo voluta nella mia città natale e soprattutto in quella di mio padre il giorno prima della presentazione  alla Berio di Genova), gli dissi che nella I Recensione al mio I libro il recensore del Piccolo aveva inserito dal libro Begonza quella mia frase: "Vorrei essere una margherita...", perché allora era questo il fiore che amavo di più. Fiandra ne fu lieto e disse di non aver immaginato ciò e Fiandra non sa che pur essendo un po' arrabbiata con lui ancora oggi dato che a quella presentazione con "saccenteria cittadina" (della Trieste città d'élite, dei "siamo i più belli, i più intelligenti al mondo")  si permise di mettere in risalto la differenza d'ambiente sociale tra mio padre e mia madre, mentre poi mi telefonò Giovanni Talleri (v. Pagina Terre 3 Trieste)  per dirmi: "Come si è permesso di dire ciò quando si vede la finezza e la signorilità di sua madre in tutte le sue lettere a suo padre?"  Lo disse con sensibilità grande avendo compreso che me ne ero sentita offesa pur senza rintuzzare allora. Fiandra non sa un'altra cosa: pubblicai con lui e la Lint perché mi aveva raccontato di aver letto un piccolo manoscritto lasciatogli ad una presentazione da una signora schiva, Marta Ascoli, che la mattina dopo lui aveva deciso di pubblicare con il titolo "Auschwitz è di tutti" (l'ho messo alla Pagina "Gerusalemme Israele") e perché mi raccontò che era in caccia delle memorie scritte di chi ne avesse conservate sia da una parte che dall'altra del nostro confine orientale: la storia vissuta attraverso le tesimonianza di chi c'era è sempre così diversa da come si presenta sui libri di scuola!!!

Margherite dono di Valerio Fiandra, direttore editoriale Lint alla presentazione delle Lettere a Trieste il 22 maggio 2003, Libreria Minerva: con relatori Fiandra stesso e  Ugo Amodeo (RAI 3) e Giovani Esposito presidente Amici Caffè Gambrinus. Qui sono nel mio giardinetto al quinto piano a Genova e sullo sfondo la pianta di mimosa per cui qualcuno mi ha detto che sono "donna fortunata a possederne una": l'ha piantata mio marito.

Il giorno dopo 23 maggio 2003 le Lettere furono presentate alla Berio di Genova con moderatore Franco Bovio e relatori Mario Cervi, Minnie Alzona, Renato Dellepiane, preside Liceo King

"Sisto Dalla Palma e Lucia Mondella la donna dal pensiero segreto"

e Sindacati rovina d'Italia come certa magistratura.

 

Ho voluto mettere questo ricordo di Sisto Dalla Palma nella foto a sinistra insieme a Carlo Lizzani perché giudico una vergogna tutta italiana l'esposto qui a fianco. Da noi si è portato il Paese uscito dalla guerra con tanta speranza e con voglia di rimboccarsi le maniche, con genialità e creatività tutte italiane, lo si è portato al disastro attuale grazie a sindacalisti ignoranti e a magistrati privi di buon senso e grazie alla lottizzazione dei partiti su posti di potere ma anche di cultura. Dalla Palma lo ricordo come mio insegnante al Corso di Teatro alla Scuola Superiore delle Comunicazioni Sociali alla Cattolica di Milano e dove nel novembre 1982 di questo articolo che riporta anche le due foto ero ormai già diplomata: l'articolo è di Attilio Frassoni su Espansione. Di fianco l'esposto dei sindacati contro Dalla Palma allora  segretario generale e responsabile "ad interim" del Settore Arti visive della Biennale di Venezia.

L'articolo mette in luce la grande operazione di marketing della Biennale di quel periodo con Giuseppe Galasso, storico napoletano, presidente dell'ente e, oltre al ruolo di segretario generale di Dalla Palma, la direzione degli altri Settori affidata a Carlo Lizzani per il Cinema, Paolo Portoghesi per l'Architettura, Maurizio Scaparro per il Teatro, Mario Messinis per le iniziative di Musica.

Per le tre maggiori iniziative culturali di quel 1982 (Carnevale, Mostra sulle Arti visive, Mostra sul Cinema ) l'articolo porta dati ufficiali di mezzo milione di visitatori, però si mette in risalto come le spese sostenute per le mostre non sarebbero state coperte nemmeno per la  metà dai ricavi della vendita dei biglietti. Si cita il numero dei giornalisti accreditati alle principali manifestazioni spesso con mogli e talvolta con figli: 323  per il Carnevale, 1304 (di cui la metà stranieri) per le mostre delle Arti visive, 1450 di cui i due terzi italiani per la mostra del Cinema. Si fa osservare anche come la Biennale sia lottizzata dai partiti: Galasso repubblicano, Dalla Palma democristiano, due direttori di settore uomini del Psi e uno del Pci.

Si osserva che ci sarebbe voluto l'intervento  statale per ripianare il rosso di bilancio e si sa che in genere l'intervento dello Stato a favore della cultura è sempre stato fonte di parissitismo, di fondi a pioggia e di scadimento di ciò che è vera cultura.

Però i sindacati si sono scatenati come si vede nell'esposto a fianco.

Sindacati ignoranti, incapaci di aiutare la cultura, incapaci di affiancare ma anch'essi i sindacalisti malati di protagonismo come magistrati odierni che si giustificano con il vuoto di potere e il conseguente non intervento  per cui loro "devono" occupare preventivamente. 

Tutto ciò mi addolora profondamente. Le vie d'aiuto e sostegno potevano essere ben diverse, invece da noi si distrugge ciò che di buono è stato fatto, se s'individua "un carrozzone" si briga fino a diventarne parte (sindacati per primi in questo deleterio atteggiamento e per piazzare i loro affiliati). Si sono viste le "insurrezioni delle maestranze" nei giornali, si è vista una magistratura che uccide industrie e imprese... Quanti misfatti in questa nostra Italia che oggi vede crescere i suicidi dei tanti.

Voglio però ricordare Dalla Palma come professore: era un mito per gli allievi  e in fama di cattolico agguerrito. Cerco su Internet e apprendo che è morto il 2 gennaio 2011 a 79 anni, un anno dopo la morte della moglie Maria Toffanin sua compagna di liceo e con cui aveva festeggiato i 50 anni di matrimonio.

Dalla Palma aveva fondato nel 1974 il Crt, Centro di ricerca per il teatro e qui passarono tutti  i maggiori autori contemporanei del '900, europei  ed americani: il Barba, Grotowski e Kantor, W ilson e Beck, Foreman, Monk e il Bread and Puppet, l'Odine Teatret, il Living Theatre...

Il più bell'articolo che leggo in morte è il ricordo per lui all'Università cattolica di Annamaria Cascetta, altra mia insegnante in quella Scuola Superiore della Cattolica di fermenti innovativi, di cultura, dove il classico veniva proiettato nell'attualità contemporanea (altrove all'Università si era fermi e gli Atenei sapevano di vecchio) e a Cascetta mi sentii particolarmente vicina  dato che insegnava Teatro antico e la mia preparazione era ad esso più in sitonia per la laurea in greco antico. Leggo della partecipazione politica di Dalla Palma alla Dc come fondatore della Base, che ne rappresentava la sinistra e vide l'aggregazione dei De Mita, Marcora, Andreatta, Gerardo Bianco, leggo che ebbe incarichi prestigiosi come direttore del Piccolo Tetro, presidente di Fonit Cetra e dell'Accademia di Belle Arti di Brera. Cascetta non manca di sottolineare che Dalla Palma fu anche uomo di potere ed io aggiungo che da intelligente aveva capito che il potere culturale si agguanta meglio indipendentemente dal proprio valore se si è dentro la politica e - da intelligente - la sua politica se l'era cercata a sua misura fondando appunto la Base di sinistra della DC.

Di Dalla Palma Annamaria Cascetta dice: "originale, spesso furiosamente divergente... Chi gli rimproverava il brutto caratere sapeva che era il prezzo di chi aveva carattere". E lo chiamarono anche "il Professore del nuovo"

Ma le parole più significative del ricordo di Cascetta, mi sembrano per la collettività queste: "La convocazione della comunità intorno allo spessore di senso del segno che s'invera nel corpo e nel coro, che identifica il gruppo nella fondazione, nel suo progetto, nella sua utopia...L'esperienza del coro significa non solo essere all'interno del gruppo come individualità creatrice solitaria, ma come coscienze capaci di un moto di condivisione collettivo".

Era inevitabile che Dalla Palma insegnasse alla SSCS dato che era stato allievo di Mario Apollonio il fondatore di questa con Gianfranco Bianchi.

Il mio ricordo di lezioni ormai così lontane nel tempo si focalizza sull'interesse antropologico del Professore che ci spiegava come i Dervisci  venuti ad esibirsi in piazza del Duomo a Milano nel loro ruotare vorticoso di ballerini raggiungessero uno sato d'estasi, oppure lo ritrovo sempre per l'interesse di antropologo in un suo articolo che ho conservato sul Sabato del 26 luglio - 1 agosto 1986 (amavo quel giornale che avevo ricevuto in omaggio per i primi sei mesi e cui poi mi ero abbonata, anche questa un'operazione di marketing ma intelligente): "Il tam tam di Comunione: Meeting -Tamburi": "Ascolta il tamburo nel bosco" (incontro a Rimini dell'86) dove Dalla Palma spiega come il suono del tamburo possa avere ancora delle suggestioni per l'uomo contemporaneo. L'articolo inizia con la domanda provocatoria: "E se tornassimo al tamburo?" ma solo per spiegare che si  tratta di porsi verso la comunicazione in una prospettiva diversa da quella abituale che ha la supponenza di credere la crescita esponenziale dell'informazione coincida con un'espansione reale della comunicazione... Il tam tam nella foresta comporta silenzio teso, attenzione profonda e mobilitante per cui un individuo si concentra con tutto l'essere per captare il messaggio capace di dar senso all'attesa. E' tutta la superficie del corpo che viene investita dal suono prodotto con le percussioni, è un suono che mette gli esseri in una relazione empatica profonda...Tornare al tamburo è capire che qualcuno mi parla attraverso lo spazio e si avventa su di me con la sua fisicità, con le sue mani e mi costringe non solo ad ascoltare ma a farmi contagiare. E questo mi riporta alle condizioni di linguaggio non verbale. Daccapo Dioniso  che si ripropone contro le pretese apollinee della razionalità tecnologica, in cui certe radici del comunicare sono più esposte allo scacco". Questo per sintesi ma anche per frasi stralciate il succo di quell'articolo che poneva l'attenzione sulla comunicazione non verbale e ringrazio proprio l'Università Cattolica per aver incominciato a capirne il valore e ciò che si può captare intervistando una persona al di là di ciò che dice.

Uno stacco ritornando a Berlusconi il politico per cui iniziai ala vigilia della sentenza Mediaset a metter su questo Sito. Se voi lo guardate mentre parla vi sembra il criminale abituale che ha dipinto certa magistratura o non piuttosto un italiano con i difetti tipici dell'uomo italiano come il subire quasi senza difesa il fascino della bellezza femminile ma anche con un volto che parla per lui e che non è capace di nascondere i suoi sentimenti, le sue emozioni... e non sono certo da delinquente abituale, ma piuttosto di chi volendo fare qualcosa per la sua Patria ha subito una persecuzione processuale senza precedenti e questo anche per la sua statura di statista superiore alla mediocrità imperante.

Torno a Dalla Palma e lo  ricordo soprattutto  in un'epoca già di post-femminismo  e le femministe nel loro dissennato empito di suffragette di diritti non hanno gettato le basi per donne o figlie  più libere ma per ragazze d'oggi ancora più oggetto, specie le "scutrettolanti" dello spettacolo (il termine l'ho rubato ad un giornalista che lo ha usato e mi è sembrato molto appropriato), lo ricordo per il suo concetto alto della donna.

Dalla Palma di cui nell'articolo di Cascetta c'è il ricordo delle sue lezioni sui grandi della nostra letteratura da Dante a Manzoni con Pirandello e Beckett (non il Brecht tanto caro ad altri studiosi di Teatro) una volta ci parlò della Lucia Mondella dei Promessi Sposi, definendola "donna dal pensiero segreto", quella che sa perseguire un suo progetto di figlia, fidanzata, moglie e che porterà nella sua famiglia, un progetto di vita proba ed operosa. E pensando ad una mia definizione di queste pagine, le ciciucì-ciciuciò, ritengo che invece esistano ancora tante donne Prassede da mettere in tale categoria.

Ricordo pure, poiché nel brano seguente parlo anche di mio padre che questi anziano cambiava canale al materializzarsi sullo schermo di Alba Parietti e questo nonostante sia stata meno peggio di altre presenze nella nostra Tv di stato e lo faceva perché lo infastidiva la "volgarità" di quella donna. La Parietti mai saprà di ciò che sto scrivendo e dovesse saperlo immagino non se ne adombrerà, consapevole di quanto il suo "esser così" le abbia fruttato in termini d'immagine e di soldoni. Non parliamo se mio padre avesse visto Simona Ventura...e altre...

Quanto a Carlo Lizzani aggiungo il mio personale dolore per il suo suicidio e aggiungo  quello per la morte altrettanto disperata di Mario Monicelli il regista che tanto ci fece ridere con l'indimenticabile Brancaleone alle Crociate e cito questo titolo tra i tanti suoi importanti perché qui non sto scrivendo una critica delle sue opere, ma seguo una via personale di ricordi.

Tra i commenti su Internet per la morte di Lizzani ne trovo uno molto attento: "Non ha avuto o voluto l'aiuto materiale, fisico, psichico o (mi si passi il termine ormai scandaloso) spirituale di cui avrebbe avuto bisogno". Penso come l'autore di queste parole e sono convinta che uno Stato colto, ossia fatto da persone di cultura, appoggiate da sindacati meno rozzi potrebbe fare molto per alleviare la solitudine degli artisti e dei comunicatori quando la loro età s'inoltra. Ho già scritto che chi comunica in genere è la più solitaria delle persone e cerca di sfuggire a questo suo stato appunto attraverso la comunicazione ma lo Stato sa solo elargire contributi quando qualcuno sembra tirare o far cassa o audience e poi si dimentica di quel qualcuno negli anni in cui avrebbe più bisogno di ricordo e di riscuotere un minimo di riconoscenza. Pensate solo per citare il primo esempio di tante dimenticanze a quella legge che prende il nome da Bacchelli.

Della mia scuola alla Cattolica di quel tempo (ora è chiamata Alta Scuola in Media) ricordo della Biennale di Venezia negli anni in cui Dalla Palma fu segretario generale, il nome di Maurizio Scaparro  per il Teatro e ricordo che con lui già collaboravano due miei bravi compagni di corso, di cui rammento solo i cognomi: Rampinini e Davoli, provenienti dall'Emilia, dal piacentino mi pare.

Grande Università Cattolica, grande serbatoio di cultura e indirizzo di coscienze: serbo gratitudine per averla frequentata ed essermi lì diplomata due volte.

 

Chiudo ancora con l'ultimo mio ricordo di Sisto Dalla Palma, ormai a diploma conseguito forse per i saluti e insieme ad altri compagni di corso. Mi sentivo in festa ed ero andata accompagnata dal mio secondogenito allora sui 13 anni. Mi portavo sempre dietro qualche figlio quando non sapevo dove lasciarlo e una volta a lezione di Cinema,  film di Wajda avevo sentito compagne commentare sul piccolino che mi aveva accompagnata: Povero bambino!). Il secondogenito, Cesare, indossava un paio di pantoloncini bianchi alla pescatora (questi li rammento benissimo essendo stato un acquisto da parte mia che mi era paciuto) e sotto il ginocchio si apriva una piccola cerniera che partiva da lì per lasciar allargare un inserto azzurro come la sua maglietta. Ricordo un sorriso radioso di Dalla Palma con lo sguardo che passa da me al mio ragazzino con approvazione (più in quella mia veste di mamma che non nelle ore di lezione all'università) ed ora, leggendo la sua biografia in morte, scopro che ha avuto una famiglia con tanti figli, ben cinque e quindi in quel momento capiva le mie fatiche.

Però ho anche avuto un shock in quanto cercando su Internet prima mi era comparsa la scritta "Dalla Palma morto" e ne ho provato dolore dato che non lo sapevo e poi il giorno dopo rincontrollando i dati che ho messo qui sopra ho trovato la scritta "join to Sisto Dalla Palma su Facebook". Allora ho immaginato che questo social network possa mettere in contatto i vivi con l'al di là e di raggiungere una piattaforma spaziale dove "il Professore" come ormai lo chiamavano gli allievi per la sua indiscussa autorevolezza lì abbia fondato un altro Crt ed io che in quello milanese, madre pressata da tanti impegni, non misi mai piede, ora avrei la possibilità di accedere a questo nuovo spaziale. Salirei e porterei al mio Professore non quei testi teatrali, tutti premiati, ma che scrivevo prima di seguire la scuola della Cattolica quando provai umiltà, senso di pochezza per ciò che avevo concepito e non scrissi più, ne porterei altri, nuovi con il senno della maturità per avere quel giudizio che non osai chiedergli. Mi rimangono sui miei testi teatrali, olrre ai giudizi delle giurie (e sono più o meno  come quelli che si mettono a fine anno da parte di un insegnante per il rendimento dell'allievo a scuola) due commenti sul  poter mettere in scena davvero un mio testo: uno di Armando Bortolotto segretario generale al Candoni Teatro Ora Zero che riteneva i miei testi poco teatrabili per i lunghi monologhi e l'altro di Giorgio Barberi Squarotti che invece li aveva apprezzati proprio per questo dicendo che toccavano il sublime della poesia.

Ecco mi piacerebber venire da te, il Professore, per chiederti cosa che mai feci da allieva cosa ne pensi tu? Se magari nel potresti tuo Crt spaziale potresti rappresentarne uno, almeno uno tu che come ha scritto Annamaria Cascetta in quel suo splendido ricordo di te sei stato artefice di una tua drammaturgia che è stata di saggi scritti sulla scena: "Sì come luce...", "La notte dei re", "Mattutino". Che splendidi titoli, non banali, che in sé hanno un messaggio di luce... Come vorrei leggerli per valutarli nel mio silenzio interiore!

Ma capisco pure che forse la stagione della mia creatività potrebbe esser conclusa perché da giovani si sa osare di più e si hanno tante storie inventate o viste da raccontare, da anziani ogni storia sfuma, sembra niente.

Però come sarebbe bello poterti salutare, "Professore" (ammesso che ti ricordi ancora di me), su quella piattaforma spaziale e portarti un mio nuovo testo. Lo farò - tienilo come una promessa di futuro - se n'avrò uno dove  il cuore  pulsi forte e sul dolore d'uomo brilli luce di speranza .

Nel ricordo di Annamaria Cascetta ho letto di un  duetto di Dalla Palma con Flaszen il critico di Grotowski inventore del teatro povero ed io di Flaszen m'incantai quando dalla Provincia di Genova grazie a Mirella Rossini fui ammessa ad un Seminario per dieci persone appunto sul teatro di Grotowski. E c'era chi non voleva partecipassi dicendo che altri avevano più diritto di me (e magari ignorava che di teatro avevo scritto tanto ed ero sempre stata premiata e apprezzata) ma Mirella Rossini s'intestardì a farmi partecipare e le sono tuttora grata hel mio cuore. Poi vidi  una rappresentazione del Teatro povero, una via Crucis e qui al di là della critica, era un po' ridicolo vedere gli attori coperti di pelli e con lunghi peli sulle gambe non depilate che fuoriuscivano da quei panni primitivi. Mio marito non riuscì a trattenere le risate proprio come fece mia figlia piccolina quando la portai a vedere Spoon River e nel momento in cui dalle tombe emergevano i morti paludati in abito bianco per raccontare le loro storie di vita fu assalita dalla ridarola. Dovetti fuggire con lei dalla sala per non essere redarguita da chi voleva star attento e godersi lo spettacolo senza esser disturbato. Però sono contenta di aver scritto di teatro, di aver visto tanto teatro che ci fa  conoscere a noi stessi (per il Corriere Mercantile, su spinta della  allora redattrice Sandra Monetti, che ora è all'ufficio stampa del Teatro della Corte ho anche potuto svolgere critica teatrale) e soprattutto di aver imparato alla Cattolica da Sisto Dalla Palma e Annamaria Cascetta.

 E ancora sempre  su Internet  da un ricordo di cronaca riguardante Feltre, città natale del Professore, leggo del suo impegno come assessore all'urbanistica e per Feltre fu anche artefice con Giorgio Luciani del piano regolatore generale nato nel 1963, adottato nel 1975 e in vigore fino al '79: quindi anche un uomo del fare animato da passione civile e politica., soprattutto uomo di autentica fede cristiana radicata nella sua terra veneta.

 

 

 LXIII   Cammeo. - La giustizia: un'abbagliante lucidissima croce

Questa definizione la scrissi quasi 40 anni addietro pensando che ancorché uno di noi in Italia trovi giustizia, questa  - la giustizia giusta - resta difficile da praticare in molte parti del mondo. E allora per gli smemorati, i superficiali, i gossipari che godono quando altri - specie se è persona stimata e degna d'invidia - è nell'occhio del ciclone giudiziario, per quei giudici che fanno della giustizia un uso personale, per mettersi in mostra, per far carriera, peggio se la usano a fini politici, per coloro che hanno il pelo su cuore e stomaco, ecco riporto qui di seguito due scritti: 1) la breve lettera di Giacomo Zecchini di Limito Pioltello (Milano) pubblicata sul Giornale del 13 agosto 2014 nella pagina de La parola ai lettori (spesso molto intelligenti e preparati) e riguardante il Caso Bertolaso con titolo "Prima ti distruggono e poi ti assolvono"; 2) un mio scritto risalente al momento di quella definizione che caratterizza questo mio ultimo cammeo quando capii che la giustizia giusta è un'abbagliante lucidissima croce sia per chi la vuol esercitare in coscienza, con il timore di sbagliare e di commettere danni irreparabili a vite altrui, e  ancor più per chi la subisce finché non sia riconosciuta la sua innocenza o estraneità e questo scritto lo intitolai Il Deserto (e rappresentava il momento del dolore più vivo).

Però sempre al momento di quei lontani scritti accadde in Genova, la città dove vivo che una giovane sposa con due bambini e ammirata per la sua grazia, per la sua bella famiglia, per la posizione si suo marito, vide suo marito coinvolto in un processo e con accuse infamanti. Tentò di uccidersi e non le riuscì ed io immaginai di essere un commissario di quelli che furoreggiano nei gialli e riescono sempre a dinpanare le matasse più ingarbugliate: e questo commissario, cioè io, diceva: "Piccola signora bionda perché hai tentato di ucciderti? Salirò le scale della tua casa per chiederti il perché.

Ed ora che non ricordo nemmeno più il nome della giovane sposa oggetto di ammirazione e invidia, né ho mai saputo come si concluse la sua vicenda, ho però maturato tre momenti di reazione prima che innocenza o estraneità dell'imputato siano ristabilite, prima che un individuo accusato ingiustamente o chi gli è più vicino abbia voglia di azzerare la propria vita in un ultimo volo senza ritorno. senza ricordare che la vita è un dono, non ci appartiene salvo che nell'utilizzo di essa che ne facciamo:

1) ammazzarsi di fatica (e non basta a dimenticare, a non soffrire);

2) mettersi intorno delle ancore e possono essere persone care come i figli o un anziano ammalato e da te dipendente o perfino un allievo da aiutare nel cammino della sua maturità, ma come si vede non bastò alla "piccola signora bionda" e nemmeno a persone di successo travolte da qualche oscura disperazione

3) non dimenticare mai lungo il tempo che verrà, agguerrirsi, cercare giustizia finché non sia ristabilita, lottare per lucidare la croce-giustizia fino a farla brillare come il gioiello più bello che la vita possa averti regalato perché ti ha reso più consapevole dell'ingiustizia e della necessità di ribaltarla..

Utopia? No, se i magistrati per primi, quelli onesti e coscienti, decidessero di far argine  contro al pregiudizio e di isolare (come si deve fare on i terroristi) i colleghi che è chiaro operano male o hanno operato male. Sono mele marce e vanno gettate fuori dal cesto.

"Prima ti distruggono e poi ti assolvono":

lettera di Giacomo Zecchini

Il Giornale 13 agosto 2014

E' bellissimo uscire dal tunnel dell'infamia grazie ai giudici. Peccato che prima si distrugge tutto quello che c'è di buono  in una persona e poi, dopo la morte civile, ti dicono che sei innocente.

Il Deserto,

riflessione di Maria Luisa Bressani

Padre, tu dovevi saperlo che i padri non possono tracciare strade sicure per i figli. S'illudono. Un giorno ogni figlio, almeno un giorno nella vita, avrà davanti un deserto spazzato dal vento, da percorrere. Solo.

Non gli serviranno i soldi, né l'amore, né l'esperienza del padre. Nulla ti aiuterà ad attraversare sicuramente il deserto.

Tu sai che se incominci a camminare sulla sabbia ti lasci l'amore alle spalle e intuisci che ritroverai l'amore solo se arriverai alla fine della distesa di sabbia. E c'è tanto sole spietato intorno e vento che solleva la polvere, per cui in quel deserto hai l'illusione di camminare tra le vetrine a specchio delle vie della tua città e gli indumenti, gli oggetti di consumo, i prezzi, tutto ti avvoltola e oscilla paurosamente in quella tempesta di sole e di vento. Tu cammini e si fa silenzio intorno a te. Senti angoscia e desideri ascoltare di nuovo le voci degli altri.

Voci calde d'amore di sempre, mentre forse alla fine del deserto, quando ti accorgerai di essere alla fine, sarà ancora silenzio senza voci.

In quel momento può scattare la disperazione e tu puoi lasciarti travolgere. 

 

      
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