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Forti di Genova. Storia, tecnica  architettura dei fortini difensivi

di Stefano Finauri

14. INDICE STORIA

 

Stefano Finauri  -Forti di Genova. Storia, tecnica e architettura dei fortini difensivi.- Il Giornale 9 luglio 2010

Giulio Vignoli  -Storie e Letteratura di Nizza e del Nizzardo- Il Giornale 28 aprile 2012

Stefano Lorenzetto  -Cuor di Veneto. Anatomia di un popolo che fu nazione.- Il Giornale 30 settembre 2010

Giglio Reduzzi L'Epopea dei Caravana (La -tanto derisa- Operosità Bergamasca) Il Giornale 11 ottobre 2011

                              e Dal Brembo al Mississippi

Alberto Rosselli - I Balestrieri Liguri. Nascita e tramonto di una leggendaria milizia- Il Giornale 20 gennaio 2011

Danilo Tacchini -Liguria nascosta e dimenticata- Il Giornale 6 giugno 2010

Giampiero Orselli e Stefano Roffo -Genova nascosta e sconosciuta- Il Giornale 10 giugno 2010

Mauro Minola, Beppe Arena,  Claudio  Ronco - Fortificazioni in Liguria dal XVIII secolo alla Grande Guerra- 2011

Mostra Grande Guerra a Palazzo Reale Il Giornale 10 aprile 2009

Il Levante cittadino di Genova nel periodo bellico: Mostra su insediamenti II Guerra Mondiale 2012

Gabriele Faggioni  - Il Vallo Ligure - Il Giornale 22 gennaio 2012

Gabriele Faggioni e Alberto Rosselli  - Le operazioni aeronavali nel Mar Ligure 1940/45 - Il Giornale 22 gennaio 2012

Mario Paternostro e Alberto Piccini - Genova e i Volti della guerra 2012

XXIXCammeo: Dalle Lettere Lint Editoriale 2003

di Edgardo Bressani: "Bombardamento di Kairouan

di Ida Ragaglia Bressani: "rastrellamento nazimongolo a Bobbio, Coli, Carisasca-Cerignale

Antonio Mor Immagini d'esilio (prigionia In India)  Gianfranco Scognamiglio Libertà 22 maggio 2007

Piero Gheddo Il Testamento del capitano (scomparso in Russia) Settimanale cattolico 29 dicembre 2002

Lettera del Padre Giovanni Gheddo dal fronte russo nel luglio 1942 e

da Parma Voladora di Giorgio Torelli come il missionario capì  che su padre stava morendo

Edoardo Guglielmino e Ottavio Giorgio Ugolotti L'ultimo inverno Settimanale cattolico 16 marzo 1999

Foto Edoardo Guglielmino

Omaggio al mio allievo Andrea Guglielmino (figlio di Edoardo) al D'Oria cui non riuscii a far apprezzare Jauffré Rudel:

 Amor cortese...di Paolo Granzotto Il Giornale 26 marzo 1981

Arrigo Petacco Quelli che dissero no Il Giornale  27 novembre 2011

Giampaolo Pansa  - I vinti non dimenticano (recensione inedita ma contenta di averla scritta) -  2010

Un crimine  della II Guerra mondiale: l'Olocausto da Il pianista di Wladislaw Szpilman Settimanale cattolico 19 dicembre 2002

Marzia Ratti e Luig Piarulli - Mostra Disegni da Mathausen e Gusen Il Cittadino 21 gennaio 2007

Gianfranco Rovani (a cura) Atti della Giornata Commemorativa "Quinto nel quinto centenario della morte di Cristoforo Colombo"- Il Giornale 23 giugno 2011

Riccardo Mandelli L'Ultimo Sultano. Come L'Impero  -Ottomano morì a Sanremo - 2011

Vasco Vichi -Sulfàro. L'ultimo corsaro del Mediterraneo - Il Giornale 30 gennaio 2011

Memoria di Antonio Sulfaro su piazza Alimonda - Rubrica "Cose perdute" 2012

Gian Luigi Bruzzone   -  "Francesco Peloso e la Reggenza di Algeri e La Rosa e le spine per la Reggenza di Tunisi" (Accademia Ligure di Scienze e Lettere) Il Giornale 30 gennaio 2011

Paolo Deotto  - Il '68- (Convegno a Genova) Il Giornale 12 novembre 2008

Roberto Beretta - Cantavamo Dio è morto. Il '68 dei cattolici- 2008

 

FORTI DI GENOVA. Storia, tecnica e architettura dei fortini difensivi di Stefano Finauri (Ligurpress - Edizioni Servizi Editoriali) è un libro scritto da “chi sa come si fa” per diversi motivi.  Ha l’esemplare chiarezza espositiva di una guida di qualità, con premessa una cartina per seguire l’ubicazione dei Forti e i percorsi per raggiungerli. Ha un indispensabile glossario su termini poco noti a chi non ha competenza militare (batteria, casamatta, caponiera, ecc.) ed un elenco di acronimi per disegnare i modelli delle artiglierie utilizzate nella Piazzaforte genovese. Le 400 foto, “occhi vivi” nelle pagine, accompagnano il viaggio del lettore come lo stesse facendo dal vivo. Ad emozionarci basta segnalare “le scale seicentesche delle Mura di Begato nascoste dalla vegetazione” (p.48), “Forte Castellaccio con le feritoie in mattoni risalenti al periodo sabaudo” riquadrate da una mimosa fiorita (p. 50), ed unica esistente dell’interno di Forte Monte Croce una foto dell’inverno 1944 con militari tedeschi di stanza alla contraerea. Per finire questa carrellata visiva la “Galleria d’immagini”, 82 foto delle Fortificazioni di Genova poste in chiusura di volume.

Non stupisce questa perizia d’autore: Finauri ai Forti si è interessato fin da ragazzo, ha collaborato alle schede storiche per Il Parco Urbano delle Mura, edito dalla Sagep, e ad altre opere tutte significative; ha aperto il portale WWW.fortidigenova.com, e ne ha dedicato uno al suo catalogo di 5000 cartoline storiche, www.genovacards.com; collabora anche al pregevole Lûnäio Zeneize di Valenti Editore.

Per quanto concerne l’attualità dei Forti, ossia ciò che a loro riguardo si può o non si può, nel libro alcune date importanti: nel 1913 Genova fu dichiarata “città aperta” con conseguente disarmo dei Forti, poi una legge del ‘39 (n.1089) stabilì che in caso di ristrutturazione non potessero essere modificati, infine – nota positiva – nel ‘90 si svolse il convegno “Forti d’idee – Proposte per il recupero delle fortificazioni di Genova”. Solo “una nota” perché grazie all’ormai smantellato Servizio Giardini e Foreste del Comune si sono potuti aprire al pubblico Forte Sperone (utilizzato per spettacoli notturni estivi), il Puin e il Diamante, ed è stato restaurato il Begato. Poi più niente.

Sono Demanio Patrimoniale, utilizzabili solo dallo Stato, Forte San Giuliano, il Castellaccio e la Torre Specola, mentre gli altri, possedimento del Demanio Pubblico, sono beni disponibili da dare in concessione. Poche però le realizzazioni: Torre del Puin nel 1963 richiesta in concessione da Fausto Parodi che la ristrutturò a sue spese e vi abitò per vent’anni, il Diamante restaurato dal Comune di Sant’Olcese ed ora di nuovo chiuso al pubblico; nel Forte San Martino, il più moderno come concezione, si è insediato a fine ‘900 un privato che lo ha ripulito, ma le strutture storiche sono in pessime condizioni. Per contro, nei Forti del Levante alloggiano greggi come al Quezzi e al Monteratti.

Eppure i Forti sono stati voluti e amati. Nel 1625 quando il Duca di Savoia minacciò Genova, s’imposero le Mura Nuove, ultima cinta muraria che utilizzò l’anfiteatro naturale con apice il Peralto, fortificando i crinali delle valli del Polcevera ad ovest e del Bisagno ad est. Per quest’opera l’Amministrazione fornì solo gli attrezzi e tutti i cittadini contribuirono a realizzarla lavorando anche di festa, esclusi Natale e Pasqua. Nel ‘600 a Levante i Forti non esistevano, me nel 1634 la cerchia ebbe 49 bastioni e 8 porte d’accesso.

Questo patrimonio - oggi così abbandonato - è la “mitica” cinta muraria che Luciano Basso, al suo esordio da direttore di queste pagine di Genova del Giornale paragonò alla Muraglia Cinese con un commosso e commovente elzeviro.

Due i grandi meriti di Finauri. Ripercorre le tappe delle “difese” di Genova legandole alla storia: dalle cinte murarie, alle porte d’ingresso (quella della Lanterna ad ovest e Porta Pila tra via Fiume e via XX Settembre), dalle Torri ottocentesche ai Forti al di fuori delle Mura Nuove, alle Batterie, cinque perfino quelle della Lanterna per cui dovettero essere numerate. Nel racconto anche aneddoti suggestivi come “il fantasma del fucilato” di Batteria Cava, che è una delle più antiche costiere di Genova.

Finauri ci insegna anche e soprattutto come recarci ai Forti, da cui la vista sulla nostra Genova è davvero “superba”.

                           Maria Luisa Bressani

 

Storie e Letteratura di Nizza e del Nizzardo 

di Giulio Vignoli

Mi sembra giusto prima di seguire un ordine cronologico anticipare alcuni  testi importanti. Il primo è del prof. Giulio Vignoli che ha girato a spese proprie l'Europa alla ricerca delle minoranze italiane per dar loro voce e per dar voce a tanti loro problemi ed ingiustizie anche storiche. Perciò lo ritengo un benemerito e un benefattore per la nostra italianità.

Altro benemerito è Stefano Lorenzetto però il libro qui rencesito per le pagine di Genova doveva contenere qualche affinità o riferimento a Genova (era la direttiva ricevuta dal caporedattore) e non voendo rinunciare a reensire pur se nulla c'era nel libro in riferimento a Genova ne ho fatto una storia comparata per episodi tra popoli affini. La recensione è riportata incompleta causa una vecchia scannerizazione ma la rifarò (allora non pensavo a questo sito  a a doverla ripubblicare)

L'altro testo che anticipo di Giglio Reduzzi riguarda i Caravana del Porto di Genova che in origine sono stati bergamaschi come l'autore.

Storie e Letterature di Nizza e del Nizzardo (e di Briga e di Tenda e del Principato di Monaco),  un libro pubblicato da “Settecolori” (giunto fulmineo alla II Edizione). Scritto per dimostrare che “Nizza non era così francese come si vuol far credere” da Giulio Vignoli, già professore di Diritto Internazionale all’Università. Vignoli, un benefattore d’italianità: da anni compiendo viaggi, raccogliendo testimonianze dirette, si occupa delle nostre minoranze all’Estero e di lingue minoritarie (qui scopriamo che il dialetto monegasco è genovese, quello di Mentone ligure). Suoi testi fondamentali: I territori italofoni non appartenenti alla Repubblica Italiana; Gli italiani dimenticati. Minoranze italiane in Europa; L’olocausto sconosciuto. Lo sterminio degli italiani di Crimea (ricerca con Giulia Giachetti Boico)  presentato nel 2008 al Ducale.

La presentazione di quest’opera per ricordare che 150 anni fa Nizza e la sua Contea vennero cedute alla Francia in cambio dell’aiuto di Napoleone III nella Seconda Guerra d’Indipendenza, è venerdì nove (h. 16,45) all’Hotel Astoria (piazza Brignole 4). Partecipano Piero Vassallo, Luciano Garibaldi, Alberto Rosselli, Sergio Boschiero, moderatrice  Miriam Pastorino presidente dell’Associazione Voltar Pagina.

Una buona occasione per capire “lo sradicamento violento e forzato d’italianità, la congiura francese del silenzio, perdurante se certa intellighentia nizzarda ha “bandito” Maurice Mauviel, docente all’Università Paris-Descartes, per l’intenzione di trattare della letteratura italiana di Nizza.

Vignoli ricostruisce la storia, ci ridà i nomi e l’opera degli scrittori italiani del Nizzardo, iniziando con Ludovico Lascaris nel 1300 per un totale di 123 scrittori. Nel 2000 sono solo due: Reinat Toscano ed Alain Roullier Laurens guida di un movimento autonomista-indipendentista. Questi ha edito in francese Nizza Contemporanea di Enrico Sappia e Nizza 1792-1814 di Giuseppe Andrè (in Francia inaccessibili). Il libro di Andrè, del 1894, riguarda le vessazioni dei soldati francesi sui montanari (Les Barbets) nascosti sulle montagne delle Alpi Marittime ai tempi della prima cessione, 1792, alla Francia. Nizza si era liberamente data nel 1388 ai Savoia con l’impegno di quest’ultimi di non cederla mai ad altro Stato, ma con la Rivoluzione fu occupata dai francesi e tornò sabauda nel 1814 con la Restaurazione.

L’indipendentista Alain oggi denuncia i brogli del plebiscito  del 1860, rivendica la fondatezza dei “Vespri Nizzardi”,  tre giorni di manifestazioni popolari del 1871, con assalto della prefettura al grido INRI: “I Nizzardi Ritorneranno Italiani”.

L’odierno movimento indipendentista  ristabilisce verità su Garibaldi, nato a Nizza nel 1807 (da Domenico di Chiavari e Rosa Raimondi di Loano), mentre le celebrazioni ufficiali del bicentenario lo hanno violato e falsato. Garibaldi, quando dopo il plebiscito fu messa la mordacchia, disse: “Se Nizza e Corsica sono francesi, io sono tartaro”.

La storia degli italiani a Nizza nel libro viene indicata con parole come “sradicamento violento”, “genocidio culturale”, “pagine di storia strappate e verità taciute”. Si racconta di roghi di carte degli Archivi per distruggere la loro memoria, conservata dalle lapidi al cimitero. Ricorre l’espressione “dalla sera al mattino” riguardo la soppressione nel 1860 dell’italiano nelle scuole e nella pubblica amministrazione, e la stessa espressione per la chiusura  nel 1895 del giornale Il Pensiero di Nizza di Andrè. Una riflessione: questo decisionismo francese nasce dalla loro grandeur storica. Per la centrale nucleare Superphoenix, anni settanta, i contestatori francesi vennero caricati come sacchi su camion dalla gendarmerie, non come i nostri No Tav.

Grande questo ricordo d’italianità di Vignoli attraverso i nostri scrittori e la lingua del nizzardo: i libri sono l’anima di un popolo. Purché il libro non sia omissivo. Invece -nota polemica- L’Italia fuori d’Italia dal primo Settecento a l’Unità di Franco Venturi (contributo a Storia d’Italia, Einaudi 1973) non ha una parola sulla cultura nizzarda di lingua italiana. Commenta Vignoli: “Forse il Venturi era ‘politicamente corretto’. Perché rischiare l’accusa di fascista?” Solo il fascismo infatti nel 1939 rivendicò l’italianità di Corsica e Nizza. “Ma nel 1943 con ‘la morte della Patria’ l’argomento Nizza non fu più toccato, si dimenticarono Istria e Pola, Fiume e Zara, Briga e Tenda”. All’Estero il Fascismo viene  associato al Nazismo senza minor graduatoria di colpe, “ben diverso  l’atteggiamento verso i delitti del Comunismo”, scrive Vignoli (in corsivo per maggior risalto). Quanti, nonostante milioni di morti causati dalla nefasta ideologia, gli “orfani” del Comunismo?

                        Maria Luisa Bressani

L'epopea dei Caravana (La -tanto derisa- Laboriosità Bergamasca

e dal Brembo al Mississippi di Giglio Reduzzi

Una Biblioteca contemporanea di autori che stimano Lussana e le pagine genovesi del Giornale in questi anni si è costituita presso la redazione. Da far consultare ai ragazzi in formazione per far loro capire storia, politica, uomini e costume. Sorprende l’intelligenza e il sentimento dei tanti autori ed è un gran segno di civiltà. Almeno cinque di queste opere, di mia conoscenza (e con il piacere della lettura), appartengono a Giglio Reduzzi. Di Ponte San Pietro (Bergamo)  vive a Genova. Per la sua esperienza  di quarant’anni in Nord America porta uno sguardo ampio e personale sul mondo globalizzato. A giugno ha pubblicato con “Youcanprint.it Edizioni” La (tanto derisa) Laboriosità Bergamasca, a luglio Dal Brembo al Mississippi: due agili libri complementari.

Il primo riserva la sorpresa di ricordarci che la Compagnia dei Caravana (antico nome della Compagnia Unica del Porto) si costituì nel 1340 e solo di uomini bergamaschi. Avevano  ricevuto il privilegio perché scoppiata una pestilenza a Genova solo facchini bergamaschi avevano seppellito i cadaveri abbandonati per strada. Negli Statuti della Compagnia si legge che non dovevano aver subito condanne  e godevano di una Cassa Mutua da loro inventata. Anche del posto fisso ereditario, un privilegio conservato dopo l’Ottocento dai genovesi che vi erano stati ammessi e con le degenerazioni sperimentate poi dai cittadini a fine anni Cinquanta  (i cortei con i ganci in via XX Settembre). La storia (v. il sito www.circololuigirum.genova.it) a Reduzzi serve per collegarsi ad un altro esempio d’operosità bergamasca: un’iniziativa analoga alla Cassa Mutua si ritrova solo nel 1887 a Calvenzano presso Treviglio nella Società Cooperativa Agricola. Il fondatore Giuseppe Facchetti è definito “un genio”, perché aveva 17 anni. A 27 per insegnare pratica commerciale fondò un Collegio, anzi un College ispirato alle note scuole inglesi del tempo. Lo dotò di una squadra di calcio tra le prime italiane dopo Genoa, Pro Vercelli, Milan (www.coopcalvenzano.it/storia.php).

Reduzzi ricorda come nella bergamasca il “padrone” provvedesse da padre ai bisogni dei dipendenti. Cita lo stabilimento modello dei Crespi, industriali cotonieri (accolto dall’Unesco nella lista Beni Protetti), e con criteri analoghi il villaggio Caproni, d’industriali aeronautici. Fa risalire a questo spirito che presso i bergamaschi accreditava “i privati di poter fare prima e meglio dello Stato” il fallimento della predicazione comunista contro il paternalismo. Il suo è anche un riconoscimento del loro spirito d’intrapresa: molti  gli esempi di uomini di capacità manageriale e  spirito libero, tra cui - affettuoso ricordo - il nonno materno Angelo Radaelli. Ci spiega così come i bergamaschi, noti per svolgere  lavori duri e pericolosi (trafori, dighe, ponti) non siano stati soppiantati dagli immigrati, ma abbiano  acquisito la dirigenza in  queste mansioni.

Ci trascina con il suo forte sentimento delle radici: il ricordo delle filande della seta con bachi e gelsi protagonisti, le “uccellande”, ormai smantellate, per la caccia ai tordi. La polenta e osèi è ormai  un dessert (un panetto con sopra figurine d’uccelli) nelle pasticcerie di Bergamo Alta ma la foto fa venir voglia d’andarci subito.

Il secondo libro Dal Brembo al Mississippi appare complementare al primo per riflessioni su diversità fondamentali tra il nostro vivere e quello americano, ce ne dà esempi.

Nelle pianure del Nord America si vedono a chilometri di distanza semafori di luce gialla lampeggiante per segnalare incroci. Anche se non c’è nessuno in arrivo gli americani si fermano allo stop, gli italiani mai.

Esemplare l’episodio di una contravvenzione per eccesso di velocità ad un uomo d’affari spagnolo che la contesta e viene assolto dal giudice di guardia alla Centrale di Polizia perché il rilevatore di velocità era guasto. All’uscita un avvocato lo invita a chieder rimborso per il tempo perso (due ore circa). Dopo novanta minuti esce dal tribunale con un assegno di 2000 dollari che divide con l’avvocato. “Giustizia all’americana” s’intitola il capitolo, mentre “per le questioni di giustizia in Italia, come si sa, c’è sempre tempo”, commenta Reduzzi che ha scritto Giustizia all’italiana sul “fumus persecutionis” contro Berlusconi.

In questo testo non vuole parlar di politica, però ricorda la precarietà del posto di lavoro in America dove la Lockeed (produttrice del Galaxy, l’aereo più grande del mondo) negli anni ’60 licenziò ventimila dipendenti. “In Italia – dice – l’impiego pubblico (sempre sicuro perché lo Stato non  fallisce) è meglio retribuito di quello privato, oltre che meno impegnativo”. Rimarca ancora: “Da noi ad introdurre la stabilità nel mondo del lavoro pensò il Comunismo, che come sappiamo non ebbe molto successo...” E ancora  su Sergio Marchionne: “Fa le stesse cose sulle due sponde dell’Atlantico, ma là è eroe, qua affamatore del popolo”.

Reduzzi racconta di come sia facile per una burocrazia semplificata acquistare casa in America anche su un lago o un braccio di mare, come sia semplice quanto a tempo avere la patente di guida, come la sanità americana eviti lo spreco dei medicinali, come i  cimiteri americani siano esenti dal culto della personalità dei nostri. (Agatha Christie scrisse non aver visto niente più kitsch del Cimitero di Staglieno).

Ci racconta di famiglia, divorzio, fedeltà e amanti. Da noi l’amante al tempo di matrimoni indissolubili era status symbol. Quando una coppia incontrò in Galleria a Milano un conoscente che esibiva “l’amica in carica”, la sposa, a sua volta molto cornificata, commentò: “La nosa l’è püse bèla”.

Alla fine si conviene con Reduzzi quando dice: “C’è ancora qualcuno tra voi che trova strana la mia voglia, un mese all’anno, di far l’americano?” Lo fa nella sua casetta in Canada che – orgoglioso - mostra in copertina di libro.

                       Maria Luisa Bressani

 

E un testo sull'eroismo in Liguria

I Balestrieri Liguri . Nascita e tramonto di una leggendaria milizia

 di Alberto Rosselli

I balestrieri liguri - Nascita e tramonto di una leggendaria milizia (Ligurpress) è un libro di storia che emoziona anche chi storico non è. Non a caso, scorrendo le opere di Alberti Rosselli, l’agguerrito autore, alcune rivelano un interesse specialistico sul mondo orientale, altre attenzione alle vittime come L’Olocausto armeno, La persecuzione dei cattolici nella Spagna Repubblicana 1931-39 o la Persecuzione dei cristiani in Cina.

Il confronto con Rosselli riserva sorprese e da bravo giornalista fa concludere il libro sull’attualità. A Genova infatti esiste la Compagnia dei Balestrieri del Mandraccio con sede presso la Casa del Boia in piazza Cavour (aperta al pubblico la prima domenica di ogni mese dalle 15 alle 18,30), dove è allestito un  Museo di armi e costumi. La Compagnia svolge attività rievocativa di costumi medievali, con ricostruzione di armi come la balestra ligure, con  indagini e studi su testi e dipinti antichi. Nel libro, in 23 pagine di foto a colori, si ammirano cartine geografiche d’epoca, quadri medievali, riproduzioni di balestre, di cui una conservata al Museo di Crécy. E’ questo il luogo di una famosa battaglia della Guerra dei Cent’Anni dove sul campo rimasero 12mila uomini, tra cui 5mila genovesi.

A Crécy nel 1346 con i suoi 6000mila balestrieri genovesi combatté al servizio di Filippo VI Aitone Doria, corsaro e signore ghibellino di Oneglia e Diano Marina, che con Stefano Doria, fuoriuscito come lui, da tempo si era messo al servizio del re di Francia, impegnato contro l’Inghilterra. Una succosa chicca  è riportata in Appendice sulle gesta di Aitone, citate anno per anno. Nel 1339 (prima di Crécy) Aitone aveva concluso il servizio per mare al re di Francia: la flotta francese era stata sconfitta e il re aveva fatto trattenere il soldo agli equipaggi.  La chicca è che Aitone, accusato dai suoi di malversazione, nella circostanza del “licenziarsi” dal re si riempie la stiva delle navi di pregiate lane inglesi. Insomma un ligure, abile commerciante.

La parte centrale del libro, epica e trascinante, è dedicata alla battaglia di Crécy dove 3000 inglesi con l’“arco lungo inglese” fanno strage con “mezzo milione di frecce” dei balestrieri genovesi saliti al loro attacco. Era scoppiato un violento temporale: il terreno era scivoloso e forse le balestre erano meno efficienti mentre gli inglesi avevano riparato dall’acqua sotto gli elmi le corde degli archi.

Nell’occasione Filippo VI offende i liguri dicendo: “Ecco cosa si ottiene ad impiegar furfanti che se la squagliano”. Mentre i balestrieri si stavano riorganizzando ordina ai suoi luogotenenti: “Ammazzate quei gaglioffi!”. E gli alleati, i cavalieri francesi, calpestano i genovesi.

A Crécy spararono le prime bombarde, pur se l’impiego delle balestre continuò nelle battaglie navali, dove l’utilizzo delle bombarde era più difficile, fino al 1571 di Lepanto.

Rosselli scende in profondità: gli antichi antagonismi tra Francia e Inghilterra, le differenze dei loro eserciti, la tradizione militare ligure formatasi per tutela dei possedimenti genovesi e ricercata come forza mercenaria.

La balestra ligure, che esordì nella Prima Crociata, perforava ogni armatura e fin le mura di difesa delle città. Importata nel 900 dal Medio Oriente, gli arabi l’avevano presa dalla Cina dove si era affermata 3000 anni fa. Una delle prime croniste della storia, la principessa Anna Comnena vi scrisse un trattato, chiamandola “tsangra”. E nel 1300 un balestriere ligure poteva guadagnare al mese 25 soldi, quanto un notaio della Repubblica.

                 Maria Luisa Bressani

Cuor di Veneto di Stefano Lorenzetto

Cuor di Veneto – anatomia di un popolo che fu nazione di Stefano Lorenzetto (Marsilio), un libro su “un popolo per 1100 anni Nazione”, soprattutto un bel libro dove “cuor” sta per umanità verso gli altri e coraggio di dire.

Con parole di Lorenzetto “il Veneto è la regione della Repubblica più longeva nel corso dei 4000 anni narrati nei libri di storia”. Ciò è stato possibile anche per la capacità di fare “schei” (soldi). Gli “schei” sono la “riserva per garantire ai veneti il bene che hanno caro quanto la vita: l’autonomia”, non per avallare lo stereotipo di “padroncino, analfabeta, razzista, sfruttatore, asservito al denaro”. E con queste anticipazioni si capisce subito che non è solo un libro di storia, specie l’attuale, ma sull’identità.

Un libro si apprezza anche per la sintonia e come non pensare ad un’altra Repubblica, quella di Genova? Se ne potrebbe attribuire la fondazione al Vescovo Teodolfo (episcopato 945/981), fondatore della Compagna, primassociazione militare cristiana di mutuo soccorso, della flotta militare di Genova Repubblica marinara italiana, l’inventore della catena di torri d’avvistamento contro i saraceni (basti ricordare l’invasione musulmana del 935 che a Genova si portò via sulle galee -stando a fonti arabe- mille donne e bambine).

Il cardinal Siri, un genovese che amava Genova, dei genovesi amava rievocare la loro storia di “vinti” nei momenti in cui si fecero rispettare: dal longobardo Rotari che distrusse le mura ma risparmiò la flotta, a Luigi XIV che bombardò il porto ma incontrò eroica resistenza. Non diverso il sentimento di Lorenzetto sul Veneto: “Ha visto i suoi martiri fucilati, il suo vessillo calpestato, le sue insegne lapidee col Leone di San Marco scalpellate via dai muri degli edifici storici... da quell’esercito francese che pretese di portare i lumi nelle contrade dove ci s’inginocchiava davanti alle edicole mariane rischiarate dai lumicini, dove tutto era luminoso, terso, serenissimo, aperto al nuovo pur nella fedeltà al vecchio, fin dai tempi di Marco Polo”.

Un’altra consonanza: la cucina tradizionale. Poverissima per i liguri: dure gallette del marinaio, farinate di ceci, erbe amarognole come il preboggion; altrettanto per i veneti: si cibavano di pantegane arrosto, nell’Alto Garda contendevano le castagne ai maiali, al tempo del Ruzante  “mettevano in tecia tutto quello che respirava, anche le mosche”.

Il libro ricorda anche la durezza di vita per orfani veneti che ebbero successo e mi viene in mente Emanuele Gennaro, mio professore di filosofia al Liceo Doria, che sosteneva: “Per diventare uomini bisognerebbe restar orfani (e lo era stato), troppi genitori sono iperprotettivi”. Luciano Benetton fondatore di un impero nella moda, restò orfano a 10 anni del padre che vulcanizzava copertoni di bicicletta, Renzo Rossetti fondatore dei “Fratelli Rossetti che fanno camminare il mondo”, a 5 anni. Il padre era calzolaio ma nell’infanzia lui non ebbe scarpe vere e teneva sulla scrivania le sue “sgiàvare”, di legno come nell’Albero degli zoccoli”.

Un’altra sintonia forte: l’Italia è ora sedicente “Repubblica fondata sul lavoro”, ma proprio questa “operosità” di popolo è trasversale in alcune Regioni -Veneto e Liguria- più che in altre. Sul lavoro minorile l’autore giunge a sottolineare che “in Veneto i bambini lavoravano per sentirsi utili e anche per non sentiri soli” e che oggi quanto a manufatti “il Veneto è diventato la Cina d’Italia”.

Lorenzetto considera “il lavoro una droga con il sapore di una medicina”, per lui come diceva Voltaire è “la grazia laica” che allontana noia, vizio, bisogno.

Con questi presupposti iniziò a lavorare presto come precoce fu la sua passione per il giornalismo. Ricorda quando nei fine settimana dopo aver eseguito i compiti faceva il proiezionista all’Alcione: con le macchine Fedi a carboni in cabina e il sole che picchiava sul tetto privo di coppi, arrivare a 45 gradi era la norma.

Tra gli articoli che portano la sua inconfondibile impronta quando la sua Verona sui giornali andava alla grande con le stragi purificatrici del duo Ludwig (28 efferati omicidi), con Maso che per ereditare uccise i genitori a padellate recandosi poi in discoteca, lui su “Sette” (del 1992, diretto da Willy Molco), scrive della città del Volontariato: “Su 257mila veronesi 50mila aderivano ad associazioni filantropiche culturali ...”

Nel libro questa stessa propensione alla solidarietà risalta nella galleria di veneti contemporanei, 25 interviste come le 500 puntate della rubrica “Tipi italiani” sul Giornale che l’hanno posto nel Guinness dei primati. Dedica la seconda ad Angelo Bonfanti, l’imprenditore dei matti, e l’ultima al Titta Biondi di Amarcord di Fellini, che ragazzino in collegio fu vittima d’abuso da parte di un missionario. Restò segnato a vita. Colpevolizzazione e scintilla del piacere.

Dei 25 protagonisti alcune frasi sono anch’esse protagoniste. Come questa sui Sindacati: “La ricchezza va redistribuita, ma lo sfruttamento dell’inetto sul laborioso è terribile”.

                            Maria Luisa Bressani

Liguria Nascosta e dimenticata

di Danilo Tacchini

L’autore di Liguria nascosta e dimenticata Danilo Tacchini ha un curriculum assai variegato: nel 1997 la sua tesi di laurea ha riguardato il nuovo sviluppo organizzativo della Fiat Auto avviatosi nel 1989, è stato coautore di Antropologia degli alieni e sul filo di questo interesse ha pubblicato alcuni saggi L’enigma degli oggetti volanti e Extraterrestrialismo come nuova frontiera. Tra i suoi interessi i misteri di Torino magica, del Piemonte sotterraneo, i Misteri sabaudi e la storia delle residenze reali, I Castelli delle Langhe.

Questo testo si può dividere in due parti. Nella prima, ricorre un’indagine sugli animali cari ai Liguri, i gatti ricordati nella storia di Leivi  e in onor dei quali Camogli ha un gemellaggio con la tedesca Gernesheim dove ogni anno si tiene la fiera del gatto di razza, “Kattesteet”; i topi segno della convivenza urbana con l’uomo, i gabbiani segno di unione tra mare e terra, serpenti formiche e lupi segno di collegamento selvaggio con la natura. Oltre ad aneddoti antichi sugli animali della “domesticità” ligure ricorrono storie di personaggi mitici, streghe, diavoli, fantasmi: è un ripercorrere le antiche leggende di cui ogni regione è ricca e che per alcune sono diventate libro grazie a ricercatori che le raccolsero tramandate oralmente dalla voce di pastori e contadini come per le famose leggende delle Dolomiti.

Accanto a questo mondo fiabesco molto interessante, un  capitolo “Nobiltà sepolta” con la storia della casate nobiliari che nel 1528 erano 28 con 600 cognomi, qui ripercorsi in ordine alfabetico a partire dalla famiglia Adorno originaria nel 1200 dalla Germania. Divertente l’aneddoto che racconta l’origine dei Grillo: da Uberto, un capitano che per primo si lanciò sulle mura di Costantinopoli nell’assedio dell’806 tant’è che l’Imperatore Cineforo disse ai suoi: “Vedete quel grillo con quanta celerità sale sui muri?” Nel capitolo successivo, altrettanto singolare, la storia dei Camalli, umile e altrettanto antica (la CULMV Compagnia Unica Lavoratori e Merci Varie nasce nel 1348). Si chiude con la poesia “Addio vegio camallo” di Pino Ratto, soprannominato “O Ratto” (il topo), genovese nato nel 1924 e in pensione da vent’anni.

Un aspetto poco conosciuto, in chiusura della prima parte del libro, riguarda “Le statue stelle” della Lunigiana: stele di roccia arenaria, antropomorfiche, caratterizzate dal non aver la bocca per impedire l’evasione dell’anima.

La  seconda parte consta di 28 capitoletti dedicati ciascuno ad una località ligure: da Sassello, amaretti e facciate decorate, al Principato di Seborga con la storia dell’antica Zecca, a San Biagio della Cima, non lontano da Ventimiglia, che si stava spopolando ma ora vive sulla coltivazione delle rose della sua collina. Con l’aiuto di immigrati del Sud grazie a questa attività di floricultura ha potuto riasfaltare le strade, mandare i ragazzi a studiare in città, ha ripreso vita. Poco più in alto, a 547 metri di altitudine, Perinaldo dove nacque Gian Domenico Cassini, uno dei più importanti astronomi italiani e dove in suo onore nel restauro del Convento francescano di San Sebastiano è stato costruito un Osservatorio Astronomico con cupola motorizzata in rotazione; è in programma di costruirvi anche uno dei più moderni planetari d’Europa.

Bastano – credo - questi accenni per la consapevolezza di trovare tanto nel libro, ma segnalo ancora tre leggende del tutto accattivanti. Del pirata vichingo Hasting che s’innamorò di una statua di Venere razziata durante il saccheggio di Luni. Della Bella di Torriglia, Clementina, amante di Sinibaldo Fieschi, conte di Lavagna che fece affrescare sul soffitto del suo palazzo una bussola con l’ago indirizzato verso la di lei stella. Del Diavolo di Buranco, un baratro tra Pietra Ligure e Toirano. Sono tutti motivi per una lettura da non perdere.

 

                             Maria Luisa Bressani

                                     

 

 

Genova nascosta e sconosciuta

di Giampiero Orselli e Stefano Roffo

Commento: Peccato che Grillo non sappia questo episodio storico dell'assedio di Costantinopoli  che gli servirebbe per nobilatarsi più che imitando l'antica traversata di Mao fare a nuoto a usa volta la traversata di Sicilia

Genova nascosta e sconosciuta è storia senza il peso della storia e testimonia quante cose sa il cronista che si cura di ricostruire le vicende passate nel luogo dove è chiamato a commentare. Dal lavoro di una vita di Giampiero Orselli in RAI, per periodici ed anche autore di vari libri, di Stefano Roffo, un grafico editoriale, scrittore a sua volta di testi d’arte e folclore, nasce questo straordinario affresco.

Genova viene subito identificata con pochi dati: 615919 abitanti, 243 Kmq di estensione, il Centro Storico più antico e più grande d’Europa, la parte racchiusa dalle Strade Nuove – via Garibaldi, via Cairoli, via Balbi- dichiarata nel 2006 dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Il primo toponimo che incontriamo è via Luccoli: dal latino “lucus”, bosco, perché da qui fino a Salita Santa Caterina c’era il boschetto sacro  a Vesta. Una delle vestali, che non riuscì a proteggere la fiamma accesa nel braciere per la dea, fu giustiziata e il suo fantasma s’incontra ancora. Un capitoletto del libro è dedicato ai fantasmi (in cui s’imbatte solo chi fa le ore piccole), molti in una storia di Genova fosca di tragedie e ammazzamenti.

Un episodio. Nel 500 la Lanterna di Genova fu danneggiata dal fuoco amico degli insorti genovesi contro i francesi; fatta ricostruire “più bella e più alta”, l’architetto fu buttato dalla torre: per non rivelare i segreti della costruzione o per non pagargli la parcella. Il detto che “per fare un genovese ci vogliono quattro ebrei” è risaputo, ma nelle pagine dedicate al ghetto vengono sottolineate altre forti affinità elettive “non solo avarizia, ma genialità imprenditoriale, senso d’humour, intelligenza speculativa”.

Affascinano nel libro la storia della Fontana di piazza De Ferrari (che nella versione attuale riceve il commento “mah!”), di Palazzo S. Giorgio -nelle cui segrete Marco Polo dettò Il Milione- e che nel 1899 si voleva demolire se non si fossero opposti in pochi tra cui Carducci finché non lo restaurò a sue spese, per 40mila lire, Alfredo De Andrade. Affascinano la storia delle Torri tra cui la Grimaldina di palazzo Ducale dove s’impiccò Ruffini, del boia che guadagnava poco, dei fratelli navigatori Vivaldi tornati a Genova come gabbiani reali a nidificare sul campanile delle Vigne, del Monastero della principessa svedese Santa Brigida. Fondato nel 1403 era misto, di clausura ma con ali separate per suore e frati; fu chiuso nel 1606 perché la collaborazione mista a progetti comuni, due secoli dopo, veniva considerata uno scandalo.

Affascina la suggestiva San Pancrazio dei Cavalieri di Malta, dove al sabato alle 17 si ascolta la Messa in latino e in cui il Trittico del Redentore tra il Santo e l’Evangelista Giovanni è tra i più importanti documenti sui rapporti artistici di Genova con le Fiandre. Incantano le edicole mariane del Centro Storico.

Ripercorriamo la storia delle Sante genovesi, dei Papi, della grandi Famiglie. E delle tragedie: dalla peste del 1347 all’ultima del 1743, ai 354 morti della Galleria delle Grazie nell’ultima guerra. E poi Genova sotterranea con 66 grotte naturali, quasi km. 2000 e con le cavità artificiali della rete fognaria e i km. 60 di acquedotti storici. A fronte di questa Genova, quella ideata dagli architetti: il Biscione di Daneri e Fuselli, il Matitone dello studio internazionale Skidmore, il grattacielo di piazza Dante del Piacentini.

Un pregio in più: rari i commenti tra cui da incastonare quello sui “terribili eventi del luglio 2001” (se mai i no-global lo leggano, capiranno le offese arrecate); un altro commento, un “quando mai” scappa scoprendo tra le testimonianze di visitatori illustri questa di Mark Twain incantato dalla bellezza delle genovesi: “hanno capelli biondissimi e molte di loro occhi azzurri...”                

                   Maria Luisa Bressani

 

 

 

 

 

 

 

Fortificazioni in Liguria dal XVIII secolo alla Grande Guerra

di Mauro Minola, Claudio Arena, Beppe Ronco

E ora dalle fortificazioni per guerre antiche a quelle per guerre recenti

I tre autori di Fortificazioni in Liguria dal XVIII secolo alla Grande Guerra (Ligurpress) hanno competenze che s’integrano: Mauro Minola, torinese, è esperto della storia del Piemonte e di Casa Savoia, Claudio Arena, genovese di storia del ponente ligure (www.fortezzesavonesi.com), Beppe Ronco, torinese, è alpinista e fotografo, qualità indispensabile per visitare luoghi impervi e riportarcene il ricordo visivo.

Nel libro si racconta della “difesa” della Liguria che inizia dal Trecento quando Genova con il controllo diretto e indiretto delle città in riviera si trova a competere con l’espansionismo dei Savoia. Nel 1391 avevano avuto lo sbarco al mare con la Contea di Nizza, nel 1575 acquisivano le Contee di Tenda e Briga, l’anno dopo la signoria di Oneglia. Nel 1625 occupano il marchesato di Zuccarello e Genova si allea con la Spagna: sono 50 anni di guerre. Per difendersi Genova ristruttura il Prìamar di Savona, costruisce i Forti di Vado, San Giacomo, San Lorenzo e Santa Tecla di Sanremo.

Una svolta riguardo i luoghi strategici della guerra avviene nel 1744 quando i generali franco-spagnoli alleati con Genova contro Savoia, Austria, Inghilterra capiscono che è più agevole attaccare il nemico lungo la Liguria. Strategia seguita anche da Napoleone mezzo secolo dopo, costringendo nel 1796 all’Armistizio di Cherasco Vittorio Amedeo III.

La narrazione delle battaglie napoleoniche, incorniciate in pagine di tinta azzurrina,  riveste un forte impatto emotivo: la battaglia di Col di Nava dal 15 al 18 aprile 1794, la battaglia del Colle di Tenda il 25, di Collardente il 27,  la finale di Loano nel settembre 1795 che è nelle glorie francesi scolpite nell’Arco di Trionfo di Parigi.

A restituirci l’emozione bastano due episodi. Il primo: dopo l’attacco dei francesi sul Col di Nava, la loro marcia proseguì su Ormea dove il Castello era difeso da un vecchio capitano che chiese di poter sparare cinque o sei colpi di cannone per aver salvo l’onore. Massena gli rispose che la guerra non è un gioco di ragazzi e gli impose resa immediata. Il secondo: quando i francesi al comando di Massena volevano calare da Collardente in Val Roya, al mattino la presa della Ridotta di Fels costò loro 400 morti e 150 tra i piemontesi. (Ridotta è un’opera fortificata, spesso provvisoria, situata a capo di una linea trincerata e munita di piccoli pezzi d’artiglieria). Al pomeriggio la Ridotta di Collardente che era difesa da 300 uomini di una Compagnia delle Guardie del Re (intrepidi come gli Spartani alle Termopili) causò loro 200 morti e la ritirata, ma il comandante piemontese Colli per non esser tagliato nel fondovalle verso Tenda abbandonò il Collardente-Saccarello, aprendo la via a Massena.

Tra i primi luoghi strategici il Colle di Tenda, dal X secolo per il commercio del sale, poi collegamento tra i territori piemontesi dei Savoia e la loro Contea di Nizza. Ma il problema della difesa degli accessi delle Alpi Liguri si ripropose nel 1885 a causa della Triplice Alleanza dell’Italia con Germania e Austria. Il Ministro della Guerra Ferrero organizzò sbarramenti ad ogni passaggio al basso Piemonte attraverso Alpi o Appennini, dal Tenda al Nava, da Zuccarello al Giovo passando per Altare; introdusse il “campo trincerato” montano con il Forte-chiusa che inglobava il tratto stradale da difendere, le batterie corazzate, il grande arsenale marittimo di La Spezia. Tra le nuove fortificazioni, il campo trincerato di Marta-Saccarello dove il Battaglione Alpino Mondovì salendo nell’aprile del 1892 (un secolo dopo le battaglie napoleoniche) trovò i ricoveri ricoperti da tre metri di neve. Gli autori definiscono “da non perdere” la visita alla “Batteria 605 di Balcone di Marta”. Nella Grande Guerra poi si disarmarono le fortificazioni alpine per mandare pezzi sul fronte orientale.

Dal libro un raro e buon esempio di utilizzo a fini culturali di una fortificazione: la Ridotta dell’Annunziata costruita per sbarrare il passaggio sulla litoranea voluta da Napoleone (l’Aurelia), ora è sede del Museo Archeologico “Girolamo Rossi” di Ventimiglia. Tra le foto favolose quelle del Forte San Giovanni con le garitte, del Redentore sul Saccarello, e suggestivi gli scatti d’interesse storico.

                          Maria Luisa Bressani

 

Il Vallo Ligure di Gabriele Faggioni

Il Vallo Ligure di Gabriele Faggioni per la Ligurpress è un libro “necessario”. E’ questa la linea difensiva allestita dai nazifascisti dopo l’8 settembre 1943 lungo le coste per prevenire il temuto sbarco alleato verso la pianura padana per risalire al sud del Reich. Alcune strutture del Vallo sono ancora visibili: a Punta Bianca (Ameglia), all’isola del Tino (culla del monachesimo), a Monterosso, Chiavari, Albenga o sul monte di Portofino. E come un film in presa diretta il libro ci fa capire cosa fu l’ultima guerra nelle nostre città e nella nostra Regione. Con la consistenza delle bombe sganciate, con le storie di chi comandava - eroi, manigoldi, voltagabbana - e  le loro vittime.

Si compone di tre parti. Nella prima è descritto il sistema difensivo costiero dal 10/6/1940 (entrata in guerra) all’8 settembre ’43 (armistizio). Nella seconda le mutazioni apportate dai nuovi occupanti, truppe germaniche e RSI, che nel luglio ’44 ristrutturarono la difesa con 6300 tedeschi e 200mila italiani.  Venti/trenta pagine, per ciascuna delle quattro province liguri, dettagliano le fortificazioni e chi le presidiava. Due i momenti di alto pathos: la Liberazione di Genova (con la trattativa Meinhold-Boetto-Cln ma un Fritz Weegen, comandante della Kriegsmarine e della X Mas su Monte Moro che fa sparare sulla città fino al 27 aprile) e quella di La Spezia. Nella terza parte sono, per ciascun Comune, le opere fortificate e i reparti a presidio.

Oltre 300 le fortificazioni edificate in Liguria, bunker con cannoni antinave, nidi di mitragliatrici e muri antisbarco. L’autore iniziò a visitarle – per passione - da ragazzo prima di collaborare a riviste storico-militari e pubblicare opere storiche: la Guida sulle fortificazioni militari delle Channel Islands o la Guida delle isole Normanne e Sistema difensivo della Piazza Marittima della Spezia nella prima metà del Novecento.

Per entrare nel dettaglio, nella prima parte del libro si assiste all’11/12 giugno 1940: sganciamento di 5 tonnellate di bombe da parte degli aerei anglo francesi su Genova;  al 24 ottobre ’42: sganciamento di 166 tonnellate di ordigni con 354 morti nella ressa del rifugio della Galleria delle Grazie. Spostandosi in Riviera altri inizi di guerra tragici:  il 22 giugno 1940 sul Treno Armato n. 2 della Regia Marina morì con i compagni il Tenente di vascello Giovanni Ingrao. Il treno, pur “inquadrato” dall’artiglieria francese, per ordine del generale Gambara uscì dalla galleria di Capo Mortola (sotto i Giardini Hambury) per servire da fuoco d’appoggio. Ingrao, prima l’aveva “riparato” in galleria, ma con una nuova sortita obbedì all’ordine e fu la fine.

Ci fu anche un comandante, voltagabbana dell’ultima ora pur se di sentimenti antifascisti, per noi “eroe provvidenziale”: Hermann Deget, maresciallo della Marina germanica, in cambio di un salvacondotto per sé e la moglie, il 24 aprile del ’45 salva dalla distruzione i porti e gli impianti imperiesi disinnescando – a rischio personale - oltre 200 mine.

Nel libro molte parole del gergo militare rivestono forte significato evocativo, come i “nidi” di mitragliatrice dove nel luogo-simbolo di protezione della specie umana o animale si annida l’insidia bellica. Dà straniamento trovare tra i luoghi “armati” Quinto o la passeggiata di Nervi, mete oggi di turisti della domenica, allora disseminate di postazioni con cannoni. A Lerici non si “salvò” dalle costruzioni difensive nemmeno la “Via dell’Amore” dove l’Organizzazione Todt aveva intrapreso la costruzione di una galleria che doveva congiungersi con quella del treno. All’Organizzazione sono dedicate due pagine sul fondatore, un ingegnere che aveva costruito la rete autostradale in Germania e che, poi entrato in contrasto con Hitler, morì in un misterioso incidente aereo. Vengono indicate le ditte  che collaboravano alla costruzione del Vallo: la Bertoni & Ramella nel Ponente Ligure, la Paladino e Spallanzani ad Imperia.

Tra le 100 foto di cannoni, postazioni e luoghi, alcune splendide di Manifesti d’epoca. Uno è per i benefici che derivavano dalla collaborazione ai lavori difensivi: buona retribuzione, alloggio cibo assistenza medica gratuiti.

                     Maria Luisa Bressani

 

Le operazione aeronavali nel Mar Ligure 1940-45

di Gabriele Faggioni e Alberto Rosselli

Le operazioni aeronavali nel Mar Ligure 1940-45 di Gabriele Faggioni e Alberto Rosselli per la Ligrupress (meritevole casa editrice che scandaglia storia e tradizioni di Liguria e basso Piemonte) è un film in presa diretta sull’ultima guerra. Ci fa capire cosa è stata: dopo un indispensabile glossario di termini militari, ci elenca nave per nave, batteria per batteria, le forze in campo e le azioni. Un capitolo per ogni anno di guerra.

Il primo ci offre il panorama delle forze in campo, determinanti all’esito finale più del valore dei singoli uomini. Nel giugno 1940, all’entrata in guerra dell’Italia, la Royal Navy (allora la flotta britannica era la più grande al mondo) e la Marine Nationale francese avevano nel Mediterraneo un numero di navi da guerra inferiore alla nostra Regia Marina, che disponeva di 267 unità. Stavano però per entrare in servizio le navi da battaglia della classe King George V e le prime portaerei della classe Illustrious, dotate di ponte di volo corazzato. Non solo la Marine Nationale francese, con 174 navi da guerra e equipaggi ben addestrati, presidiava i principali porti mediterranei: Orano, Algeri,  Biserta (Tunisia), Beirut.

Nel libro una notizia interessante riguarda la capacità di previsione di Napoleone che intuì il golfo spezzino come luogo ideale per una base navale tanto che nel 1808 allestì un arsenale marittimo nelle anse di Varignano e delle Grazie, ma nel 1814 fu travolto da Waterloo. Il golfo continuò ad essere difeso e potenziato dalle nostre forze.

Segue, in dettaglio, la descrizione della difesa dei porti mercantili  di Genova e Savona, quest’ultimo protetto da tre treni armati a Vado Ligure, Albenga, Albisola. Viene ricordata la guerra-lampo dei tedeschi, 10/28 maggio 1940, quando Leopoldo firmò la capitolazione del Belgio e fino al 4 giugno le truppe alleate vennero evacuate da Dunkerque verso i porti britannici: lasciarono la Francia 338226 uomini, di cui 123mila francesi, e il 12 giugno Parigi fu dichiarata città aperta. Questo inizio, che è bene ricordare agli studenti (i testi scolastici al riguardo sono frettolosi), ha in sé non tanto la fascinazione della guerra, un orrore quasi testa di Medea che finisce per soggiogare (lo scriveva Oriana Fallaci di quella in Vietnam), quanto piuttosto la consapevolezza del dramma che costò vite, sfasciò famiglie, stravolse la quotidianità dei tanti.

Per quanto riguarda Genova e la Liguria ci sarà qualche nipote che rintraccerà nel resoconto cronologico (nave per nave, operazione per operazione) la vicenda che coinvolse il nonno o un giovanissimo padre. In cifre sono 9mila le vittime civili dei bombardamenti aerei  su Genova. Si racconta della bomba che perforò il tetto della cattedrale di San Lorenzo, 9 febbraio 1941, lanciata tra un totale di 300 tonnellate di esplosivo dalla squadra britannica. Si ricordano le 27 massicce incursioni aeree solo su Genova del 28 agosto ‘44 elencando di volta in volta i morti e si ritorna sulla tragedia della Galleria di San Benigno, 2000 morti il 10 ottobre successivo.

Nel finale del libro si dà spazio alla commozione con tre saggi: il primo sull’ultima azione dei mezzi d’assalto della Decima Mas, ricostituita a Spezia da Valerio Borghese, il secondo appunto sui bombardamenti aerei, il terzo sull’inferno di fuoco, 10 novembre del ’43, su Recco. Questo saggio è arricchito da testimonianze tra cui quella del figlio di un maggiore del Genio Navale, silurato in mare e bombardato a Tobruk. Quando scoppia il bombardamento e il padre incita a raggiungere la galleria ferroviaria, il ragazzo corre a Megli, posta sul Golfo come un balcone e ne ridiscende dopo i 40 minuti di bombardamento. Alla luce della luna scopre i corpi dei genitori e del fratello riversi sull’asfalto e per riuscire a seppellirli impiega tre giorni. E’ il dramma della guerra e le tante foto d’epoca sparse nel libro sono come occhi spalancati sulla fierezza e sul dolore. I due autori sono studiosi di  storia militare, diplomatica e geopolitica. Faggioni, archeologo, ha iniziato a interessarsi fin da giovane alla storia navale, in particolare della II guerra mondiale e, di recente, per la Ligrupress ha pubblicato Il Vallo Ligure, testo indispensabile per conoscere le nostre difese costiere; Rosselli ha allargato il suo interesse all’Oriente con libri fondamentali come Il Tramonto della Mezzaluna - L’Impero Ottomano nella Prima Guerra Mondiale, Sulla Turchia e L’Europa e altri con  protagonisti le vittime: L’Olocausto armeno, La persecuzione dei cattolici nella Spagna repubblicana 1931-1939, La persecuzione dei cristiani in Cina.

                 Maria Luisa Bressani

 

 

Per Marzia Ratti che è stata la curatrice del Museo Lia, vedere anche la pagina Arte e Tradizione.

Ora, tornando  indietro nel tempo e ad un grande genovese, un genovese doc: Cristoforo Colombo

Gianfranco Rovani: Atti della giornata commemorativa 

"Quinto nel 5° centenario della morte di Cristoforo Colombo" 

 

Il 20 maggio 1506 a Valladolid moriva Colombo che diede il via al nuovo mondo e cinquecento anni dopo è stato ricordato nella sua casa di Quinto. Là dove vissero nonno, fratelli, zii con i cugini Giovanni, Matteo, Amighetto. Dopo altri cinque anni, gli Atti della giornata commemorativa, Quinto nel 5° centenario della morte di Cristoforo Colombo, pubblicati nelle Edizioni Rovani, continuano a circolare ravvivando quella memoria. Con parole di don Corrado Franzoia nel suo intervento di allora racchiuso nella silloge “la vita è come l’avventura di Colombo, quando si nasce è come salpare”. Una sfida per tutti noi come ha voluto significare il don, arciprete della Parrocchia di San Pietro in Quinto.

Ricca la tradizione degli uomini di fede, nati a Quinto e orgogliosi dell’eccezionale “concittadino”: dall’Abate Mario Righetti a monsignor Luigi Borzone, a Giacomo Lercaro, (nominato cardinale da Pio XII nel 1953 insieme a Siri, a Stepinac trattenuto in carcere a Zagabria, a Wyszynski costretto a non partecipare), a Roncalli, a Paolo Emilio Léger, poi noto per la sua dedizione ai lebbrosi. E con versi di Lercaro per Quinto inziano gli Atti: “In quel lembo di riviera, ove i fiori sono perenni ed il verde s’affaccia alla bruna scogliera”. Racchiudono l’amore per una terra bella che alimentò “un’aristocrazia del mare” favorita dall’approdo a Bagnara, una tra le insenature più protette del Levante.

La nascita a Quinto di Colombo, come sottolinea Gianfranco Rovani nella silloge, è in due atti notarili del 1445 e ’48: il padre, Dominicus de Terra Rubra, risulta residente a Quinto e sono proprio gli anni in cui nacque il navigatore. Negli Atti è citato un altro documento storico da Giovanni Poggi, segretario generale del Priorato delle Confraternite Liguri: l’iscrizione di Colombo, con il padre Domenico, alla Confraternita di Santa Caterina e San Giovanni Battista all’Acquasola, nella Corporazione dei Lanaioli. Allora all’interno delle Casacce le Compagnie di mestiere, cioè  queste Corporazioni, svolgevano funzioni di sindacato.

Una conferma sulla nascita di Colombo a Quinto viene da Taviani nel suo Colombo genio del mar (tradotto in dieci lingue) che annota come il navigatore sia stato capitano per gli armatori Spinola e Centurione, famiglie che appartengono all’antica storia di Quinto. Dal Rovani stesso in Cristoforo Colombo il genovese di Quinto, dove la sottolineatura è fin nel titolo. Da Felipe Fernandez–Armesto (Università di Londra) che ritiene prova primaria la documentazione storica sui cugini quintesi del navigatore: Giovanni partecipò al terzo viaggio per il Nuovo Mondo, Andrea al quarto.

I capitani, provenienti da Quinto, che si distinsero ad inizio del Cinquecento sono la prova di una formazione privilegiata alla navigazione in questo borgo marinaro, forse ad opera di famiglie importanti, come Spinola o Centurione. Allora contavano assai i rapporti intrafamiliari e Antonio Basso fu colui che  aiutò Colombo in Portogallo. Il nome dei Basso, armatori e capitani, ricorre tra i Capitani di Quinto nella lapide di marmo all’ingresso del Circolo omonimo. Vi ricorre anche il nome dei Vassallo: nel libro è ricordato l’ultimo alloro di famiglia con Roberto, nel ’79 campione del mondo di barca a vela, e viene ricordato Giuseppe che nel 1901 naufragò ad Algoa Bay con l’equipaggio, tutto di uomini di Quinto. Non a caso, con la foto della stele in marmo, eretta per loro con pubblica sottoscrizione a Port Elisabeth, si chiude l’affascinante raccolta degli Atti.

Questa memoria è stata cercata e riproposta da Gianfranco Rovani presidente dell’Associazione “Columbus de Terra Rubra”, denominata così dal nome con cui si firmava il navigatore e con cui nel ’93 fu inaugurata una scalinata nel Quartiere Azzurro. Incerto se si trattasse della Terra rossa di Moconesi (alture della Fontanabuona da cui provenivano i genitori di Colombo) o  dell’omonima Quinto.

Nella silloge un intervento di Alessandro Massobrio che con la sua perizia storica mise in risalto come sia stato Mussolini a cancellare le origini quintesi del navigatore a favore di Genova (1934, documento a firma del federale Sangermano). E un intervento di Giovanni Calisi,  presidente nel 2006 della IX Circoscrizione, con la promessa di valorizzare l’antica via Romana di Quinto (percorsa da Colombo e dalla sua famiglia per andare a Genova), ricercando anche tutto l’antico percorso che univa Roma alla Francia.                                  Maria Luisa Bressani

                         

 

Guerre e altri scenari

L'ultimo Sultano. Come l'Impero Ottomano morì a Sanremo

di Riccardo Mandelli

Il 10 febbraio ricorda l’esodo dei giuliano-dalmati. L’Affare Persia può introdurre riguardo Fiume quelle lontane vicende. Nel 1919 il genovese Antonio Sulfàro dirottò il piroscafo Persia, carico d’armi, portando a d’Annunzio aiuto decisivo nell’impresa fiumana e, nell’abbracciarlo, il vate pianse.

L’azione “da commando” come la definisce Vasco Vichi in Antonio Sulfàro, L’ultimo corsaro del Mediterraneo (Chiaramonte Editore) fece resistere i legionari tutto il 1920 gettando le premesse per l’internazionalizzazione di Fiume e il passaggio -nel ’24- per vent’anni all’Italia.

La città, italiana per tradizione e maggioranza di popolazione, era stata la Tarsatica romana, nel 1200 finì sotto il Vescovo di Pola, poi sotto i signori di Duino, poi i Frangipane, poi gli Asburgo. Con Maria Teresa fu “corpo separato” d’Ungheria, riconoscendo la secolare autonomia. Nel ‘41, dissolto l’esercito slavo, le fu annessa Sussak, la campagna oltre al ponte sulla Fiumara che dava il nome alla città. Le spese italiane per le strade in un anno superarono i quattro milioni. Quando gli italiani di Fiume optarono per l’Italia, “gli slavi di Sussak restituirono i benefici rapinandoli senza pietà: era finita la guerra ma continuava la civiltà delle foibe” (Amleto Ballarini in L’olocausta sconosciuta, vita e morte di una città italiana). Diverso l’oggi e in superamento, ma ricordare è un dovere.

Sulla vicenda del Persia, che diede fama a Sulfàro, il libro di Vichi riporta solo un saggio di Luciano Garibaldi per “Storia Illustrata”, mentre pubblica i Quaderni di bordo di Sulfàro nel 1904/5 durante la guerra russo-giapponese, sull’incrociatore corazzato Marco Polo, nave ammiraglia della Divisione Oceanica Italiana. Partì da Taranto il 10 marzo 1904 “per difendere il diritto del più debole e l’onore della Patria”. Nel 1905 l’equipaggio, con base a Shangai, impegnato in servizi d’ordine pubblico, fu molto elogiato, nel 1906 portò il tricolore in porti cinesi, coreani e giapponesi. Durante l’imbarco di Sulfàro addestrò soldati nipponici in radiocomunicazioni e artiglierie di bordo, armi vincenti nella prima grande battaglia navale a Tsushima che con la caduta di Port Arthur rese il Giappone potenza mondiale.

In appendice tra gli importanti allegati (anche sul conflitto italo-turco del 1911/12) La guerra russo-giapponese, 1904-5 di Alberto Caminiti mette in risalto una dimensione globale e non eurocentrica (come resta per noi lo studio della storia). Evidenzia l’indebolimento dell’Impero zarista, la decadenza della Cina, l’aprirsi all’Occidente del Giappone.

Nei Quaderni risalta la formazione del giovane Sulfàro, di cui emergono amor di Patria, Fede, spirito d’osservazione.

Risalta la fede. Un giorno dopo la partenza, alla preghiera in comune istituita per idea della conterranea Marchesa Pallavicini, annota: “E’ commovente una nave tra cielo e mare, con l’equipaggio in perfetto silenzio, lontano dal mondo, che si rivolge all’Altissimo”. Sulla cristianità “flash” ci vengono da un allegato del conte Okuma, capo del partito progressista giapponese. Le osservazioni critiche riguardano i missionari venuti dopo il molto apprezzato Francesco Saverio: “Più che diffondere il cristianesimo miravano con intrighi vergognosi ad assorbire poco o tutto il paese.  Da ciò espulsioni e massacri”. Da sottolineare per la vicina Cina che il viaggio della Marco Polo si colloca poco dopo la rivolta dei Boxers contro gli stranieri e contro i cinesi convertiti al cristianesimo, considerati traditori.

Nel viaggio Sulfàro scoprì angherie. Il giudizio del Tribunale militare per il rifiuto d’obbedienza d’un marinaio gli sembra “Una gran pagliacciata, una condanna già scritta. Aguzzini! E pensare che in battaglia sono morti migliaia d’eroi per liberare l’Italia dalla schiavitù imposta dallo straniero”. Ci informa del sadismo di “un’anima nera” che a bordo li fa camminare scalzi sul ghiaccio o fa cucire il cappuccio della sentinella per non servirsene contro il freddo. C’è di peggio: l’indifferenza verso la vita umana. A Chemulpo (oggi Inchon in Corea del Sud) nell’incendio delle Sante Barbare della Marco Polo, 19 compagni, avvelenati dai gas della balistite, sono lasciati morire “come cani”.

Sulfàro vorrebbe studiare, si sente diventare asino ogni giorno di più, senza calcolare l’arricchimento che gli viene  dall’esperienza dura e che ci affascina: luoghi e costumi diversi, impatto con la guerra, vita e fratellanza a bordo, pietas verso i 400 russi feriti a Chemulpo che la nostra Elba porta ad Hong Kong. Nel suo sguardo etno-economico-ambientale sulle città portuali fin con il racconto di importazioni ed esportazioni, alcuni particolari si venano di nostalgia: Nagasaki paragonata a Sestri Ponente, le vele delle canoe di Ceylon come i bragozzi chioggiotti. Scopriamo la poesia dei paesaggi, di un Eden come il Mare interno del Giappone, di Itsuku, isola sacra dei giapponesi che non vuole la tristezza della morte e dove chi sta male è portato a morire altrove.

                      Maria Luisa Bressani

L’ultimo Sultano – Come l’Impero ottomano morì a Sanremo di Riccardo Mandelli (per Lindau di Torino) è libro d’attualità: la rivoluzione e modernizzazione dei Paesi, ad inizio ‘900 sotto quel dominio, è in corso. La Turchia farà parte dell’UE? Lo vorrebbero Berlusconi come La Torre (PD) e oggi il Nord Africa brucia in rivolta. Il  libro ci aiuta a capire quei popoli e il nostro tempo attraverso radici storiche.

Quando il 29 ottobre 1923 viene proclamata la Repubblica Turca, Atatürk (“padre dei Turchi” appellativo del presidente Mustafa Kemal) vara riforme e laicizzazione dello stato.

L’impero era esteso al Medio Oriente e influente in Nord Africa, ma il Trattato di Sèvres per la sconfitta in guerra del 1918 fece considerare traditore Sultano (che pure non lo sottoscrisse) e provocò la rivolta nazionalista. Nel ’23 il Sultano andò in esilio.

“L’Egitto indipendente doveva ancora liberarsi dalla tutela dei britannici”, “tutto il Medio Oriente iniziava una difficile transizione verso l’ignoto di cui ancor oggi non si vede la fine, con nuclei d’instabilità in Marocco, Libia, Egitto, Siria, Palestina, Turchia”.  Gli statisti europei tramavano per spremere vantaggi; l’Inghilterra voleva il petrolio di Mosul (confine orientale turco). Kemal in prossimità del “Congresso mondiale per il Califfato” al Cairo (maggio 1926), lo cede all’Irak (con protezione inglese). Salta l’accordo tra Chamberlain, ministro degli Esteri britannico, e Mussolini. Dal loro colloquio a Rapallo (dicembre ’25), dopo il quale la moglie di Chamberlain per amicizia si fregiò di distintivo fascista,  s’ipotizzò avesse avuto promessa di “mano libera sulla Siria”.

Il libro ripercorre la storia politica, incluso il colpo di pistola che nell’aprile del ’26, detto “anno napoleonico del fascismo”, l’irlandese Austen Gibson sparò a Mussolini a Roma. Colpito al naso, il duce parte con un cerottone per il viaggio propagandistico in Libia. Sembra un Berlusconi colpito dal Duomo-souvenir, ma una frase sugli attentati “sempre frutto di complotto o di chi lo fomenta” ci fa pensare alle “mani dell’oggi” che, seminando odio, colpiscono (o non si deve dire?). Nel maggio ’26 Mussolini presenta al Senato il bilancio di politica estera: “Quando un popolo entra dove tutti sono già sistemati suscita un po’ di disagio”. “Modesto il compenso coloniale che dà all’Italia l’Oltregiuba, il Dodecaneso...” In quel maggio, dopo la cessione di Mosul da parte di Kemal, Londra dice che la Turchia è cuscinetto tra Occidente e Bolscevismo; al duce restano accordi per zona d’influenza esclusiva in Abissinia.

Particolari dimenticati, ma a cosa serve imparare la Storia? In questo scenario agiscono i protagonisti del libro con una vita in tempo reale: intrighi dei politici, dei banchieri (floridi interessi italiani nei Balcani), ladri che sono spie (anche una spia albanese nel ’25 presso il Sultano e con esordio da traduttore-giornalista al Cittadino di Genova), attentati, processi, impiccagioni, gossip, società segrete. L’islamica “Confraternita delle Virtù” capeggiata dal Sultano aiutava orfani, assisteva musulmani mirando a restaurazione.

Nel gran giallo a colpi di scena, costruito dall’autore, tre morti “sospette”. Nell’archivio di Stato sanremese ha trovato un fascicolo sulla morte di Reşad Pascià medico personale di Maometto VI Vaheddin, ultimo Sultano, che esiliato venne a Sanremo nel ‘23, seguito da tre mogli (ne sposò cinque). Al libro premette: “Il solo giallo degno d’esser letto è quello in cui neanche l’autore conosce il nome dell’assassino”.

Come spiegare il “suicidio” del medico con un colpo di pistola in testa quando sotto i vestiti aveva soldi? Per fuggire? Fu avvelenato il Sultano (accusato d’omicidio dal genero del medico)? Morì poco prima del “Congresso al Cairo” e non aveva abdicato. Si sospettò la moglie più giovane Fatma Nimet, una turca che un giornalista spia dal giardino, mentre lei, donna emancipata (nel ‘99 a Istanbul escono sue Memorie) fuma alla finestra. Dell’avvelenamento era convinto Zeki,  segretario del Sultano. Accusato dell’omicidio del medico e incarcerato a Santa Tecla di Genova, morì poco dopo la libertà per esalazioni di una stufetta. Sapeva troppo?

Del gran protagonista Atatürk (anche gran puttaniere), il Sultano dice: “Mi ha tradito, ma ha salvato la Turchia”.

Nel libro tanto fascino dei luoghi: Sanremo “città dolce e tragica” (definita poi -per i tanti drogati- “città dei fori più che dei fiori”); Istanbul, unica al mondo attraversata dal mare e richiamo d’artisti. Fausto Zonaro, pittore a corte, vi visse vent’anni. In morte del Sultano gli portò fiori. Al Museo Revoltella di Trieste, una gran tela dell’86 “La preghiera di Maometto” del napoletano Domenico Morelli, affascinato da Istanbul: la linea d’orizzonte è di musulmani genuflessi che sospendono la battaglia per pregare.

Tremila le persone al funerale del Sultano, sepolto a Damasco, nel giardino del Tempio. La tomba si perse. In Islam “la scomparsa del corpo è passo verso la divinizzazione!”

                          Maria Luisa Bressani

Antonio Sulfàro, L'ultimo corsaro del Mediterraneo

di Vasco Vichi

Dopo una guerra civile – come fu la conclusione della nostra ultima - una memoria condivisa fatica ad essere accettata, ma Alberto Piccini e Mario Paternostro con Genova e i volti della guerra (De Ferrari) hanno compiuto il miracolo di restituirci una memoria condivisibile. Sono le foto, tratte dall’Archivio Binelli che accompagnano le 165 pagine, a provocarci questa convinzione e le indispensabili spiegazioni degli autori: un’immagine senza parole mal s’interpreta.

Dice bene Paolo Odone nella sintetica prefazione, estraendo  dalla relazione sull’attività della Camera di Commercio nel 1946:“Sull’industria gravano distruzioni, smobilitazione dei reparti di produzione bellica, congelamento dei crediti, deficienza di materie prime. La disoccupazione operaia raggiunge livelli drammatici.” Conclude: “Parole e immagini del libro e un’interessante documentazione fotografica testimoniano, accanto agli eventi bellici, la “voglia di quotidianità” dei genovesi, la loro tenacia nel perseguirla”.

E gli autori del pregevole testo,  Mario Paternostro (uno dei più autorevoli giornalisti genovesi) e Alberto Piccini (professore universitario di “Storia dei Totalitarismi”) in ogni riga scritta hanno sentito la responsabilità di obiettività e verità. Non solo, la foto di copertina  in cui un militare insegna ad una ragazza come indossare una maschera antigas, appare emblematica oggi che nello zaino di uno degli indignati fermati a Roma, compari stretti nel vandalismo di quelli del G8 di Genova, ne è stata trovata una certo più sofisticata. Forse quell’indignato per non far danni ad altri (non importa se ha fatto  direttamente, lui ha la responsabilità di non essersi tolto dalla manifestazione violenta) dovrebbe essere rieducato a democrazia e bene comune, sperimentando la guerra che padri e nonni gli hanno risparmiato in oltre 65 anni di pace.

Tante le foto emblematiche del libro sulla guerra, anno per anno dal 1940 al ’45. Per far capire segnalo il giovanissimo di pagina 120 (un ragazzino con il volto monello di un        Mickey Rooney, oscar giovanile nel ’39), mentre sta leggendo Il Dopolavoro con il cappello d’alpino appeso al fucile: è il 1944, sembra, per l’età, un volontario. La sua espressione solare, orgogliosa, va contro chi voleva farci credere che i volontari subissero una coercizione o non sapessero cosa facevano (v. il volontario veneto nel film “El Alamein” di Enzo Monteleone, 2002). No, erano convinti del loro ideale di Patria; anzi, a Genova ci furono le Fiamme Bianche combattenti ancor dopo la liberazione. Dal libro: “Nella primavera del 1944 in ogni provincia fu aperto l’arruolamento di questo nuovissimo corpo delle classi 1926, ‘27, ’28, ma si arruolarono anche i giovanissimi. Oltre 2000 volontari formarono quattro battaglioni. Addestrati furono aggregati alla Divisione “Etna”, qualcuno alla legione “E. Muti”, qualcuno alle Brigate Nere, dove militavano padri e fratelli.

E’ vero che chi vince cancella la memoria di chi ha perso: quando mai a scuola, dove si deve saper ricordare, qualcuno a Genova ha sentito parlare dell’eroismo delle Fiamme Bianche?

Compaiono anche foto di Fra’ Ginepro da Pompeiana, scrittore, giornalista, volontario in Etiopia, Francia e Albania, da alcuni definito “frate fascista”. Ma il suo “far politica” (nel libro si racconta che nel biennio della RSI rappresentò il “campione di vera italianità”, esibito nelle piazze, sui giornali e alle radio) fu con parole dal testo “speranza per le famiglie con congiunti tra i dispersi e i prigionieri”.

Com’era quell’Italia, come vivevano la guerra i genovesi, lo si capisce da altre foto: una bambina nel suo banco mentre fa la maglia, una scolaresca delle elementari (1942) con visi attenti, grembiulini neri e bianchi; il rancio dei soldati con il vino in tavola (è anche propaganda perché le condizioni degli approvvigionamenti alla gente erano sempre più difficili).

Tante le foto di una quotidianità che inorgoglisce per la dignità nell’affrontare fame e lutti, nel saper comunque divertirsi se si poteva. Le adunate oceaniche davanti al Carlo Felice per ascoltare i gerarchi sull’indispensabilità della guerra (1940), il Politeama Genovese stracolmo per “Colpi di timone” di Govi (’42), la tragedia della Galleria delle Grazie con 354 morti, le macerie del soffitto di Santo Stefano caduto davanti all’altare, le spighe di grano che svettano in piazza Della Vittoria (’43).

Infine, nel ‘45 gli Americani della V Armata e i partigiani che sfilano in città. Una foto ci restituisce un altro giovanissimo, il portabandiera, quasi un bambino.

                        Maria Luisa Bressani

 

Genova e i volti della guerra

di Mario Paternostro e Alberto Piccini

Paolo Deotto testimone del '68 parla a Genova

Paolo Francesco Peloso dalla Reggenza di Algeri

e La Rosa e le spine sulla Reggenza di Tunisi

curati per l'ccademia Ligure di Scienze e Lettere

da Gian Luigi Bruzzone

Sono così da secoli... I dispacci diplomatici di Paolo Francesco Peloso dalla Reggenza di Algeri (1830-43), curato da Gian Luigi Bruzzone per l’Accademia Ligure di Scienze e Lettere, illustra l’opera  del console del Regno di Sardegna in anni incandescenti per gli Stati d’Africa settentrionale. La documentazione diplomatica ci dà un quadro in cui i Bey di Algeri, Tunisi e Tripoli, parte dell’Impero Ottomano, ricevevano le maggiori entrate dai riscatti per gli europei rapiti. Algeri aveva allora 25mila schiavi cristiani. “L’Africa convisse con tale stato di cose appena addolcito dall’opera dei missionari cattolici”, annota Bruzzone che ne ricorda gli Ordini presenti e la costruzione della prima Cappella cattolica intitolata alla Santa Croce.

Nel 1830 il Conte Filippi, console generale del Regno Sardo, ottenne una nave da guerra davanti al Bardo, sede del Bey per obbligarlo a rispettare i trattati, i commercianti liguri e far sì che i francesi non sfruttassero i nostri “corallari”. Non ottenne lo stesso il Peloso, che fu promosso (in realtà spostato)ad Atene dal suo successivo incarico presso la Reggenza di Tunisi (1843-44) perché chiese l’intervento della marina militare contro la violazione  del Bey di Tunisi alle convenzioni con il Regno Sardo, che allora conduceva una politica rinunciataria. Da ricordare che il Bardo-Museo ha oggi il primato di mosaici romani.

Sul periodo tunisino del Peloso Gian Bruzzone ha scritto nel 2002 per l’Accademia La rosa e le spine. Nell’attuale volume (50° della Collana Studi e Ricerche) annota che il Regno Sardo, dopo la fusione della Sardegna con i possedimenti in terraferma (1720), l’unione forzata della Repubblica Ligure (1815), fu potenza navale del Mediterraneo.

Quanto al problema degli schiavi europei, il lettore viene a sapere che “fu americano il primo intervento preventivo geo-politico, paradigma di polizia globale”. La flotta statunitense, creata nel 1794 contro i pirati barbareschi mediterranei, ci riporta parole del presidente Jefferson: “Milioni per la difesa, non un cent per il riscatto”.

La lettura prosegue avvincente con un elenco dei 376 dispacci per evidenziarne il contenuto. Chi teme di scorrerli come cosa noiosa, per l’approfondita ricerca di Bruzzone si troverà a leggere un libro più affascinante dei racconti dei pirati di Salgàri (operanti in altri mari). Tante le notizie sull’Ottocento algerino, in particolare sulla fiorente pesca del corallo praticata dai nostri e funestata da attacchi algerini perché “il massacro degli indifesi era attività assai praticata”. Interessanti i giudizi del Peloso sui costumi militari e sul carattere di arabi, turchi e algerini.

Per la pesca del corallo il dispaccio n.58 menziona Gerolamo Luxardo, gentiluomo che partito da S. Margherita Ligure aveva fondato a Zara la fabbrica di maraschino. Praticava tale pesca anche nei mari di Sebenico ma la dismise perché modesta. Nel 1823 fu nominato vice-console sardo.

Notizie biografiche su Paolo Francesco riguardano la sua nascita a Novi nel 1793, le dimissioni dall’attività presso Antonio Bressiano, console generale sardo a Barcellona, di cui diventò genero, causa il non potersi pagare con lo stipendio il fitto di casa, poi la fortunata carriera. Il palazzo Peloso-Doria è a De Ferrari e il volume sull’attività del console è stato presentato all’Accademia nel momento alto dell’attività annuale: il ricordo dei Soci scomparsi, quest’anno dedicato all’ingegner GioPaolo Peloso, discendente del console, segretario generale dal 1996 al 2009. “GioPaolo Riteneva la cultura baluardo della libertà  e che solo con lo studio, perseguito con passione tutta la vita, l’uomo possa elevare se stesso”. Un credo in sintonia con il motto dell’Accademia “Nihil volentibus arduum” citato nel ricordo dall’ottimo Accademico  Varnier, amico dell’ingegnere.

                                Maria Luisa Bressani

 

E facendo un passo indietro (un secolo prima) a far notare come sia stata operativa l'Italia anche fuori dei suoi stretti confini nel Mediterraneo e sull'altra sponda di questo

E facendo un salto avanti di mezzo secolo ecco invece avanzarsi le armate sanculotte dei sessantottini e poi dei centri sociali e poi dei No Tav, ecc.: gente che ha poca voglia di studiare e lavorare ma pretende di esere mantenuta a capita dalla Società e tra questi non pochi figli di papà. Lavori socialmente utili  o rieducativi alla maniera della vecchia URSS per loro andrebbero più che bene. Ma c'è chi li capisce da don Gallo a Rodotà...

  

II Guerra Mondiale: “Il Levante cittadino nel periodo bellico” è un’interessante mostra storico-fotografica dei siti ed insediamente militari ancora presenti sul territorio. Fino a sabato 21 esposta nell’atrio del Municipio di Nervi (Piazza Duca degli Abruzzi: 9/11.30, domenica esclusa), la mostra sarà spiegata mercoledì 18 alle 15: un bene perché su tali reperti storici non mancano i graffiti di chi non sa.

Ad allestirla, con la convinzione che “la memoria siamo noi”, Antonio Bordo con Livio Spaggiari e Valerio Olcese, soci del Gruppo Storico Nervi “Francesco Fatutta”.

In 18 pannelli con mappe illustrano dove fossero batterie,  caserma aeronautica, luoghi fortificati: da Quarto con Villa Giulia adibita a Bunker per cannone, al Castello ex Ostello, a Villa Carrara sede di due tobruk, a Quinto dove a mare del piazzale del Monumento c’era un’installazione antisbarco. L’affiancava una galleria, ancora visibile, che passava sotto la strada. Il molo di Quinto fu costruito per lo sbarco di due cannoni da 381, poi trasportati via terra e fatti salire a Monte Moro con un sistema di verricelli e rotaie.

Il pannello “Tedeschi a Nervi” descrive l’efficienza del Centro Informazioni Comando Brigata Garibaldi per prevenire “intenzioni criminose”. Nel segno della riconciliazione, la partecipazione di Herbert Bohle ad una Messa a Quinto perché non obbedì il 25 aprile all’ordine di distruggere il Porto.

Tra le cose che colpiscono il “Treno Armato di Nervi” come il proiettile che nell’Operazione Grog s’infilò in San Lorenzo. Il comandante Sir James Sommerville, dopo quel 9 febbraio del ’41 di 72 morti (diventati poi 140) e più di 200 feriti, fu nominato Cavaliere dell’Ordine dell’Impero Britannico. Colpisce l’imponenza di cannoni e proiettili: non si dimentichi che nel ’44 a Bavari 5 ragazzini furono dilaniati da una bomba di mortaio e al Forte di San Martino, il 19 maggio del ’45, accadde ad altri 15 in cerca di balistite.

                     Maria Luisa Bressani

 

Il Levante cittadino di Genova nel periodo bellico: Mostra

I Vinti non dimenticano di Giampaolo Pansa

Con I vinti non dimenticano (2010, Rizzoli, giunto alla sesta edizione) Giampa Pansa ci dà il seguito del Sangue dei vinti, fortunato libro del 2003 che gli diede fama di revisionista della storia oltre che di affermato giornalista. Giampa (Giampaolo), così chiamato in famiglia, è diventato un po’ di famiglia anche per noi: per la verità storica riportata in luce, per la pietas che gli fa scrivere: “Tutti, bianchi e rossi e neri, soffriamo allo stesso modo e spesso senza averlo meritato. Anche l’essere umano più lontano da me appartiene alla mia vita. I suoi morti sono anche i miei morti”. Tante le testimonianze che lo hanno raggiunto dopo l’onor dell’armi che nel 2003 rese agli ammazzati fascisti, i “cattivi”, i “buoni” erano solo della Resistenza.

Molte di esse riguardano la Liguria, pur se il libro include Toscana, Torino, Istria, terrorismo internazionale tra Spagna, Russia (dirigenti comunisti come Togliatti o Longo ivi addestrati), Jugoslavia di Tito (per cui opterà Ukmar-Miro, nato a Prosecco di Trieste che alla liberazione di Genova era capopartigiano numero uno della Sesta zona ligure). Le testimonianze rese a Giampa hanno ampliato la sua antica tesi di laurea in cui sulla Sesta, la zona partigiana più importante che gravitava su Genova, aveva scritto che i partigiani rossi erano 84 su 89. Non solo, scalza la grande bugia di una Resistenza, ancor oggi ricordata  come epopea (e in un clima di simpatia da “vino e tarallucci”) con alcune riflessioni: “Nell’autunno-inverno 1943 il connotato primario della lotta partigiana, il suo Dna, fu il terrorismo, la stessa tecnica delle Brigate rosse negli anni 70/80: seminar panico sparando contro i singoli quasi sempre indifesi”.  Ancora: “Scopo della dirigenza comunista delle Brigate Garibaldi  era conquistare il potere con le armi e fare del nostro paese uno Stato satellite dell’Unione sovietica”. “Come celebrare il 25 aprile?” è titolo significativo di premessa al libro. Giampa scrive: “La cultura dominante continua ad essere quella dei vincitori rossi. Gli sconfitti non devono parlare...”

Questo libro è perciò una lettura comparata con i testi della Resistenza dai primi mesi del ’44 quando al Nord il Pci costituì bande partigiane, profittando della renitenza massiccia delle reclute. La rete delle Brigate comuniste emerge in una costruzione non priva di errori come dimostra il disastro della Benedicta che nell’aprile ’44 segnò la fine della 3a Brigata Garibaldi. Il racconto viene dalla testimonianza a Pansa di una spia fascista, inviata tra i partigiani di quel reparto in vista del grande rastrellamento. Inizia così: “Sono nato nel 1921 da famiglia di origine calabrese; nel ’40 quando l’Italia entrò in guerra ero matricola a Giurisprudenza e non aspettai di essere chiamato alle armi, mi arruolai volontario”. Sul fatto dei tanti che andarono volontari si è sempre sorvolato, quasi una stravaganza o in qualche modo un obbligo, ma allora un’intera classe del Liceo Classico Parini di Milano, tutta compatta, con Caccia Dominioni, con il fratello di Gadda,  andarono volontari. Continua il testimone: “Dopo l’8 settembre invece di sbandarmi raggiunsi Genova ed entrai nella Guardia nazionale repubblicana, il Gnr, e fui mandato come spia sul monte Tobbio, al confine tra Genova e la provincia di Alessandria. Nella 3a Garibaldi Liguria erano inquadrati 573 ragazzi, nel gruppo della Brigata autonoma militare Alessandria 193, in tutto 766 ribelli, molti disarmati perché le armi erano poche. Era un centro di renitenti alla leva. I comunisti di Genova volevano una grossa Brigata delle Garibaldi alle spalle della città per dimostrare che erano gli unici in grado di dar vita alla lotta partigiana. L’imprudenza dei dirigenti fu micidiale. La responsabilità per me fu tutta del Pci di Genova che creò sul Tobbio le condizioni di un massacro. Quando seppi dei tanti ragazzi fucilati o deportati non mi rallegrai. Pensai: se perdiamo questa guerra ce la faranno pagare e il conto sarà molto salato. E’ andata esattamente così”.

Nel libro viene descritto Bogli (di Ottone, oggi in provincia di Piacenza) dove c’era un campo di prigionieri fascisti e “si fucilava quasi tutti i giorni”. Dove c’era l’aguzzino Walter. La testimonianza è del dottor Gianluigi Ragazzoni, catturato a portato a Gorreto dove era il comando della 3 Divisione Garibaldi Cichero, guidata da Aldo Gastaldi (Bisagno). Ricorda le torture di Walter e che nel grande rastrellamento invernale del 20 dicembre ’44, contro le formazioni della 6a Zona Ligure, questi scappò con 40mila lire che il comando della Cichero gli aveva consegnato per le spese del campo. I dirigenti partigiani, entrati in contrasto con i comunisti, Gastaldi-Bisagno e Marco Anselmi (comandante il battaglione Garibaldi Casalini), morirono in incidenti misteriosi. Nel sangue fino alle ginocchia di Fabrizio Bernini narra l’omicidio di Anselmi.

Le storie raccontate sono un grande Muro del Pianto davanti cui riflettere per non dimenticare. Giampa ricorda le rapine in zona di La Spezia, a spese dei contadini perché i “resistenti” dovevano esser nutriti. Risalta anche la crudeltà contro le donne fasciste, specie le ausiliarie, stuprate, quasi sempre uccise e con le case poi saccheggiate. Secondo Luciano Garibaldi (il libro è costruito anche su citazioni da altri libri scelti con cura) furono 88 le ausiliarie Rsi uccise a Genova. Adriana Origone, fu stuprata e torturata, non uccisa. Quando il 23 aprile ’45 ci fu un esodo “biblico”  da Genova, 1500 uomini in gran parte della Brigata nera Parodi, Adriana  che non aveva mai partecipato ad azioni militari non pensò di dover fuggire. Fu stuprata da tre partigiani. Poi le percossero i seni con una canna fasciata con cuoio. Quando nel ‘51 si sposò da mamma non potè allattare causa quelle torture (particolare narrato dalla figlia Alessandra in Mio padre un Repubblichino).

La spiegazione del perché non fu uccisa - come cita Giampa - viene dai genovesi Sergio Pessot e Piero Vassallo con “A destra della città proibita. Quelli che non si arresero”. Le Fiamme Bianche, nucleo di giovanissimi fascisti genovesi, avevano minacciato: “Risponderemo ad ogni vostra azione”. La loro “epopea”, pur se disperata, incuteva timore e rispetto.                            

              Maria Luisa Bressani

 

Mostra Grande Guerra al Falcone di Palazzo Reale

    

Con due Mostre, perché è l'immagine ad incidere di più, pur se qui tradotte in parole, ho  rappresentato il passaggio dalla I Guerra mondiale alla II e la prima è una Mostra importante, la seconda piccolina sul piano locale ma ancora più apprezabile per il cuore e la fatica che vi ha messo chi l'ha allestita. Come ho senpre detto amo più la gente delle Istituzioni, amo più chi sfanga per lasciare qualcosa che gli sta a cuore di chi lo può fare con contributi statali, biglietti pagati, ecc..

Detto questo entriamo nel cuore della II Guerra ma anche delle Guerre, troppe purtroppo e sempre insensate davanti al prezzo del sangue dell'Uomo.

Un Crimine della II Guerra: l'Olocausto

da Il Pianista

del polacco Wladislaw Szpilman

Settimanale cattolico 19 dicembre 2002

"E' raro che un film di successo, tratto da un libro, sia migliore del libro stesso", è l'osservazione spontanea seguita alla magistrale presentazione de Il pianista di Wladislaw Szpilman (edito Baldini & Castoldi). Presentazione tenuta da Lelia Finzi Luzzati all'Adei (Associazione donne Ebree-Italiane, via Frugoni 15/2).

Polanski nel suo film, comunque da vedere, non ha caratterizzato abbastanza il tedesco che salva il musicista ebreo Szpilman, da lui rinvenuto nascosto nelle case bombardate del ghetto di Varsavia.

Wilm Hosenfeld, capitano della Wehrmacht, fino al 12 dicembre quando fu traferito, aiutò Szpilman per un mese a sopravvivere. Gli portò viveri, una coperta e come un San Martino gli diede fin il suo cappotto. Il 16 gennaio seguì la liberazione di Varsavia da parte dei russi e la salvezza del pianista.

Nel libro sono narrate le scelleratezze che nel film si vedono compiute sugli ebrei (il vecchio in carrozzella defenestrato dalle SS, il bambino, che per aver cibo attraversa il muro del ghetto, ucciso mentre ripassa la breccia). Le pagine scritte però, pur mostrando la brutalità della guerra e la prevaricazione di uomni, resi feroci animali dalla divisa (anche ebrei polacchi arrulati ella polizia con le SS), sanno togliere il seme dell'odio.

Le autorità comuniste polacche bloccarono la circolazione del libro, pubblicato nel '46 con il titolo Morte di una città: tanti erano stati i collaborazionisti russi e polacchi che questa tesimonianza infastidiva troppo la nomenclatura dei Paesi conquistati dall'Armata Rossa e stretti nella morsa dei loro liberatori.

Come spiega nella postfazione il poeta Wolf Biermann, nel dopoguerra era impensabile presentare da "buono" un ufficiale tedesco. La ristampa italiana, voluta dal figlio dell'ebreo salvato, è arricchita dal Diario di guerra del tedesco salvatore.

Hosenfeld morto sette anni dopo la fine della guerra in un campo di prigionia di Stalingrado dove fu torturato e ridotto in stato di confusione mentale, oltre a Szpilman salvò altri ebrei e polacchi tra cui tre membri della faiglia Cieciora, dei quali uno prete del movimento clandestino.

Il capitano tedesco, cattolico, scrive in una lettera del 18 genaio 1942: "tanto i giacobini francesi quanto i bolscevichi tagliarono i ponti con il cristianesimo, coinvolgendo i compatrioti ed esportando le idee; allora i nazionalsocialisti facevano lo stesso, distruggendo le chiese cristiane".

Parole profetiche che si raccordano a quelle pronunciate dal cardinal Wyzinsky in partenza per il Concilio Vaticano II (v. Il Nuovo Cittadino, 25 luglio del 1963) nel lamentare la scarsità numerica di diocesi in Polonia e la mancanza di stampa cattolica: "Siamo pronti a qualsiasi sacrificio, ma non daremo la nostra coscienza, la nostra fede, né Croce e Vangelo, perché non sono nostri, sono di Dio e del suo pololo". Parole che anticipano il cambiamento dei Paesi dell'Est con la caduta del Muro e il magistero di Giovanni Paolo II.

Di tre milioni e mezzo di ebrei polacchi al nazismo ne sopravvissero 240mila. A Yad Vashem a Geruslamme,  luogo delle Rimembranze, nel viale dei Giusti per volere degli Szpilman è stato piantato un albero in memoria del tedesco Hosenfeld.

Di questa guerra dimenticata di cui Antonio Sulfaro ha ricordato le durezze ed usi e costumi ben diversi dai nostri in Oriente, ora inserisco questo ricordo pubblicato in "Cose perdute", la bella rubrica di memorie della gente genovese cui Massimiliano Lussana ha dato parola. E' la fatidica piazza dove è stata messa la lapide per Giuliani, il punka bestia che gettò un estintore contro il carbiniere e la cui madre subito dopo è entrata in parlamento (che vergogna!): per nostra fortuna di ciò si sta perdendo memoria ed era quello che auspicava il cardinal Bertone con l'incitamento come mi dissero alla redazione del Settimanale diocesano: "non parlatene e la gente presto dimentica".

E allo stesso modo, in nome di una stampa "libera" non si doveva parlare di Quattrocchi, ecc., ma un giornalismo fatto così non serve la verità solo la prudenza.

Porto di Genova: La Compagnia dei "camalli" discendente dall'antica Corporazione bergamasca  dei Caravana

Cantavamo Dio è morto. Il '68 dei cattolici

di Roberto Beretta

A quarant’anni dal ’68, nel dibattito, interviene autorevole il libro Cantavamo Dio è morto. Il ’68 dei cattolici di Roberto Beretta, giornalista di storia e cultura per il quotidiano <<Avvenire>>. Parte da un presupposto: “E’ giusto accollare al Sessantotto tutte le colpe possibili (inadeguatezza della scuola, sfascio della famiglia, corruzione della politica, liberismo senza regole dell’economia globalizzata, crisi della Chiesa)? Vanno ricuperati alcuni ideali che stavano alle origini di quella ribellione?” Si era assunto l’impegno di “difendere il Sessantotto” se avesse notato che ne fossero disconosciuti gli spunti positivi, quando ne aveva scritto per l’anniversario dei 30 anni e uno degli intervenuti alla presentazione aveva osservato che “le radici non erano state tutte marce”.

In questa nuova indagine riporta anche molti pareri autorevoli, anche divergenti, sul ’68: di Piero Gheddo, Mario Giordano, Franco Cardini, Paolo Sorbi, ecc. Conclude come per un “sogno” non realizzato: “Oggi la cosa peggiore sarebbe l’approdo alla rassegnazione, a pensare che il mondo non si possa cambiare”.

Da buon cronista, di allora ripercorre molti fatti clamorosi: le quattro occupazioni dell’Università Cattolica di Milano, la manifestazione in Piazza San Pietro, il contro-quaresimale a Trento, la contestazione all’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI”, la predicazione della teologia della rivoluzione.

Di allora denuncia: “Nelle assemblee sessantottesche i compagni si accorsero con meraviglia che accanto a loro si trovavano i cattolici: tutt’altro che spoliticizzati, spesso li scavalcavano a sinistra”.

Dal libro escono particolari sconcertanti: Massimo D’Alema ai cortei tirava le molotov, Curcio, figlio di una ragazza-madre valdese, era assiduo alle lezioni del giovanissimo assistente universitario Romano Prodi,  sotto le tende piantate  di fronte alla Cattolica per uno sciopero della fame (26 marzo 1968) c’era Bruno Manghi, oggi direttore del Centro studi nazionale della Cisl e già consigliere di Prodi nell’ultimo mandato. C’è tutta una sfilza di nomi di gente, ora ben inserita nella società, che al ’68 partecipò in modo attivo.

Interessante è l’analisi sul collegamento tra il ’68 e la nascita del terrorismo, della violenza urbana, delle Brigate Rosse. Si coglie il senso alto di anime belle, come il rettore della Cattolica Ezio Franceschini, partigiano, terziario francescano, cattolico tutto d’un pezzo, che quando Mario Capanna viene espulso dall’Università giunge a dargli una busta con dei soldi per aiutarlo. Una candida fiducia in quello che era stato un bravo studente, accolto perché orfano con borsa di studio nel pensionato Augustinianum, “quello dei cattolici migliori e dove alloggiavano tutti i leader della rivolta”.

Già alcuni titoli dei capitoli danno un’idea di ciò che il lettore troverà: “Il Sessantotto fu spontaneo?” (nel capitolo si descrive come fu imitazione di ciò che accadde all’estero), “Il Sessantotto fu <<non violento>>? Curcio, Mara Cagol e altre strumentalizzazioni” (cattolica la Cagol, scout e aderente a Mani Tese, che morì da terrorista delle Brigate Rosse in uno scontro a fuoco con la polizia); “Il Sessantotto fu figlio del Concilio?”, “Profeti col mitra (da padre Camillo Torres a Lotta Continua)”, “I guai dei <<fratelli minori>>: sessantottini in carriera, <<pentiti>>, traditi”.

Manca in questo libro, che si limita al Sessantotto nostrano, il guardare complessivamente all’esplosione di quel ribellismo nel mondo occidentale e potrebbe diventare argomento di un terzo libro. Il ’68 mondiale fu diverso là dove c’era vera oppressione: si distinsero dagli altri dei Paesi dove c’era autorità sì, ma anche libertà e democrazia,  il Sessantotto Polacco, esploso a marzo, e a maggio quello Cecoslovacco.

A Praga il 16 gennaio ’69 lo studente Jan Palach scelse di farsi fiaccola vivente della processione degli oppressi al cospetto di Dio e della verità. Il saluto di Praga a Jan fu “la verità vince”, motto nazionale gridato per le strade.

                       Maria Luisa Bressani

 

XXVIII Cammeo: - Da Lettere d'amore e di guerra (Lint 2003)

di Edgardo Bressani: Bombardamento di Kairouan,

di Ida Ragaglia Bressani "Rastrellamento nazimongolo in Valtrebbia"

            

L'ultimo inverno

di Edoardo Gugelielmino e Ottavio Giorgio Ugolotti

Edoardo Gugliemino ha presentato al Lyceum il libro delle Lettere dei miei genitori insieme a Bianca Montale e al marchese Bernardo Pianetti Della Stufa.

Guglielmino accompagnava una zia al Lyceum fin da bambino.

Al Liceo D'Oria nel mio unico anno d'insegnamento ho avuto come allievo suo figlio Andrea, sensibile,  bravo e preparato. Un volta mi disse che avevo fatto bene a dar loro un tema sull'infanzia handicappata, megli0 di quando mi affannavo a spiegar loro Jauffré Rudel e l'amore di terra lontana per la sua Melisenda di Tripoli che d'altra parte è in programma in una prima liceo del classico per introdurre gli Stilnovisti. Mi elogiò (e gli apprezzamenti degli allievi o ex allievi come dei lettori sono i più importanti) anche per aver ben scritto una recensione su un libro di Mario Paternostro quando al Lyceum questi  ricordò suo padre.

Talvolta rivedo Andrea alla Libreria del Porto Antico che gestisce con molta intelligenza e organizzando presentazioni sempre interessanti. Lo ricordo con vero affetto come uno dei miei allievi più cari ed intelligenti della classe I "H" e poi avevo in quell'anno in contemporanea la I "I" tutta femminile cui apparteneva Fulvia Bardelli. Il suo  ricordo è nella pagina" In Memoria" avendone potuto scrivere sul Giornale in quanto personaggio pubblico come responsabile dell'Ufficio stampa del  "colto" Teatro dell'Archivolto.

Garibaldi pensava in grande

Nato a Nizza, introdotto alla Giovine Italia da un ligure, la sua impresa più grande avviene con partenza da Genova alla scoglio di Quarto, ora detto dei Mille

Mostra su Mathausen e Gusen

di Marzia Ratti e Luig Piarulli

Il Cittadino 21 gennaio 2007

Paolo Granzotto "Amor sensuale, ma quant'era cortese"

Il Giornale 26 marzo 1981.

Omaggio al mio alunno al D'Oria Andrea Guglielmino

cui non riuscii a far apprezzare Jauffré Rudel

Arrigo Petacco Quelli che dissero no

Il Giornale 27 novembre 2011

(dopo l'8 settembre molti gli imboscati, ma molti dissero "no")

 

Giampaolo Pansa I vinti non dimenticano

(mia recensione inedita, ma contenta d'averla scritta, 2010) 

Prigionia in India di Antonio Mor di Gianfranco Scognamiglio

Libertà 22 maggio 2007

Di Piero Gheddo Il Testamento del capitano 

Settimanale cattolico 29 dicembre 2002

Va da sé che avendo organizzato io il ricordo di tre epistolari di guerra alla Biblioteca Universitaria il 23 aprile 2007: appunto di questo libro e da me presentato (il padre di Gheddo rimase disperso in Russia nel 1942), di Immagini d'esilio di Mor (prigioni in India) presentato da Laura Dedone Bisio e delle Lettere dei miei genitori (prigionia in Algeria a Saida di mio padre) di cui il prof. Giuseppe Benelli parlò in modo sublime e senza ripetersi rispetto a quando disse in una precedente presentazione alla Wolfosniana di Nervi (ma purtroppo questa volta il registratore dell'Università risultò non funzionante), sul libro di Gheddo potrei inserire ben altre notizie ed uno scandaglio più profondo rispetto a quanto qui riportato brevemente: ma lo scopo di queste pagine è che abbiano un filo logico e pur essendo amarcord del mio giornalismo non è in nessun modo un compiacimento tardivo e narcisistico per cose scritte o dette da me.

Per tal motivo, perché chi legge possa toccare con mano l'emozione profonda di chi ha scritto inserisco poi due stralci dal testamento del Capitano: una lettera dalla Russia nell'estate 1942 e il dammatico racconto di un episodio di telapatia?

Non ho mai visto tanta miseria: Dal fronte russo, luglio del ’42. “Carissimi, siamo arrivati ieri mattina alle ore 3, dopo una marcia di 2 ore. Ci troviamo accampati nei pressi di Stalino, in una foresta. Domani riprenderemo la marcia e a tappe raggiungeremo il nostro posto di combattimento. Il viaggio è stato dilettevole e non disagiato. Ho visto tanti posti e paesaggi e purtroppo tanta miseria che in Italia non avevo mai visto e non vedrò mai. Per es., in Russia da Minsk fino a Kharkow il 99% delle case sono casupole costruite in legno e con il tetto di paglia. Idem in Polonia. In Germania invece non ho visto una casa in cattive condizioni; parlo dell’intonaco che si poteva vedere e che faceva sembrare che le costruzioni fossero tutte nuove.Qui è un paese in cui manca letteralmente tutto. Nelle stazioni c’è sempre una moltitudine di gente che chiede in elemosina pane o galletta. Chiedono pure sigarette, ma quelli fanno meno compassione. Sono tutti affamati. Moltissimi bambini hanno l’aspetto di rachitici e lo sono realmente”.Giovanni ritorna sull’argomento qualche tempo dopo: “nel paese dove siamo ora ogni casa ha una sola entrata: entra la mucca e gira a sinistra, entrano le persone e girano a destra. Miseria nera”. 

Da Parma Voladora di Giorgio Torelli:

“Dicembre 1942 Piero, giovane seminarista di 13 anni, è tornato a casa in vacanza da Moncrivello a Tronzano di Vercelli. Ed entra nello studio casalingo di papà.Piace tanto a Piero appartarsi nel luogo dove il papà ha lavorato. Gli pare d’essergli ancora vicino e sempre più fedele. Va a cercare, tra i libri, i titoli di Verne, di Salgari, di Stevenson. Poi, si annida in un canto e legge con avidità. Fuori è tutto nebbia e gelo, neanche un suono.  Le parole scivolano.C’è da rabbrividire quando di colpo una voce d’uomo, forte, vera, di timbro pieno e deciso chiama: " Piero, Piero..." E’ la voce indubitabile del papà, del capitano di Russia, del soldato della steppa. Ed è assolutamente la sua, non c’è dubbio, non c’è esitazione né indugio. Il bambino si trova in piedi, il libro gli rotola, il volto sbianca

Il Piero dai calzoni corti diventerà cronista delle frontiere missionarie nel mondo, quaranta libri stampati, guerre, rivoluzioni, radio, televisione, rimanendo sempre Piero, mite e gentile. Mi dirà nel 1993: "Ah sì che era papà e che chiamava dalla Russia. Era il momento stesso in cui spirava, forse ai bordi di una pista di ghiaccio, già prigioniero o ancora in ritirata, abbandonato o insieme ai suoi soldati, colpito da un cecchino suo o assiderato. Non lo so, non lo sapremo mai. Eppure com'era chiaro il suo richiamo in tutto quel bianco. Era la sua voce che tornava a casa per noi"

 

Lettera del padre Giovanni, luglio 1942 in Russia:

"Non ho mai visto tanta miseria"

e da Parma Voladora di Giorgio Torelli come il missionario capì che il padre stava morendo 

Edoardo Guglielmino padre del mio allievo Andrea al Liceo D'Oria, nel mio unico anno d'insegnamento 1972/73

 

      
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