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7. INDICE     PROFUGHI GIULIANO DALMATI

 

Almanacco della Difesa del'Adriatico (Selezione 1997)  Dolore, calunnia, fanatismo

ESPROPRI clamorosi ma nessun ritorno all'Italia

1)Nicolò Luxardo De Franchi -  I Luxardo del Maraschino - 2009 mia recensione per il Giornale ma prima anno sociale della Dante Alighieri conferenza Silvio Ferrari

2) Riccardo Vlahov ricorda 2008

E Lettera Riccardo Vlahov  11 agosto 2009

Ancora i Vlahov  alla Wolfsoniana di Nervi Il Giornale 4 dicembre 2009

Foto Zara bombardata

Luoghi del mito: Due Testimonianze

1) Da Foiba Grande di Carlo Sgorlon (2005)

2) Su Zara  dal CNADSI di Rita Calderini testimonianza di Rossana Mondoni (2005)

Lino Vivoda Quel lungo viaggio verso l'esilio. Pola-Bologna-Ancora- La Spezia Il Giornale 22 febbraio 2009

Piero Tarticchio - Testimonianza (2007 invitato in Regione Liguria) Il Giornale 10 febbraio 2007

   "              "            - Lettera 11 febbraio 2007

Stefano Zecchi     Quando ci batteva forte il cuore - 2009

Giornata Ricordo 2013   - Claudio Eva (che non ha potuto intervenire) Il Giornale 15 febbraio 2013

XII Cammeo Claudio Eva e i magistrati che credono i terremoti si prevedano

Ricordo 2013     Annamaria Crasti Fragiacomo: Anita Quarantotto martire di Vergarolla 2013

    "              "        Tonci Kovacs  La famiglia Kovacs (dall'Ungheria a Trieste) - 2013

Maria Rosaria Dominis  -La panchina di pietra- Il Giornale 25 novembre 2011

Piero Tacchini   -Gli angeli esistono (da Pola a Piacenza) 2006

XIII Cammeo: Il Comunismo e la sua filosofia.

Esproprio proletario, tasse, cancellazione della Memoria, processi falsi con condanna  già scritta

Giornata ricordo 2005. Tre testimonianze.

Fiorina Crosilla.

Ferruccio Tessaris.

Nicolò Luxardo

L'Odissea dimenticata - Mezzo secolo di colpevole silenzio da Gli italiani dimenticati (Giuffré 2000) di Giulio Vignoli

Fabiana Martini  direttrice Vita Nuova di Trieste, Il Cittadino  2005

 XIVCammeo : Di Ferruccio  Repetti "Omaggio" sul Giornale nel 2009 a don Nevio Martinoli di Lussinpiccolo

Don Romano Il Giornale 4 febbraio 2006

Polemica: Fulvio Mohoratz Presidente Comitato ANVGD di Genova replica a Borzani assessore alla cultura. Il Giornale 2 marzo 2006

Devoto assessore smemorato: Non legge i libri che pubblica  Il Giornale 18 aprile 2010

A Basovizza una lapide per 97 finanzieri uccisi dai partigiani. Notizia rielaborata dal Piccolo 23 aprile 2010

Foto Stele Basovizza

Una Mostra a Nervi sulle Foibe.Norma Cossetto martire Settimanale cattolico 16 febbraio 1999

Espropriano anche le tombe Lettera di Lina Blau Remorino (Rapallo) al Giornale 3 aprile 1990

Il francobollo - caso diplomatico Il Giornale febbraio 2008

Il testamento di mons. Santin Arcivescovo di Trieste trovato al Santuario del Grisa  sopra Trieste nel 2004

    

            

Questa pagina per me è preziosa perché il rullo compressore del Comunismo che poi ha preso tanti nomi di Partito ha cercato di cancellare una Memoria, ha compiuto  un Esprorio proletario, ha cercato anche di impossessarsi con una "Tassa" dei posti al cimitero ed ha sostenuto, pensando che le giovani generazioi poco educate a scuola possano aver dimenticato, che si è trattato solo di giusta reazione ai misfatti del Fascismo. Invece da queste testimonianze risulta evidente che molti di coloro che sono stati cacciati dalla loro terra, lo sono stati non perché fascisti ma perché italiani e perché impadronirsi di ciò che altri hanno costruito fa sempre molto comodo.

Dicevo che per me è una pagina preziosa perché io sono nata a Trieste (e qualche profugo mi ha detto "fortunata lei"), ma Trieste per il periodo in cui ero bimba era territorio libero e non era italiana e noi vi tornavamo ogni anno il 4 novembre come in pellegrinaggio fino appunto al giorno in cui Trieste ritornò all'Italia e dormimmmo in quattro (papà, mamma, mio fratello ed io) nella stessa camera d'albergo perché erano tutte occupate.

E io dal giorno in cui a Genova allo stadio sentii gridare ad una partita con la triestina di cui mio padre era rimasto tifoso, ad un goal: "Titini, slavi" da quel giorno feci un patto con mio padre: "sarei andata allo stadio ma solo se lui mi comprava un libro". Anzi la proposta fu di mio padre ed io l'accettai di buon grado. Così imparai ad essere "atarassica" come qualcuna delle ciciuciò  mi ha definito davanti ai capricci dei miei figli, cioè acquisii una capacità profonda di concentrazione. Ora posso scrivere dovunque. Ed è quello che sto facendo in questo momento in montagna, estate 2013 a 2000 metri, in un campo giochi bimbi, con un calciobalilla appiccicato al mio tavolo e tra le urla dei piccoli competitori, ecc. Posso così fruire del Wi-Fi e mi va bene anche se ci sono 12 gradi e stando a scrivere per ore divento un ghiacciolo.

Allo stadio ebbi il permesso di non andare più quando ero già fidanzata e quando una volta a fine partita alzando gli occhi dal libro vidi un ragazzo che dava di gomito alla sua ragazza  indicandomi con un "ha letto tutto il tempo..." arrossii e un po' mi vergognai sentendomi a disagio come sempre succede quando  non si partecipa ad un rito in cui gli altri sono coinvolti emotivamente.

Questa pagina finisce con  testimonianze da me raccolte e pubblicate in una delle prime Giornate del ricordo di cui ho potuto occuparmi per le pagine di Genova del Giornale nel 2005.

La Regione Liguria grazie a Bruno Valenziano ha avuto una legge per onorare il ricordo che ha anticipato quella nazionale e quest'anno il 27 settembre al Teatro della Gioventù verrà appunto ricordato quel galantuomo di  Bruno Valenziano. 

Tra le  testimonianze che riporto alla fine ma per me importanti per affetto cosa che si verifica quando si scopre qualcosa che prima non si immaginava e che ci rende più consapevoli quella  di  Fiorina Crosilla di Udine, abitante a Genova, che mi cercò per raccontarmi del suo maestro, Tosi, cui gli slavi fecero bere il suo sangue (peggio di chi diede a Cristo acqua salata) per il solo fatto di essere italiano. Nel suo racconto iniziò ricordando che suo padre aveva sposato una slovena ma questo no bastò a preservarlo dall'odio dei titini.

Nello stesso articolo (ma è nel pezzo riportato sotto al primo perché trattandosi di una paginata del Giornale come ho già detto  non mi riesce di fare la scansione tutta insieme) la testimonianza di Ferruccio Tessaris  che lavorava nell'ufficio di mio padre.  E' stato mio testimone per il matrimonio quando si andava all'anagrafe prima della cerimonia in Chiesa (sarebbe il matrimonio civile che però non aveva significato per chi è cattolico e poco allora s'interessava della cosidetta laicità, al punto che mia madre quel giorno credette bene avvertirmì: "Guarda che non sei ancora sposata"). Tessaris di Pola insegnò a mio padre a pescare con delle nasse che costruiva di persona e che si ripescavano mediante  un rampino e seguendo allineamenti a terra, quindi senza segni visibili in superficie. Ricordo che mi raccontò che al "Diktat"  del 1947 venne in Italia con la famiglia e salvarono il pianoforte a coda, per loro più importante di altri beni.

Segue la testimonianza molto drammatica  di Nicolò Luxardo allora di 17 anni (e anche con un guizzo di ironia per i tedeschi che si mettono a bere negli elmetti i liquori che dalla fabbrica scorrevano nella canaletta verso il mare). Nicolò Luxardo che dalle alture assiste al bombardamento della sua fabbrica.

Tengo a precisare che gli articoli inseriti per primi dopo quello Dolore, calunnia fanatismo  sono i più importanti, questi però a fondo pagina mi toccano di più  o sul lato affettivo (vedi Tessaris) o su quello di giornalista (vedi per un titolo - e i titoli non li scrive l'autore del pezzo - che mi causò una brutta figura con l'assessore Devoto mentre lo stimo ed ero felice di aver ricordato in quell'articolo un importante libro da lui pubblicato Confine di Gino Brazzoduro).

 

Dolore, calunnia, fanatismo

da Almanacco della Difesa dell'Adriatico Selezione 1997

Dolore, calunnia, fanatismo.

Gli Accordi di Osimo, 10 novembre 1975, sancirono la perdita definitiva dell’ex zona B data alla Jugoslavia e la rinuncia alla sovranità italiana. Ma l’Italia, che aveva già pagato con il Trattato di Pace i propri debiti verso i belligeranti, in contropartita non ebbe nulla, anzi fu un tradimento del Memorandum di Londra (1954) che aveva inteso come un’area geopolitica unica il porto di Trieste e il suo Golfo, pur se amministrata da due Stati diversi. Anche oggi, grazie al nostro buonismo, l’entrata in Europa di Slovenia e Croazia non è stata condizionata da alcuna richiesta d’indennizzo né da garanzie sulla restituzione dei beni.

Il 19 agosto 1954 muore Alcide De Gasperi che aveva rappresentato l’Italia al Trattato di Parigi del 10 febbraio 1947 (il Diktat). Agli Atti alla Camera dei Deputati restano queste sue parole: <<Pur piangendo dobbiamo firmare questa iniqua mutilazione. Essa è la prova più palmare dell’ingiustizia di questo Trattato che porta all’esilio uomini, vecchi e bambini che avevano una casa, un’officina, un campo>>. In proposito l’Almanacco della “Difesa Adriatica 1997”, selezione di fatti e pubbliche dichiarazioni, registrate mese per mese dal 1942 fino ad anni recenti quando la memoria era in sentore di dover essere recuperata, commenta: <<De Gasperi, legalista e democratico, non la spuntò contro Tito rivoluzionario comunista, anticattolico, spregiudicato. Sentì il peso d’espiazione della guerra perduta, dell’indifferenza dell’opinione pubblica, dell’ignoranza del Parlamento italiano, dell’ostilità russa e degli alleati. Perciò  perse contro Tito>>.

Nell’Almanacco vengono ricordati alcuni fatti memorabili che ci calano nella fosca atmosfera di quel periodo storico. Ad inizio della rassegna, parole da La Foiba Grande di Carlo Sgorlon (1992) sulla propaganda jugoslava per giustificare l’uccisione dei preti: <<Parassiti, che non producevano nulla, solo chiacchiere e superstizione, e ...che si facevano mantenere dai fedeli>>. Sono stati uccisi 37 sacerdoti e tutti gli altri cacciati in Italia. I frammenti di quel Calvario sono scanditi dalle date: primo assassinato dai partigiani comunisti don Luigi Obit, martoriato e ucciso a Poggio San Valentino di Gorizia, tra il 2 e il 5 gennaio 1944; il 23 di quel mese la costrizione per i Francescani di trasferire l’Orfanotrofio S. Antonio di Pola a Cittadella (PD). Sono avvisaglie cui seguiranno chiusura e  trasferimento di altri conventi, deportazione di sacerdoti e monaci. Tra le tante date: il 19 giugno 1947 il vescovo Antonio Santin è aggredito e pestato a sangue a Capodistria, in morte, 17 marzo 1981, nell’Almanacco questo suo ricordo:<<L’Arcivescovo Santin ‘Defensor Civitatis in Caritate et Fortitudine’ (pietra tombale in San Giusto di Trieste) definiva le foibe ‘calvari con il vertice sprofondato nelle viscere della terra’>>.

Spulciando nel lunghissimo elenco di date: il 9 febbraio 1944 i partigiani slavi denunciano ai tedeschi come spia don Marco Zelco, parroco di Canfanaro, e i tedeschi lo impiccano su un albero della piazza; il 20 febbraio 1944 muore a Dachau don Federico Vecchiet, deportato dai tedeschi anche lui a seguito della calunnia degli slavi che avevano nascosto appositamente quattro bombe nell’orto della canonica.

Già la calunnia..., ne è testimone don Gerichievich, parroco di Curzola e Lagosta che in Don Romano racconta, memorie di un ex galeotto (Bruno Fachin Editore, Trieste) narra la sua prigionia a Treu e Stara Gradiska. Nel libro, sotto alla drammatica foto “Tra mare e terra ...Zara distrutta” dove i monumenti colpiti “galleggiano” sul mare, commenta: <<I partigiani comunisti jugoslavi comunicarono agli anglo-americani gli obiettivi da colpire; così, facendo passare i vari quartieri civili come zone militari, in 54 bombardamenti gli aerei provenienti dalla Puglia rasero al suolo i trequarti della città: gli abitanti di lingua italiana, che erano la stragrande maggioranza, volenti o nolenti furono costretti all’esilio>>.

Un pensiero va ai martiri, ai tanti civili inermi e agli eroi nei libri di storia però sbeffeggiati dal fanatismo di una parte politica. Alla ventina d’italiani civili, uomini e donne, che il 25 maggio ’45, legati a coppia con fil di ferro, avviati alla Foiba di Pisino, recitano, anzi gridano: “Padre nostro!”. Agli eroi irredentisti: nel marzo ‘47 parte da Pola con il “Toscano” la salma di Nazario Sauro che allo sbarco a Venezia viene insultata dai comunisti; quel fanatismo prosegue in tempo di pace: il 27 gennaio ‘56, a Roma sul Pincio sono sfregiati ancora i busti di Sauro (di Capodistria) e di Fabio Filzi (di Pisino).

Nel marzo 1947 l’ultimo viaggio del “Toscano” da Pola  portò ad Ancona 600 profughi. Insultati dai comunisti, salgono in fretta sui vagoni merci che li porteranno alla caserma Ugo Botti di La Spezia. A Bologna la Pontificia Opera di Assistenza prepara una minestra calda, ma i microfoni rossi gridano: <<Se il treno dei fascisti si ferma, la stazione entra in sciopero>>.

E, in guerra, tante le voci ufficiali di condanna ai comunisti e a Tito: 14 marzo ‘44, i Vescovi del Triveneto denunciano <<In Istria disprezzo, sangue, torture, lesioni, deportazioni>>; il 1°e 2 maggio ‘45 quando  i partigiani titini entrano a Gorizia e Trieste, il Comunicato Alleato avverte: <<Da Trieste sono scomparsi 2260 italiani, da Gorizia 1560, da Pola 908>>; il 19 il maresciallo Alexander: <<I metodi di Tito sono quelli di Hitler>>. Si distingue il cinico Palmiro Togliatti che il 7 febbraio aveva affermato: <<I veri interessi italiani consistono nel collaborare perché Tito occupi la Venezia Giulia>> e il 29 aprile rivolto ai triestini: <<Accogliete le truppe di Tito come liberatrici>>. In Italia nel maggio ‘49 i profughi sono umiliati dall’ordine del Ministero dell’Interno alle Questure Italiane di prendere le loro impronte digitali. E il filo rosso si allunga nel tempo: <<Il 13 luglio ‘70 Antonio Varisco da Zara, Tenente Colonnello dei carabinieri, è ucciso dai brigatisti rossi>>.

<<Fortunata Trieste che il 26 ottobre 1954 tornò all’Italia - dice qualcuno - e sperimentò solo 40 giorni di terrore titino (2 maggio/12 giugno 1945), non anni>>. Ma il 15 marzo 1953, un anno prima del ritorno, partirono con la Castel Verde 2100 triestini per l’Australia: erano stremati dalla crisi di lavoro della città sottoposta da 11 anni ad occupazioni straniere.

Oggi non si dimentichi tutto ciò affinché i 10mila infoibati e i 350mila dell’esodo non siano numeri senza le stigmate del sacrificio. Difficile farlo capire ai giovani: la memoria è stata “infoibata” per 60 anni.

                          Maria Luisa Bressani

 

      

ESPROPRI CLAMOROSI, ma nessun ritorno all'Italia

1) - I Luxardo del Maraschino

di Nicolò Luxardo De Franchi

 

I Luxardo del Maraschino, edito dalla Goriziana, casa editrice che ha pubblicato testi importanti per conoscere l’area giuliana e il confine orientale nelle due guerre mondiali, racconta la storia della fabbrica fondata a Zara dal ligure Girolamo Luxardo. Il primo accordo per la commercializzazione del rosolio, compiuto con un caffettiere di Gorizia, è del 1821.   E da due secoli la fabbrica, bombardata il 28 novembre 1943,  ricostruita nel ’46/’47 a Torreglia di Padova, esporta i suoi prodotti nel mondo onorando l’imprenditorialità italiana.

Una storia dove incontriamo D’Annunzio che battezzò “Sangue Morlacco” il rosso “ratafià” delle marasche prodotto dai Luxardo, scenari storici come la florida Santa Margherita Ligure d’inizio Ottocento e la povertà delle Missioni Apostoliche in Dalmazia dove i frati, per sopravvivere, si cibavano delle erbe dei prati delle cui virtù per infusi e liquori erano depositari.

La storia – antica - inizia  con Girolamo Luxardo, “piccolo” ligure scartato alla leva durante la breve Repubblica ligure napoleonica per la sua statura di  147 centimetri, troppo piccola  rispetto a quella del metro e 63 altezza media per le reclute del tempo. Nato nel 1784 a Santa Margherita Ligure, più di 5000 abitanti e fiorente per la fabbrica dei cordami, la pesca del corallo e l’arte dei pizzi, a sei anni rimase orfano di padre, a 13 vide la caduta della gloriosa Repubblica di Genova con la nascita della Cisalpina di Napoleone, a 22 sposò la genovese Maria Canevari, figlia di marchesi che gli diede  15 figli: amministrava i beni durante i viaggi d’affari del marito e fu la prima sperimentatrice della ricetta del maraschino.

Rimasto vedovo, un anno dopo sposò Luigia Amodio, ragazza veneta di 26 anni che andò a conoscere per darla in moglie al terzogenito cui aveva affidato la ditta. Rientrato a Zara con la giovane moglie, si racconta che, battendo la spalla del figlio, disse: “Tu sei giovane, Nicolò, puoi aspettare; io no”.

Agli inizi della fortunata iniziativa imprenditoriale Girolamo si era recato a Zara per investire nel campo del corallo, attività per cui l’Austria offriva privilegi e franchigie.  La città, conquistata dagli austriaci nel 1813 e rimasta nell’intreccio asburgico per cent’anni, ad inizio ‘800 aveva quindici distillerie, produttrici di un rosolio sopraffino (tratto dalle marasche dalmate), che però erano in crisi. Girolamo, da buon ligure, fiutò la possibilità di “fare affari”, decidendo di rilanciare il settore. Per potenziare il commercio del maraschino, si fece nominare viceconsole per la Dalmazia dal re di Sardegna al cui Regno, caduto Napoleone, era stata annessa Genova con i suoi territori liguri. Colse l’opportunità di una politica di penetrazione commerciale lungo le coste mediterranee d’Africa e negli scali del Levante promossa da Carlo Felice. Ebbe successo suscitando la rivalità dei distillatori zaratini ma soleva dire: “più la stella brilla, più l’invidia strilla”.

In questa storia di famiglia ci commuove il forte attaccamento alla propria terra, l’Italia, che per Girolamo e i discendenti resta <<la Patria>>. Girolamo nel 1827 come residente da dieci anni a Zara per legge avrebbe dovuto essere naturalizzato cittadino austriaco ma inventò mille  cavilli per non perdere l’italianità. Nel 1833 ottenne di fregiare la propria produzione con il simbolo dell’Aquila Imperiale austriaca (tuttora nel logo), però nel 1848 volle la bottiglia del maraschino tricolore (bottiglia verde, tappo rosso ceralaccato, etichetta bianca) in omaggio a Carlo Alberto che, impegnato nella prima guerra d’Indipendenza, il 23 marzo aveva innalzato il Tricolore a bandiera del Piemonte.

L’italianità, nella seconda guerra mondiale, rese i Luxardo vittime d’elezione da parte dei “titini”. Zara fu città martire: dei 21372 abitanti, quasi tutti italiani nel 1940 con un 5% croato, 14000 furono esuli in Italia, 4000 vittime delle 60 incursioni aree anglo-americane e 1000 degli slavo-comunisti.

L’autore del libro-ricordo, Nicolò Luxardo, diciassettenne al momento del bombardamento della fabbrica,  raccoglie la gloriosa e drammatica storia di famiglia, strappandoci anche il sorriso, quando narra dell’incendio sviluppatosi nel bombardamento della fabbrica: i militari tedeschi, impegnati nello spegnimento, vedendo i distillati scorrere nella canaletta che scendeva al mare, fecero coppe degli elmetti e si ubriacarono!

Nel libro include una foto del padre Pietro, giustiziato dai titini, di cui non seppe mai né come né dove. La didascalia: “Novembre 1944 - Nonostante i bombardamenti e le rovine Pietro rimane al proprio posto a Zara; si servirà di una bicicletta sgangherata per andare alla ricerca di ciascun dipendente cui ancora spetta una somma per il lavoro svolto prima della distruzione”.

[Nicolò Luxardo De Franchi, I Luxardo del Maraschino, Libreria Editrice Goriziana, 2004, euro 16,50, pp.211]

                                     Maria Luisa Bressani

 

2)  Riccardo Vlahov

ricorda

Zara, perla d’italianità, fu capoluogo storico della Dalmazia e unica città dalmata annessa al Regno d’Italia dopo la prima guerra mondiale.

Fu bombardata pesantemente dagli angloamericani sulla falsa indicazione dei titini di obbiettivi militari per distruggere l’unico centro rimasto a maggioranza italiana. Subì 60 incursioni aeree per cui già nel ’42 la parte storica della città era in macerie, come è documentato in Vennero dal cielo, 185 fotografie di Zara distrutta, 1943-44, a cura di O. Talpo e S. Brcic. In Dalmazia. Una cronaca per la storia (1943-44) (Roma, 1994) Oddone Talpo ha raccolto le testimonianze delle efferatezze dei partigiani slavo-comunisti dopo l’ingresso in città il 31 ottobre 1944 e la mattanza di 372 persone, nominativamente ricordate: ricordare non è per rinfocolare odi o riacuire dolore di chi non ha smesso di piangere i propri morti, ma per riprendere in futuro il passato di civile convivenza. Zara della storia romana, veneta e italiana, ebbe sei Accademie, la prima, degli Animosi, fondata nel 1562 e l’ultima, l’Economica-Agraria, nel 1793; ebbe la Biblioteca Paravia con 66571 volumi e l’Archivio di Stato con 18887 volumi.

A Zara, dal 1912 al 1945 era attiva una sezione della Società Dante Alighieri che è stata ricostituita nel 1995. A <<Genova 2004>> la Dante  propose un programma di conferenze su queste terre, in particolare sul forte legame storico con Genova di Zara e di Ragusa, un tempo detta Repubblica di San Biagio. Nel Rinascimento nella ricorrenza di San Biagio le navi che entravano in porto a Genova davano un obolo per la cappella dedicata al Santo in Santa Maria di Castello, centro delle reliquie dei ragusei. Il progetto non ha avuto diritto d’asilo tra le tante manifestazioni culturali.

Zara è stata città colta, di vivace vita sociale, di distillerie, le cui antiche ricette sono state nazionalizzate.

“Bisogna far giustizia - commenta Riccardo Vlahov la cui famiglia prima della guerra aveva la fabbrica dell’<<Amaro Zara>> e cento operai -. Far giustizia su silenzio e omertà di menzogne riguardo l’esodo, perché un establishment  politico consegnò una città e una popolazione italiana ad una terra straniera. Nella nostra famiglia eravamo antifascisti e lo mettevamo in pratica nelle assunzioni degli operai aggirando  filtri imposti dal regime, ma ciò non servì a proteggere mio padre Ramiro. Per potersene andare libero con la famiglia nel ’44 gli fu estorta la donazione delle macerie dalla fabbrica. Il nostro amaro era forte e secco, con poteri medicinali, e la ricetta era stata consegnata al mio bisnonno dal monastero per cui era fornitore di droghe speziali. Ho una foto del 1920 in cui se ne vede la pubblicità su una casa di New York”.

 La madre Dianella,78 anni, ricorda che i Vlahov erano venuti a Zara dall’italiana Sebenico nel 1861 e che pure la sua famiglia, i Gilardi, aveva una distilleria in Zara da cui esportavamo estratto di maraska nel nord Europa. Vive a Bologna con in cuore il ricordo del mare e vento dalmati, del Circolo della Vela, della “sua” Zara, città tutta italiana e bellissima.

                           Maria Luisa Bressani

 

Luoghi del mito.

Luoghi dell’immaginario di ciascuno e di tanti sono diventata le terre degli esuli giuliano-dalmati, per ognuno di loro sono anche luoghi del “mito” e abbracciano Istria Fiume Quarnaro Dalmazia.

“Noi siamo la nostra memoria”, parole del professor Claudio Eva l’anno passato al Teatro delle Gioventù per la giornata del ricordo. Ma cosa è stato l’esodo per chi è venuto via bambino da queste terre, amate? Alcuni hanno raccontato, ma le storie sono tutte personali al di là dei dati che bisogna ricordare agli ignari ragazzi d’oggi: 10/12mila gli infoibati, 350mila gli esuli.

Riccardo Vlahov ricorda.

Alla Wolfsoniana di Nervi nella mostra Pubblicità e Propaganda – ceramica e grafica futuriste sono esposte due coloratissime bottiglie dei Liquori Vlahov di Zara: “Cric e Croc”  del 1934 di Romeo Bevilacqua e “Abissini” del 1938 di Mario Anselmo, artisti  della Casa Mazzotti di Albisola.

Romano Vlahov aveva fondato nel 1861 la Liquoreria che come i Luxardo ebbe lo speciale Privilegio dispensato dalla Casa D’Austria-Ungheria.  Tre i prodotti più noti: l’Amaro Zara, basato su una ricetta avuta dai frati, il Maraschino, un liquore dolce a base di maraska (un’amarena locale), lo Cherry brandy, più secco e di color rosso rubino.

“Mia sorella Lia e mio cognato quando costeggiano in barca a vela la costa dalmata, mi portano l’amaro Vlahovac - dice Riccardo Vlahov-. E’ simile al nostro nel sapore ma vi si avverte la mancanza di qualche componente, mentre quello riproposto dalla Casoni di Modena cui fu ceduto il marchio, è diverso e per me abominevole. ‘Quelli da Biagio’ significa il nostro cognome e subito ci distingueva dalla gente slava perché è il Santo protettore delle genti latine. Nella New York anni Trenta le insegne pubblicitarie della Distilleria campeggiavano alte fin cinque piani di casa. Di Zara però non ho ricordi miei. All’esodo nel ’48 avevo due anni e crebbi a Bologna dove fu faticosamente reimpiantata la fabbrica espropriata dagli jugoslavi. Forse posso considerarmi fortunato per non aver avuto la possibilità di ricordare cumuli di macerie, truppe di occupazione e fame nella mia città natale che d’improvviso mutava il nome in Zadar. Quando fu bombardata la fabbrica furono sganciate bombe da una tonnellata che i miei, in quel momento sulle alture in campagna, scambiarono per manifestini pubblicitari finché non videro fumo e fuoco. Ora la mia città è una città morta e la richiamo alla memoria come una persona defunta che non ho conosciuto nei suoi anni migliori”.

Riccardo è figlio di Ramiro uno dei tre fratelli Vlahov  proprietari della Liquoreria. Ramiro si occupava di personale e spedizione, Romano laureato in chimica dei liquori, Roberto era dirigente amministrativo. A Zara è tornato una sola volta a 15 anni, con il padre, dopo aver celebrato nel 1961 a Bologna il centenario della Distilleria. Allo sbarco molte persone commosse erano ad accoglierli. Suo padre assoldava gli operai stagionali non tramite la Camera del Lavoro Fascista che in una sorta di accordo sottinteso non gli metteva i bastoni fra le ruote. Li sceglieva tra la gente che aveva più bisogno, di qui l’affetto grande. Lo stesso affetto che dimostra chi a Zara tiene in ordine, ornata di fiori, la tomba Vlahov con  il dolente Angelo della pietà.

Di sé aggiunge ancora Riccardo: “Non ho ricordi di Zara se non tramite le fotografie e ne ho restaurate due della Distilleria”. Il suo La Fotografia. Tecniche di conservazione e problemi di restauro, elaborato con la collega Maria Luisa Masetti, pubblicato  nel 1987 per conto dell'Istituto per i Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna, è stata la prima pubblicazione in lingua italiana a presentare su basi scientifiche la ricerca sulla conservazione e restauro di foto d’arte e antiche. Una pietra miliare.

“Forse mi rendo conto solo ora delle probabili cause della mia dedizione professionale (e non solo) alla fotografia (su Internet la voce “riccardovlahov” ha 15 pagine di pubblicazioni, regie ecc.). La fotografia ha rappresentato nel tempo e rappresenta tuttora uno dei pochi mezzi di collegamento con le mie ‘radici’. I racconti di genitori e parenti sfumano, le immagini rimangono per richiamare alla memoria luoghi cose persone situazioni scomparse per sempre”.

Non a caso racconta di cercare talvolta con Google Zara, “oggi città mostruosa, ben diversa da quella del passato, e di avervi ritrovato anche la casa dove è nato”.

Sua madre, Dianella Guaraldi, era di una dinastia di distillatori, la nonna materna apparteneva ai Giraldi che in Zara avevano la Distilleria Tommaso Stampalia.

Per capire Zara Riccardo indica due volumi: Vennero dal cielo - Zara distrutta 1943/44 di Oddone Talpo e Sergio Brcic(Palladino); Zara. Una città tra storia e leggende di Gino Bambara e Antonio Cepich (Vannini). L’incipit del secondo: “Zara, la vecchia Zara, non esiste più, è scomparsa assieme alla sua popolazione, gli Zaratini di antica schiatta veneta. Alle distruzioni dal cielo si era aggiunta la torbida stagione segnata dal sangue, un’insensata pulizia etnica”.

                                  Maria Luisa Bressani

 

Quel lungo viaggio verso l'esilio. Pola-Ancona-Bologna-La Spezia

di Lino Vivoda

Pola al censimento austriaco del 1910 era al 75% abitata da italiani, nel 1946 28mila polesani firmarono per abbandonare la città se assegnata alla Jugoslavia. Censiti per ribattere le accuse dei titini che fossero “ricchi pescicani borsari neri”, meno di un migliaio risultarono industriali e professionisti, gli altri artigiani, operai, commercianti, impiegati e privati. Quando fu negato “il plebiscito” (e a San Francisco le Potenze Alleate avevano giustificato l’entrata in guerra con la difesa del principio di autodeterminazione dei popoli) non rimaneva che “il plebiscito dell’esodo”. Si aprì ufficialmente il 23 dicembre ‘46 prima del Trattato di Pace di Parigi del 10 febbraio ‘47 (il Diktat): “italiani due volte per nascita e per libera scelta”, come disse Giuseppe Saragat presidente della Repubblica. Sono schegge fiammeggianti dal nuovo libro di Lino Vivoda, esule da Pola a 17 anni con altri 2155 polesani sul IV convoglio del 16 febbraio ‘47 del “Toscana” (che compì altri dieci tragitti): Quel lungo viaggio verso l’esilio. Pola-Ancona-Bologna-La Spezia, (Edizioni Istria europa. Imperia 2008).

Alla partenza viene a salutare la famiglia Vivoda l’affezionata Antonietta che stirava a casa loro, una comunista sfegatata, chiedendo: “E quando il comunismo comanderà anche in Italia dove andrete?” “In Australia”, rispondeva mamma. “E quando arriverà anche là?” “Magari sulla luna, mai sotto i comunisti”.

La memoria della pulizia etnica comunista titina ad una prima stima fu “di cinquemila morti infoibati che - fa osservare l’autore - salivano a ventimila con gli uccisi in vari modi, appesi ai ganci di macellerie, fucilati, annegati con pietre legate al collo, morti di stenti nei campi di rieducazione”. Diventato studioso di storia patria oltre che funzionario del Ministero del Lavoro, Vivoda punta il dito sui falsi storici in atto. Il negazionismo è alimentato da pseudo-storici (la Kersevani, la Cernjal), da altri disinformati sulle foibe,  Giacomo Scotti, Pedrag Matvejevic, al punto da sostenere che i fascisti per primi gettarono in foiba autocarri pieni di prigionieri. E non risparmia la “propaganda ufficiale” dei presidenti Mesic di Croazia e Drnovsek della Slovenia su “un’occupazione italiana dell’Istria solo dal 1918 al 45”, ignorando la storia: dal 178 a.C. quando i Romani raggiungono le Alpi orientali alla costituzione dei liberi Comuni medievali che accomuna l’Istria all’Italia del Nord e che i popoli Slavi non conobbero  al forte legame dal 1300 con Venezia, alla lingua.

Il libro s’apre con il distacco dal suo mondo giovanile: la messa di mezzanotte del Natale 1946 con lui nel servizio d’ordine degli esploratori cattolici dell’ASCI di Pola, il 31 dicembre l’addio collettivo dei polesani con il canto dei Lombardi al Teatro Ciscutti, poi il commiato scout con la bandiera italiana ammainata, poi la visione della sua città vecia, della rivendita di pane e latte di nonna Maria, dell’osteria con il bigliardo di nonna Caterina...

“O signor che dal tetto natio” è il canto struggente degli esuli quando la nave abbandona il molo”.  Questo libro è  musicale per l’inseguirsi di canti profondamente connotativi: all’arrivo del “Toscana” ad Ancona da dietro le file dei soldati sul molo echeggia Bandiera rossa, cui il pubblico risponde con fischi e dalla nave con Fratelli d’Italia. Quando arrivano in treno a Bologna, il capitolo “Niente cibo al treno dei fascisti” riporta un episodio noto, ma qui insaporito delle frasi che uno degli esuli grida alla lettura del comunicato per altoparlante: “Tu mare putana gho fato due anni el partigian in bosco e ti me ciame fascista”. “Gavemo lassado ste merde in Istria e se li trovemo anca qua”.

Il racconto si circoscrive in due momenti. Il primo, alla  partenza per far capire la tensione del tempo. A bordo del “Toscana” vengono trovate due valige di esplosivo messe da un agente dell’OZNA (polizia segreta di Tito) per far saltare il piroscafo in mezzo all’Adriatico. Si sarebbe ripetuta la strage di Vergarolla, spiaggia di Pola, (18 agosto 1946) in cui tra le settanta vittime di una festa popolare della Pietas Julia, restò Sergio, il fratellino di otto anni dell’autore. La salma fu inviata (e anche altri polesani si portarono via i morti) al Cimitero Dei Boschetti di La Spezia, dove ora riposa il nucleo originario dei Vivoda.

Il secondo momento: l’approdo. Dalla caserma spezzina Ugo Botti l’autore riuscì ad andar via dopo 8 anni ed entrato nell’associazione dei profughi, l’ANVGD, riuscì a far costruire per gli ultimi che la lasciarono 16 anni dopo (1963) 42 appartamenti a Rebocco nel terreno donato dal Comune di La Spezia. Alla partenza si era ripromesso di tornare senza passaporto nella sua terra ed ha potuto farlo: per il futuro spera in un’Istria europea. In cuore il canto dell’Adio a Pola (di Arturo Daici): “I disi che bisogna far valise che in primavera dovarò pompar con quattro fazoleti e do camise e con do brazi che sa lavorar/ Do robe vojo cior per ricordar/ In t’un scartosso un tochetin di Rena/ in’na fiascheta un fia del tuo bel mar.../Solo do lagrime/ una per ocio/ e po’ in zenocio/ questa tera baserò”.               

                                 Maria Luisa Bressani

                             

 

Piero Tarticchio a Genova. Per il Giorno del Ricordo, organizzato dalla Regione il 12 al Teatro della Gioventù, è stato invitato lo scrittore di Gallesano di Pola (Le radici del vento, Nascinguerra, Storia di un gatto profugo), che da bambino ha vissuto il drammatico esodo dall’Istria.

Ha coltivato il dovere di far memoria.  Chi meglio di lui ne ha diritto? Sette infoibati in famiglia, tra cui il padre. Aveva sette anni quando il cugino don Angelo Tarticchio, parroco di Villa Rovigno, subito dopo l’8 settembre fu prelevato a casa, di notte, come un criminale: calci, pugni, bestemmie; fu incarcerato a Montecuccoli di Pisino d’Istria. Nel testamento spirituale scrisse: “Chiedo perdono a tutti e tutti perdono di vero cuore”. Fu gettato con altri 43 detenuti, legati con filo spinato, in una cava di bauxite: lo avevano evirato, gli cacciarono i genitali in gola, lo lapidarono. Lo riesumarono dalla cava per “presentarlo”, con una corona di filo spinato in testa, a madre e sorella.  Questa dura storia è narrata con il titolo “Il primo martire delle foibe” da Roberto Beretta, Storia dei Preti uccisi dai partigiani (Piemme, 2005).

Le foibe oggi si conoscono tutte?

“Dei miei sette infoibati di famiglia l’unico documento riguarda don Angelo, il primo ad essere giustiziato. Nel ’43 vi furono 700/800 vittime e 10/15mila a guerra finita, ma non ci sono documenti. In Croazia non c’è una foiba indicata neanche a morire. Oggi si auspica la riappacificazione di due popoli divisi dalle ideologie però a denunciare l’odio etnico è anche il bosniaco Ivo Andrić, premio Nobel nel 1961, autore del Ponte sulla Drina. E’ una cenere che copre le braci, basta un soffio di vento e il fuoco divampa. Fin lo stupro per quelle genti fu legge: è punire il nemico ingravidando la sua donna”.

Odio etnico? Non ci fu anche ritorsione contro il mal fascismo?

“I primi ad essere gettati in foiba sono stati non i fascisti ma gli antifascisti e la resistenza del CNL. Con il Giorno del Ricordo si è consegnato il passato alla storia; la verità non è mai venuta a galla; resta più alta la voce di chi ci accusò di essere nazionalisti e fascisti. Non chiamano noi esuli a dire la nostra storia, (Genova però ha chiamato), ma personaggi ambigui di oltre confine. Le foibe sono quel che sono, sono lì a testimoniare, ma nulla può smentirli.

Mio padre (e gli s’incrina la voce) di buon cuore verso i propri paesani con la sua moto nel 1944 portava partigiani feriti all’ospedale forzando i blocchi tedeschi. Era un italiano. Lo ammazzarono e di lui non fu trovata traccia. Quelle terre non sono mai state slave, sono state latine, bizantine, veneziane per cinque secoli, austriache per un secolo e poi italiane.

Tito però aveva mire precise sull’Istria, doveva far sì che gli italiani se ne andassero. Oggi il suo disegno si è compiuto. In Istria vivono 29mila italiani, erano 450mila; 9 italiani su 10 sono venuti via. Ancor oggi una certa sinistra nega che abbiano preferito l’esodo, giustificano la loro fuga con la paura di ritorsioni per i crimini commessi dai fascisti. Vengono esibite cifre fasulle (250mila morti causati dagli italiani) e non parlano dei nazisti, dell’operazione Naufragio, della dipendenza da Berlino dopo l’8 settembre. Quegli italiani arruolati commisero azioni di guerra, altra cosa fu l’atrocità degli slavi: Tito si vantava di 115mila uomini massacrati”.

Perché l’Italia rinunciò all’Istria?

Deve far memoria il sessantennale del Tratto di Pace che sancì la perdita della Venezia Giulia e di parte della Dalmazia. Gli italiani d’Istria non ebbero la possibilità del plebiscito: il terzo e quarto comma della Carta Atlantica (agosto 1941) sanciscono che ogni popolo ha diritto all’autodeterminazione, che i cambiamenti territoriali dovevano essere approvati dalle popolazioni interessate. Ci fu negato. Esistono leggi per i vincitori e leggi per i vinti. Avvenne un fatto increscioso: se l’Italia avesse chiesto, appoggiato o favorito il plebiscito, si doveva concedere agli altoatesini, il 95% di lingua tedesca, con l’inevitabile passaggio dell’Alto Adige all’Austria”.

Il baratto non avrebbe accontentato tutti?

“Noi siamo una terra povera. Lo scrive Bepi Nider, il maggior poeta istriano: ‘Istria! Terra di pietre e di vento/terra d’odio e d’amore./Istria, terra del mio dolore’. Il Trentino Alto Adige invece aveva tutte le centrali elettriche che servivano il Nord Italia. Rinunciare a quella fonte di energia sarebbe stato un atto di autolesionismo. Si barattò l’etica con la politica: l’Istria fu sacrificata, gli istriani confinati nell’oblio perché Tito, con la leadership dei Paesi non allineati, aveva acquistato il rispetto dei Paesi capitalisti, aveva rinnegato la sua fede al Kominform, aveva  rifondato il Partito comunista revisionista. Pur comunista, si poneva al di fuori del blocco sovietico. Come accusarlo di crimini di guerra?”

Un tornaconto economico? E le idee che sono ciò che fa uomini?

“Alla fine delle ostilità l’Istria e Pola, città di cantieri, non avevano manodopera: il PCI manda 2850 operai di Monfalcone, di fede marxista-leninista, verso il sol d’avvenire. Poi, nel 1947/48, la seconda pulizia etnica: i comunisti ortodossi vengono inviati a Goli Otok, detta Isola calva o nuda. “A causa della tortura psicologica due ore a Goli Otok erano peggiori di due mesi a Dachau - mi disse uno che tornò da quell’inferno-: il compagno di cella doveva denunciare il proprio compagno di cella, ma io sono ancora comunista, concluse”. La risposta fa capire quanto il comunismo sia fede.

L’Italia dei fascisti è durata vent’anni ma l’Italia degli antifascisti dopo sessant’anni non scompare: richiamano il fascismo per giustificare azioni non degne di una democrazia”. [Per non parlare dei crimini commessi dai regimi comunisti].

“In Italia esiste una vera democrazia?”, chiede polemico il volantino che verrà posto sulle sedie al Teatro della Gioventù dal fiumano Fulvio Mohoratz, presidente della Consulta Regionale ANVGD (Associazione nazionale Venezia Giulia Dalmazia). E continua: “Dove non è verità non è giustizia, dove non è giustizia non è libertà, dove non è libertà non è democrazia”.

                       Maria Luisa Bressani

 

 

 

 

 

Testimonianza di Piero Tarticchio

Sent: Sunday, February 11, 2007 7:41 AM

Subject: RE: Il Giornale

 

Gentile signora Maria Luisa Bressani,

grazie per il suo impegno teso a far conoscere scampoli si verità a chi fa il gioco delle tre scimiette, ma soprattutto per quelle giunte progressiste radicali, becere e retrive che, facendo una "Contro giornata del Ricodo" presentando alcuni disinformatori venuti da oltre confine. Costoro, in nome di una fratellanza italo-slava, negano eventi accertati, rievocati pesantemente persino dal nostro Capo dello Stato. Un mio coetaneo di La Spezia che ebbe la sfortuna di perdere suo padre nello stesso gruppo di cui faceva parte il mio, si è scagliato contro la signora Alessandra Kersevan, offeso dalla sua spudorata testimonianza negazionista. Sembra che sia intervenuta la DIGOS e la conferenza sia stata sospesa. Sto aspettando maggiori dettagli da La Spezia per scrivere un articolo da pubblicare sul mio giornale.

E' possibile che questi pseudo italiani imbevuti di odio verso gli esuli facciamo impunemente del male ad altri italiani. Invece di chiamare gli esuli a testimoniare il loro vissuto assoldano la parte avversa che accusa i giuliano-dalamti di aver voltato le spalle al comunismo di Tito. Cose che accadono solo nel nostro Paese. Non ho mai sentito sentito dire che a commemorare i morti della Shoah vengano chiamati criminali nazisti. In questa Italia - che mi piace sempre meno - non ho più fiducia. Con grande sofferenza sta maturando in me la convinzione di intraprende un'altro esodo e andarmene dove la memoria sia rispettata seza infierire impunemente contro un popolo che ha pagato duramente il proprio l'orgoglio di essere italiano.

Piero Tarticchio

 

 

Quando ci batteva forte il cuore

di Stefano Zecchi

Scrivere di un libro che non riguarda la Liguria sembra un fuoricampo però Quando ci batteva forte il cuore di Stefano Zecchi (Mondadori) è libro di tutti noi, “universale” per almeno tre motivi. Primo: ci ricorda le ripercussioni della tragedia delle foibe e dell’esodo, realtà per troppi anni disconosciuta, però storia patria.

Secondo motivo: ci narra un’“italiana universalità”, che ci riporta alla mente un dramma risorgimentale, ai due sposi di Piccolo Mondo Antico: guerra, politica e tragedia.

In breve, la storia. Zecchi, nato a Pola, fu abbandonato dalla madre entrata nella lotta clandestina dopo la Pace di Parigi, 10 febbraio 1947, che consegnò d’Istria alla Jugoslavia. Da un volantino del tempo: “Una banda criminale di malviventi, appartenente ad un CLN clandestino con sede a Pola, sta svolgendo attività di spionaggio e sabotaggio contro il potere popolare e la nuova Jugoslavia”. Tra i  ricercati anche la sua mamma, la maestra Nives Parenzi. Fu allora che il padre, artigiano di calzature, fuggì con lui per raggiungere l’Italia. Scrive Zecchi: “Come tanti bambini del mio tempo e della mia terra ho conosciuto presto la crudeltà del mondo e la generosità di pochi. Mia madre è stata trucidata, l’hanno trovata in una foiba con i polsi stretti dal fil di ferro, legata insieme ad altri sette sventurati...Non so neppure dove è sepolta”.

Tornò a Pola solo dopo la guerra del ’91 tra serbi e croati al fine di pagare alla repubblica croata una tassa cimiteriale molto alta per conservare la tomba dei nonni materni, Rodolfo e Ada. Tornò  anche a Pirano, dopo la morte del padre, da don Egidio, sacerdote che li aveva aiutati nella fuga a Trieste. Da lui ebbe una lettera, lasciata dal padre per Nives, che non aveva potuto consegnarle. Una gran lettera d’amore. Zecchi non perdonò mai la mamma di averlo lasciato scegliendo la clandestinità. Al sacerdote che ne elogia il coraggio e l’amore dei genitori risponde e sembra Piccolo Mondo Antico: “Discutevano in continuazione,  litigavano e sempre per la politica”. Don Egidio: “La politica li ha divisi, sono stati sfortunati, li ha separati prima la guerra, poi la pace”.

Terzo motivo, sempre comune ai tanti: l’aver conosciuto -come un estraneo- il papà che tornò dalla guerra. Descrive il suo, scappato dal campo di concentramento: “Sporco e miserabile da farmi paura, puzzava come una capra”. Prima di amarlo: “Mi metteva soggezione, non ero all’altezza delle aspettative”.

Così per me quando a fine ’45 mio padre tornò dalla prigionia di Saida in Algeria: papà sgridava, educava, mi sottraeva la “mia” mamma e gli fui ostile. Da Trieste, venuti a Genova nel ’48, patii lo sradicamento. Quando qualche anno fa, morto papà, andai in Tunisia nei luoghi dove in guerra fu capitano d’artiglieria, è stato un tardivo chiedergli scusa. Nel viaggio una donna milanese mi confidò che quando tornò il suo, lei per giorni si rincantucciava sotto il letto credendolo l’uomo nero. Però tanti altri padri non tornarono.

Nel libro c’è molto di più sulla guerra al confine orientale. Per Pola, tanti infoibamenti e la “strage di Vergarolla” di cui ho raccolto testimonianze vive da tre polesani: dallo scrittore Piero Tarticchio, da Lino Vivoda, da Ferruccio Tessaris che lavorava nell’ufficio di mio padre. Il papà di Tarticchio, dopo l’armistizio, fu prelevato dai titini e per sapere dove fosse la mamma diede fin gli orecchini d’oro che portava ai lobi. A Vergarolla, Vivoda perse il fratellino, Zecchi un amico delle elementari e come lui, Umberto, ha chiamato il figlio; Tessaris, giovane ufficiale di marina, appena rientrato a Pola dalla Sardegna, decise allora l’esodo, salvando su un treno solo il pianoforte della madre. Dopo la consegna d’Istria alla Jugoslavia dei 32mila polesani, 28mila vennero in Italia.

Cosa fu Vergarolla? Il 18 agosto ’46 alla festa sportiva della Pietas Julia morirono 110 polesani. Qualcuno rimise i detonatori ad una trentina di mine marittime francesi, abbandonate sulla spiaggia e comandò a distanza il “boom”! “Vigliacchi – commenta Nives – ammazzare donne e bambini. C’è la mano dell’Ozna (la feroce polizia politica di Tito). Stavamo dimostrando agli Alleati che Pola è italiana”.

Davvero “batte forte il cuore” in questo libro: paura ma tanta passione d’italianità! Quando il padre invita Nives a fuggire a Sisiano nella casa dei genitori, lei: “A settembre, dopo l’armistizio, vi sono arrivati i partigiani slavi. Saccheggiata e incendiata la casa. Mio padre ha trovato sull’aia Domenico trucidato, con i testicoli conficcati in bocca, la Gina sua moglie, impiccata dopo averla seviziata, la loro bambina di 12 anni, decapitata”.

Altrove, parlando dello smantellamento della resistenza antifascista di Pola, un amico avverte Nives: “Stai attenta che gli s’ciavi sono belve”. “Non restare prigionieri del passato” ha detto Napolitano, ma non dimenticare!

                            Maria Luisa Bressani

 

 

 

 

 

 

I

 

 

Ricordo 2013: Anita Quarantotto martire di Vergarolla

di Anna Maria Crasti Fragiacomo

Prima Testimonianza.

Ad Anna Maria piace ricordare per primo un fatto: “Vergarolla, 18 agosto 1946, è la più grave strage subita da italiani in terra italiana”. Quanti altri sanno, considerando che la memoria è stata negata per più di mezzo secolo?

Chi era Anita Quarantotto e perché la ricordi?

“Tra il centinaio di uomini, donne e tanti bambini morti a Vergarolla il 18 agosto 1946, c’era anche un’orserese, una giovane donna, Anita Quarantotto. La ricordo perché amica da sempre della mia mamma e anche di zia Jolanda. Ho una foto di loro tre, dell’inverno precedente alla strage: sorridenti, belle, eleganti, felici di stare insieme nel loro paesino.

Anita era figlia di Lucia Apollonio, sorella del Podestà Giorgio, gettato in foiba nel 1943 (due i momenti delle foibe:          Aveva quattro sorelle, solo di tre ricordo il nome: Italia, Catineta, Nevia. Quel giorno era andata alla celebrazione dell’anniversario della Società Nautica Pietas Julia, per un bagno, per distrarsi nella giornata estiva.

Anita non è più tornata, dilaniata da quelle mine che non avrebbero dovuto brillare. (

Anita, uccisa da assassini pieni d’odio e rancore contro la nostra gente”.

Cosa ha significato per te l’esodo della tua terra e quando hai dovuto venir via?

“Quel giorno... per la mia famiglia è stato alla fine di febbraio 1947, quando al mio papà è stato ‘consigliato’ di andarsene, perché per lui non ci sarebbe più stata alcun’altra possibilità di vivere, di aver salva la vita. Papà era appena uscito dalla prigione di Parenzo, rinchiuso per 40 giorni, dopo esser stato portato via dalla sua casa di Orsera. Le sue traversie erano iniziate nel settembre ‘43: per tre volte prelevato da casa per esser buttato in qualche foiba, ma tutte e tre le volte salvato dall’intervento dei tedeschi che rastrellavano sentieri e boschi dell’Istria alla ricerca dei titini. Nel maggio ‘45 lo zio del mio papà, Luigi Crasti, era stato ucciso a Cerlenca (Orsera) a colpi di fucile, lo avevano freddato con una fucilata alla schiena. Tra il ‘45/’46 ci furono varie incursioni a casa nostra perché volevano denaro e in mancanza di quello razziavano ciò che potevano dal nostro negozio di alimentari annesso alla casa. Papà era stato portato via con il fratello: era benestante, direttore della Commerciale di Parenzo, profondamente italiano, mai fascista! Quando fu liberato senza piegazione, dopo aver subito torture, umiliazioni, pesantissimi interrogatori, quella notte un tale gli  puntò in faccia una torcia, dicendogli: “Scampa, va via! La prossima volta non ti te salvi, scampa!”

Così il padre di Anna Maria mette in moto un grosso Magirus con sopra un motore smontato dallo zio per farlo credere guasto, scappa da Orsera senza lasciapassare e documenti. Al confine vicino a Trieste dicono al compagno che li aveva fermati per i controlli che andavano a far riparare il camion e gli lasciavano 200.000 yugolire che lui avrebbe restituito loro quella sera, al ritorno.

E tu quando hai potuto venir via?

“Quel giorno... per la mia mamma Benedetta Quarantotto e per me è stato con la mamma, incinta di due mesi, in barca, di notte. Avevo neanche sei anni ed ebbi molta paura.  D’estate fui rimandata ad Orsera dalle nonne dove era ancora la mia sorellina di tre anni e scambiata con lei. Credo papà pensasse che l’Istria sarebbe tornata ad essere nostra. Restai non per i due mesi estivi ma per un anno. Frequentavop la prima elementare e in modo dimostrativo dovevo partecipare ai cortei dei drusi, alle celebrazioni di “martiri dei fascisti”, alle pose di steli inneggianti a Tito. Senza nulla capire (ma era già come un lavaggio del cervello). Messa in prima fila finché “quel giorno” tornò per me per la seconda volta e partii in vaporetto accompagnata dalla famiglia Grego che abitava vicino a noi. Le mie nonne son morte di crepacuore, si sono lasciate morire“quel giorno” quando hanno chiuso l’uscio di casa e lasciato il loro paradiso, Orsera: nonna Checca Tessaris Quarantotto a 75 anni,  nonna Anna Milos Crasti a sessanta. L’ho vista stroncata dal dolore per aver perso tutto, dopo tanti sacrifici senza risparmio”.

Hai rimpianti?

Sono passati sessantasette anni, eppure per noi Istriani, Fiumani, Dalmati non è cambiato quasi nulla. Spesso siamo considerati sempre e comunque fascisti... troppo (inutilmente italiani). Chiediamo solidarietà, non compassione. Chiediamo di non dire Vrsar (Orsera) – Porec (Parenzo) – Rijeka (Fiume) – Zadar (Zara), ma di chiamarle come le hanno chiamata sempre non solo i Veneziani, ma gli Austraici (Impero Asbrugico), i Francesi (Napoleone) e tutti quelli che ci hanno difeso o dominato perchè quello da sempre era il loro nome.

Chiediamo troppo che alcune associazioni della Resistenza non definiscano “la commemorazaione dei caduti delle foibe una pericolosa attività di agitazione revanscista?”

E’ troppo se chiediamo che un morto nelle foibe, istriano e quindi italiano, sia considerato uguale ad un morto in un lager nazista? Il dolore di un’istriana, madre, moglie, figlia di un infoibato non è eguale a quello di una madre, moglie, figlia di un ebreo, zingaro, prete, omosessuale comunista ... morti in un lager nazista?”

Qualcuno ti disse che “vivi male il ricordo?” Cosa rispondi?

“Io la chiamo ‘rimozione imposta’: rimuovere il dolore di madri, mogli, figli degli infoibati; rimuovere l’esodo, le fughe in barca, a piedi rischiando la vita; rimuovere il dolore d’abbandono del tuo paese, la tua casa, i tuoi morti; rimuovere il senso di vuoto che ti ha accompagnato tutta la vita perché una volta via ci hanno disperso per l’Italia. Ci hanno “sventagliato” (‘sventagliamento’ era il termine tecnico); rimuovere le umiliazioni: eravamo fascisti e non meritavamo accoglienza decente, eravamo esuli e ce lo dicevano con disprezzo rancoroso”.

Che fare?

“Sono anni che il MIUR tenta di arrivare a scrivere sui libri di storia delle scuole di foibe ed esodo, ma quel ricordo dà fastidio a chi non vuol ricordare, siamo tuttora scomodi”.

Ringrazio Anna Maria Crasti, allieva a Trieste di mio zio, Luigi Bressani, laureato in giurisprudenza a Modena, ma avendo vinto un concorso professore di storia e filosofia per cinquant’anni, al Dante e poi, già in pensione, al Fermi. In lei ho trovato un’amica di idee e di vissuto.

 

Ricordo 2013: Famiglia Kovacs (ungherese)

a Fiume

Seconda Testimonianza

Un librino, prezioso perché insolito, originale, scritto da Antonio “Tonci” Kovacs di 85 anni (da poco non è più), costituisce la seconda testimonianza – vita vissuta – su Foibe ed Esodo. Durante l’epoca fascista ci fu l’imposizione d’italianizzare i cognomi e vi aderirono i suoi fratelli maggiori, chiamandosi Fabbro, traduzione letterale di Kovacs, mentre lui conservò il cognome.  Tonci narra la storia della famiglia da quando nel 1895, a 25 anni, suo padre Alessandro lascia l’Ungheria, viene a Fiume occupandosi presso un laboratorio per calzature. Sposa poi  Maria, figlia del proprietario, Simone Superina, il cui primogenito era morto nel 1859 combattendo a Custoza. La città di Fiume nel 1776, annessa all’Ungheria, nel ’79 era stata resa da Maria Teresa D’Austria ‘Corpo separato’, con autonomia amministrativa e pluralità di lingue e religioni. Alessandro, come molti ungheresi, apparteneva alla Chiesa anglicana riformata augustana. Fiume era città florida con l’Accademia militare ungherese, i Cantieri Navali, il Silurificio, industrie.

Alessandro subentra mel laboratorio del suocero e il commercio del pellame per calzature ha grande sviluppo. In casa si parla ungherese e italiano. Poi la I Guerra Mondiale ed è richiamato nell’esercito austro-ungarico fino alla fine: si salva perché non segue il suo battaglione sul fronte italiano da cui nessuno fece ritorno, avendo allora raggiunto la famiglia per la morte di difterite della sua bimba.

Con il Trattato di Rapallo (12 novembre 1920) la Città di Fiume è Stato Libero, segue il Natale di sangue (i legionari di D’Annunzio rifiutano di lasciare la città), nella primavera del ‘21 le prime libere elezioni, nel 1924 (Governo con a capo Mussolini) l’annessione all’Italia.

Al riguardo il padre di Tonci, ricordando i cinque punti del presidente USA Wilson sull’autodeterminazione dei popoli, riteneva non fossero stati rispettati. Nel 1925 gli muore la moglie Maria, a 44 anni, lasciando nove figli, tutti studenti alle scuole ungheresi di Fiume e con cittadinanza ungherese. Tonci a 16 anni s’impiega presso un’Impresa di Trasporti marittimi da Fiume alla Jugoslavia. La casa acquistata dal padre in via Montenero guardava sul Golfo del Quarnaro e qui il ricordo dell’ottantacinquenne Tonci è dichiarazione d’amore per quella terra non più sua (e come lui sentono i tanti esuli): “Con la riviera di ponente punteggiata da cittadine rivierasche tra cui Abbazia, meta delle vacanze estive degli Asburgo, e il Monte Maggiore alto 1400 metri”.

Nel 1939 Tonci, di leva, è destinato al 74° Reggimento di Fanteria a Pola. Da sottufficiale nel ‘42 arriva in Sicilia, poi a Tunisi, a Capodanno del ’43 è a Kairouan ma già la mattina dell’11 gennaio, dopo cinque ore di fuoco nemico, la sua compagnia è fatta prigioniera. Una lunga marcia (chi cadeva veniva ucciso – legge di guerra!), ma quando sviene si trova davanti ad un camion militare per cui è  soccorso e  portato in Algeria nel distretto d’Orano. Il suo campo sotto i francesi, Palat, nel dopoguerra è definito ‘il peggiore’. Il rimpatrio, nella primavera del ’46. “I raccomandati ci sono sempre –commenta- e passano sempre per  primi”. Il 23 maggio ‘46 da Trieste torna a Fiume, è trattenuto a Divaccia, posto di controllo, per due giorni. Viene poi a sapere che da questa località molti cittadini, di ritorno a Fiume, sono fatti sparire: ‘gettati anche vivi nelle foibe’. Ritrova una Fiume misera, con i negozi vuoti e dove impera lo spionaggio. Frequenta la Chiesa valdese (anche lì sono presenti le spie dell’OZNA, polizia segreta), ma profittando del Sinodo Valdese del ‘46 parte per le valli valdesi. Scrive Tonci: “La città si viene svuotando dei suoi cittadini che raggiungono Trieste, ma in Italia la sinistra italiana li considera anticomunisti o perfino fascisti’. Il pastore valdese Carlo Gay che si occupa di ogni singolo membro della Chiesa per una sistemazione temporanea in Italia e per evitare l’esperienza del campo profughi, gli trova un posto di sorvegliante presso l’Istituto Gould di Firenze. La famiglia si sparpaglia: due fratelli maggiori a Genova e i figli di uno di loro vanno in Australia. C’era un precedente: nel 1953 con la Castel Verde da Trieste partirono 1200 esuli per l’Australia per lavoro. Una nipotina, orfana, è data in adozione in Sud Africa.

Chiara, figlia del fratello maggiore di Tonci, vive a Genova e con il marito Vittorio(mio compagno di liceo al D’Oria) ha raccolto questa storia, più affascinante perché detta con esemplare sopportazione: mai una parola contro la sorte, in primo piano il valore del lavoro e una visione più larga che viene dalla Mitteleuropa dell’Impero Austro Ungarico e che lasciò semi di laboriosità, efficienza  e senso del dovere in molti sudditi, poi diventati italiani.

Chiara non manca ad una Giornata del Ricordo anche se venne via da Fiume piccolissima, con i soldi di famiglia cuciti nella pancerina di bimba, cosa che indicò con il ditino proprio al posto di blocco: per fortuna ritennero fosse un vezzo per attirar attenzione. Chiara è fedelissima delle annate del giornale El Fiuman: ogni esule tiene come corpo santo il giornale della propria terra e questo è il quarto  che vengo a conoscere.

Busalla.Su El Fiuman del 15 marzo 2012 mi colpisce il Giorno del Ricordo a Busalla, presente Fulvio Mohoratz anima dei fiumani in Genova. In pochi anni (1946/48) in questa località passarono quasi tremila profughi: l’amministrazione di allora, il sindaco Antonio Cervetto (PCI) e il Commissario agli Alloggi Paolo Martignone (PSI), mentre a Bologna, Venezia e altre città del Nord sputavano ai profughi al grido di ‘fascisti’, quegli anministratori di Busalla invece tappezzarono la cittadina di manifesti invitanto i busallesi ad aprire case, ville, villette chiuse per darle ai diseredati che arrivavano dalla Venezia Giulia. Uno scritto del tempo del dottor Pastorino dice di quei fiumani profughi: “Si vedeva che non erano straccioni e non avevano gli occhi spalancati su ciò che vedevano (come avvenne per coloro che emigrarono dal Sud al Nord con le valigie di cartone) perché avevano lasciato di meglio di ciò che trovavano. Erano finiti in un posto indietro nel tempo e non il contrario”.  Rileggere ciò è di consolazione a quella gente orgogliosa, ma da El Fiuman ancora una testimonianza d’orrore dai ricordi pubblicati a puntate dal libro Nato a Fiume di Francesco Gottardi, laureato in chimica alla Normale di Pisa. Scrive nel numero di gennaio 2012: “Arrivati in Italia venivamo considerati dai socialcomunicsti come fascisti per aver lasciato un paradiso comunista. Lo stesso è stato anche per i tedeschi della Prussia Orientale ad opera dei russi. Sono forse piccoli episodi rispetto al martirio degli ebrei. Eravamo quasi mezzo milione, di noi subirono martirio il 5%. Tuttavia quando raccontavamo, quasi tutti si scandalizzavano ritenendo gli episodi ‘montature’. Come il seguente: ‘Una ragazza istriana di 18 anni, iscritta al fascio repubblichino, venne ripetutamente violentata da un branco di belve, le tagliarono i seni, la gettarono viva in foiba’. Questo racconto scandalizzava non perché atroce ma ritenuto una falsità. Fummo costretti ad addolcire e fu altra violenza morale, questa volta ad opera dei fratelli italiani".

                           Maria Luisa Bressani

 

 

 

Gli angeli esistono

di Pietro Tacchini a Pola

 

“Per i primi giorni niente mangiare, fame su fame”, è il primo ricordo del geometra Pietro Tacchini sorpreso a Pola l’8 settembre 1943. Oggi ha 86 anni, vive nel piacentino, è appassionato di libri di storia, in particolare di quelli di Giampaolo Pansa. Allora era giovane ufficiale del 57° Raggruppamento di Artiglieria. Il 10 settembre, preso prigioniero dai tedeschi con il suo Reparto, fu avviato alla Caserma del Deposito Marittimo di Pola trasformato per l’occasione in campo di concentramento provvisorio. <<Così incolonnati – racconta – attraversiamo le strade di Pola dove la popolazione ci rivolge frasi d’incoraggiamento>>.

Una conferma viene da un libro di Lino Vivoda Bruno Artusi e gli esuli da Pola (editrice PACE, Cremona) dove si ricorda che <<in tutta la Marina rimase noto il generoso comportamento delle donne di Pola durante l’8 settembre 1943. Allora quasi 45mila soldati italiani, della guarnigione della piazzaforte militare o confluiti in fuga dalla Croazia, erano concentrati nelle Caserme, prigionieri di poche centinaia di militari tedeschi che sparavano in continuazione per impedire fughe. Per alcuni giorni senza cibo i prigionieri attesero i vagoni che li avrebbero trasferiti nei Lager della Germania e,  sfidando le sentinelle tedesche, le donne di Pola portarono pane nero e polenta, dividendo le scarse razioni di guerra con ‘quei poveri fioi che mori de fame’. Quando incominciarono a partire i treni, con i vagoni merci stracarichi di prigionieri che lanciavano bigliettini con gli indirizzi, partirono da Pola anche cartoline dirette agli indirizzi recuperati con la semplice scritta ‘Portato dai tedeschi in Germania’>>.

Sempre da quel libro, in riferimento al Diktat del 1947 che aveva assegnato Pola, compattamente italiana, senza alcuna possibilità di esprimere la libera volontà di scelta, alla Jugoslavia alla quale non era mai appartenuta nel corso della propria bimillenaria storia: <<Trentamila cittadini scelsero l’Italia, restarono 4mila abitanti del suburbio imbevuti di una propaganda che prometteva benessere sociale con l’instaurazione del comunismo. Si scontrarono presto con la realtà del nazionalismo jugoslavo. Oltre 2mila, fruendo di opzioni o con le fughe, abbandonarono la città snaturata dall’immissione di decine di migliaia di montenegrini, croati, bosniaci, serbi ortodossi o musulmani>>.

Pietro Tacchini provò quell’esperienza della fame che resta una delle più traumatiche per ciascuno cui sia capitata. <<Per noi prigionieri, diverse migliaia, non c’è per diversi giorni né cibo né possibilità di ricovero, siamo costretti a vegetare all’aperto. Convinto da tristi episodi di violenza sia contro di noi che contro i civili, specialmente le donne, maturo l’idea di fuggire. Per progettare come, un giorno con altri commilitoni mi porto sul retro della caserma chiuso da una rete e guardato da sentinelle molto tolleranti con noi (erano polacchi incorporati nell’esercito tedesco). Qui mi occorse un episodio commovente; verso di noi vengono due signore: la più anziana veste con eleganza e la sua accompagnatrice porta due borse delle spesa. Avvicinatesi, l’anziana mi chiede se conosco il tenente..., alla mia risposta negativa chiede se me ne posso interessare. Corro al campo dove apprendo che è partito da qualche ora con il suo Reparto e quando glielo riferii la signora scoppiò a piangere. Mi disse di chiamarsi Franceschini, di risiedere a Pola, di avere un’azienda che trattava legnami e di avere un figlio giovane ufficiale a Trieste. Per quel tenente amico del figlio aveva portato alimenti vari che mi lasciò, venendo poi a trovarmi ogni giorno. Dal comportamento e dal suo sguardo capii il valore della vita e l’immenso amore di una madre. Non ho mai dimenticato questo Angelo, come pure ricordo sempre la generosa gente istriana, spinta dal suo sentimento d’italianità ad abbandonare tutto per unirsi all’Italia>>.

Dopo il 20 settembre il Reparto di Tacchini fu imbarcato sulla motonave Vulcania. A Porto Marghera li attendeva sulla banchina  un lunghissimo treno di carri bestiame. Appena discesi dovevano passare davanti a tedeschi armati e ad una pattuglia di giovani militi della nuova repubblica di Salò e fu subito loro richiesto se intendevano aderirvi. Alla risposta negativa, quasi totale, un energumeno, assestando a ciascuno una bastonata sulla schiena, li fece salire su un carro bestiame.

<<Con il tenente Giovanni Molteni, mi pare che suo padre fosse titolare della Ditta “La Piombifera” di Genova, ci sistemiamo vicino ad uno di quei piccoli finestrini posti appena sotto il soffitto e chiusi all’interno da una grata e da una serranda in legno. Progettiamo insieme la fuga: sarei uscito io per primo dal finestrino e bisognava farlo di piedi e poi, spenzolando, puntare le gambe contro la fiancata del treno per spingersi lontano nel salto ed evitare il risucchio. Molteni mi avrebbe seguito, dovevamo muoverci l’uno verso l’altro per ritrovarci.

Il salto avviene passato il Tagliamento, poco prima di Codroipo, in un momento in cui i tedeschi non illuminavano il convoglio con i fari e di quando in quando sparando per scoraggiare i tentativi di fuga. Svengo per l’impatto della caduta e riprendo coscienza con la pioggia che mi batte sul volto, (di Molteni saprò solo a fine guerra che era stato internato in  Germania). Rinvenendo  mi picchia sul volto anche la luce di una lanterna; mi ha trovato un casellante della linea ferroviaria di Codroipo, ‘il mio secondo Angelo’. Si chiamava Dangela, nome in sintonia con il suo ruolo in quel frangente: mi ospitò a casa svegliando la moglie e le loro due bimbe, mi curò mettendo a repentaglio la sua e la loro incolumità. Infine mi procurò una tessera da ferroviere per viaggiare sul locomotore fino a Milano-Lambrate.

Ma all’arrivo sul marciapiede  c’è una pattuglia di tedeschi e una di repubblichini. Sono sgomento per tema di essere arrestato data l’evidenza del mio stato fisico. Un’elegante signorina, il terzo Angelo, mi si avvicina, mi abbraccia sussurrandomi di far finta che siamo parenti, mi scorta sottobraccio fino ad un bar. Il barista mi nasconde in uno stanzino del retrobottega, raccomandandomi di non farmi sentire e torna verso le 16 per accompagnarmi, lungo un intricato percorso, su una banchina ferroviaria. Pochi minuti dopo salgo su una carrozza indicatami dal capotreno suo amico. Viaggio ottimo che mi porta a Piacenza e a casa dove mio padre credeva di non rivedermi più>>.

                           Maria Luisa Bressani

                             

Domenica scorsa nell’articolo riguardo il libro Confine pubblicato dall’assessore Giorgio Devoto trent’anni fa, nello scrivere che alla Foiba di Basovizza il libro degli infoibati è tenuto sotto la pietra che copre l’imboccatura, non avevo parlato della mia delusione di fronte a quella non-memoria da “milite ignoto”.

Quella stessa domenica usciva un articolo sul “Piccolo” di Trieste riguardo la grande cerimonia civile per il restauro e la scopertura della lapide posta alle spalle del Monumento nazionale della Foiba in ricordo di 97 finanzieri uccisi dai partigiani. La lapide, nel 1995 apposta alla facciata della caserma sede della Brigata della Guardia di Finanza di Basovizza, è stata collocata nel complesso monumentale della Foiba, dove in questi ultimi anni è stato anche aperto un centro-documentazione. E’ un buon lavoro della giunta di centro-destra del sindaco Roberto Dipiazza, a dimostrare che quando si vuole si può con sereno coraggio e il dovere della memoria.

Dipiazza ha ricordato che i 97 finanzieri furono prelevati dai partigiani jugoslavi dalla Caserma di Campo Marzio e assassinati nei giorni dell’occupazione dell’esercito titino. La lapide è stata scoperta da Antonietta Molea, figlia di una delle vittime e il sindaco ha sottolineato che “dietro ogni nome non  c’è solo il dramma della morte di un uomo o lo straziante dolore di un genitore, ma anche il coraggio e la forza di giovani vedove che da sole, con tantissime difficoltà, hanno poi cresciuto i figli”.

                       Maria Luisa Bressani

 

 

 

 

 

 

 

Ancora i Vlahov alla Wolfsoniana di Nervi

Il Giornale 4 dicembre 2009

Lettera di Piero Tarticchio

A Basovizza una lapide per 97 finanzieri uccisi dai partigiani

Due Testimonianze

da Foiba Grande di Carlo Sgorlon (2005)

e su Zara dal CNADSI di Rita Calderini (1 ottobre 2009)

Come dal titolo due testimonianze pubblicate a mio nome di contorno ad un articolo sulla Giornata del Ricordo.

In questo articolo a seguito di un altro con titolo polemico sull'operato di Giorgio Devoto, assessore alla Cultura in Provincia, che in quel momento sembrava voler ignorare la "Giornata del ricordo" e dar spazio al negazionismo ho voluto ricordare un gran bel libro che da editore della S. Marco dei Giustiniani Devoto aveva pubblicato 30 anni prima. Di Gino Brazzoduro Confine di cui ricordo questi versi a memoria: "Mia terra non mia/ terra dei padri senza terra per seppellire i padri..." Versi indimenticabili in cui è anche racchiuso quel problema dell'esproprio anche delle tombe in quanto il governo iugoslavo chiese una tassa per la conservazione della tomba ma molti dei discendenti, emigrati in Italia, non potevano essere avvertiti per motivi vari e così la tomba veniva rimossa e si creava spazio per un altro morto. E ricordo anche di aver letto anni addietro nel sito che m'indicò Riccardo Vlahov, la cui famiglia dovette lasciare a Zara la liquoreria, che era nata perfino un'associazione per conservare la tomba della loro famiglia con cui mio padre era imparentato alla lontana avendo  sua cugina prima Teresita Bressani sposato  Roberto uno dei tre fratelli Vlahov (gli altri due fratelli: Romano il chimico e Ramiro il più giovane padre di Riccardo).

Anzi prima dell'articolo per i finanzieri uccisi dai partigiani inserisco proprio parte di quello dedicato ad un convegno organizzato da Devoto cui non furono invitati testimoni e da ciò la protesta.

Ma dico anche di esser rimasta malissimo per il titolo (tanto piùche avevo avvertito la segreteria dell'Assessore: "domani comprate il Giornale che in pagina c'è l'articolo... e non immaginavo il titolo"). 

Questa volta Claudio Eva non ha potuto intervenire, però mi è piaciuto mettere la sua foto alla faccia di quei magistrati che hanno scritto che si possono prevedere i terremoti. Certo la sentenza non è stata scritta così ma da Azzeccargabugli con sottigliezze varie: il succo era quello. Così a quei magistrati non resta che augurare o un terremoto che "loro" potevano prevedere e che se li porti via perché hanno umiliato l'Italia della cultura e del sapere oppure che in un'Italia rinsavita vengano mandati di nuovo a scuola per imparare a ragionare e non solo per ideologia faziosa.

La panchina di pietra

di Maria Rosaria Dominis

La Giornata del Ricordo pur avendo all’attivo pochi anni – un ricordo voluto con legge nazionale  ma subito già messo in sordina – come la punta di un iceberg rivela nuove drammatiche testimonianze.

Come su Anita Quarantotto, martire di Vergarolla, testimonianza di Anna Maria Crasti, esule da Orsera, che vive a Milano ma che ho conosciuto  nella sua casa di campagna a Malvicino, al Sassello.

Ecco la drammatica testimonianza di don Romano, i sacerdoti furono i più perseguitati ed è ciò che succede nel confronto con l'Islam quello non moderato, vedi le chiese bruciate nelle tanto decantate dal conformismo di sinistra primavere arabe.

Importante seonco me anche l'articolo a fianco con testimoninanza di Paolo Santarcangeli esule a Torino e anche parole di Fratel Umberto preside ai Maristi di Genova

e poi mi ripeto - piccolo dolore - , la mia firma che abbreviata al Giornale da sempre è stata MLB (o mlb) in Terra di leggende diventa Bress, eppure ero collabroatrice d'abitudine.

Nell'articolo con titolo "l'Odissea dimenticata" riporto parole di Giulio Vignoli, professore universitario che viaggiò a sue spese sulle tracce delle minoranze italiche in Europa e che è restato monarchico. Lo considero un benemerito per la nostra conoscenza dei fatti e soprattutto per queste terre della Jugoslavia ex italiane, che -da triestina- mi sono care.

Notare anche la testimonianza di Nicolò Luxardo, altamente drammatica e vissuta da lui ragazzo di cui ho scritto nella recensione a  I Luxardo del Maraschino e nell'articolo Zara l'oppressa parole di Riccardo Vlahov "E' una questione di giustizia...2

Ecco ora ciò che scrive nel 2005 Fabiana Martini direttrice (una delle due sole donne direttrici allora insieme ad Irene Argenterio de Il Segno di Bolzano per i Settimanali cattolici che sono più di cento, circa 135 se ben ricordo) del Settimanale diocesano di Trieste Vita Nuova, però tenendo conto - a mio avviso - che belli e saggi sono i discorsi pacificatori del dopo purché non si dimentichi chi fu offeso, chi subì. Anche questa è pietà cristiana, anzi la più grande. La memoria come dono. 

Il dovere della memoria

Una polemica: Giorgio Devoto assessore smemorato

Un gran libro: Confine di Gino Brazzoduro.

A Basovizza lapide per 97 finanzieri uccisi dai partigiani

Don Romano ex galeotto Il Giornale  4 febbraio 2006

Ricordo 2005: Fabiana Martini,

direttore Vita Nuova Settimanale diocesano di Trieste

Giornata Ricordo 2005: in tre parti di un solo articolo tre testimonianze. Fiorina Crosilla. Ferruccio Tessaris. Nicolò Luxardo.

E il prof. Vignoli nei suoi scritti  storici sulla Jugoslavia

Foibe Mostra a Nervi e Norma Cossetto martire

Ferruccio Repetti che entrò al Giornale quando lo chiamò Luciano Basso (come fece anche con me facendomi tornare al Giornale).

Don Nevio ha concelebrato (insieme allo zio Augusto di mio marito) il mio matrimonio nella primavera del 1964 e soprattutto tutti  i libri sui profughi giuliano-dalmati me li ha dati lui che è per tanti esuli di quelle terre punto di riferimento e perché quando dopo 21 anni di collaborazione mi capitò al Settimanale diocesano di essere messa a casa per e-mail per una protesta riguardo un articolo con salti di righe che comportavano un grave errore a mio nome. Allora don Nevio con cui andai a sfogarmi mi disse: "tu scrivi bene e allora scrivi sul giornale dell'Oftal  (o Unitalsi  ora non ricordo) andando a mio nome". E così feci: un pezzo così lungo su Lourdes che nessuno giornale avrebbe potuto pubblicare per ragioni di spazio ma per me fu balsamo e consolazione: è uno degli scritti che più amo nella mia vita. E d'altra parte come disse Radezski quando si congedò dal suo imperatore "Tutti sono utili, nessuno è indispensabile"

Cose di poco  conto?

Espropriano le tombe. 

Basta un francobollo per un incidente diplomatico

Ho voluto chiudere  questa pagina con il Testamento di mons. Santin che trovai al Santuario del Monte Grisa e vi si legge la sofferenza che vide nella sua gente. I negazionisti, i falsificatori della Storia cosa possono mai dire davanti alle sua scarne e sofferte parole? Non fidatevi di chi vi racconta storie ma solo dei testimoni del tempo anche se ormai che ne sono pochi.

XI Cammeo. Claudio Eva

e i magistrati che credono i terremoti si prevedano

XII Cammeo: Il Comunismo e la sua filosofia di base.

Esproprio proletario, tasse, cacellazione della Memoria,

Processi falsi con condanne già scritte.

XIII Cammeo: Di Ferruccio Repetti 

"Omaggio" sul Giornale del 2009 

a don Nevio Martinoli di Lussinpiccolo

Polemica: Fulvio Mohoratz presidente ANVGD di Genova replica

a Luca Borzani assessore alla cultura Il Giornale 2 marzo 2006

Lettera Riccardo Vlahov 11 agosto 2009

Zara bobardamento degli Alleati: i resti del Molo e i ruderi del Palazzo della Posta

Tengo ad evidenziare che l'apertura di questo articolo in prima pagina è stata inserita nella fotocopia (per non doverla mettere a parte) sulla scritta della targa in ricordo della tragedia delle Foibe e dell'esodo di 350mila giuliano-dalmati e quelle parole dell'assessore Borzani suonano di irrisione massima e sinistre per chi subì. Il suo richiamo agli storici è doveroso purché questi siano davvero imparziali, purché non bevano quella fola del processo violento di italianizzazione dei paesi slavi che avrebbe avuto il culmine sotto il fascismo. Chi c'era ed è dovuto venir via per il diktat del 1947 ha abbondantemente testimoniato quelle falsità ed ha perso tutto per essere italiano piuttosto che vivere in uno dei tanti "paradisi comunisti". Non ammetterlo è malafede e non si può fare il conto dei morti perché quando i giuliano-dalmati pur di avere un riconoscimento chiedevano che il loro ricordo fosse associato alla giornata della memoria degli ebrei, questi si rifiutarono sempre. E la storia con i suoi crimini non si misura a numero di morti: seimilioni di ebrei contro i 10mila infoibati: ogni uomo, ogni vita umana ha pari dignità e se una guerra si è portata dietro un fardello così pesante e ingiustificato quei morti avrebbero potuto anche essere ricordati insieme dato che per l'appunto non conta il numero basta pensare se a qualcuno chiedessero quale sia il valore che egli e i suoi familiari danno alla sua singola vita.

Però gli intellettuali farebbero bene a non giocare più sporco in nome della loro ideologia di appartenenza se i diritti umani valgono per tutti allo stesso modo: queste sì che sono grandi vergogne, i soldi e le frodi non sono in alcun modo equirabili al valore della vita.

Nella foto: Zia Mira Damiani, Jolanda, Eetta, Anita Quarantotto.

 

Grande è invece la mia ammirazione per Devoto direttore della San Marco dei Giustiniani o per quando l'ho sentito prlare in pubblico del suo amore per il libro e per lo stesso odore dalla carta stampata che nessun messaggio on-line potrà mai sostituire o per la Mostra che gli è stata dedicata alla Berio epperò ricordo che la mia caporedattrice culturale al Settimanale cattolico allora non mi permise di scriverne: non si può da una parte o dall'altra negare o nascondere l'opera di altri di idee diverse che però fa buona cultura: quindi se fossi un'antica maestra che deve insegnare il viver civile "un penso" a Devoto e "un penso" alla mia caporedattrice di allora

 

      
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