9. INDICE TERRE: SICILIA, LIGURIA
SICILIA
Giacomo Pilati - Sulla punta del Mare - 2012
Rita Parodi Pizzorno - Memorie Fluttuanti - Ritratti del Novecento (dall'Italia a New York) - Il Giornale 1 luglio 2012
Foto Famiglia Marin Gjaja Natale 2012
XVII Cammeo: I Gjaja Una bella famiglia dalla Iugoslavia all'America
Foto Marin e del fratelllo Vojin bambini luglio 1971
Lettera del 18 dicembre 1998 da un amico iugoslavo: "Il vivere civile"
Maria Adele Anselmo -La figura della Dea Madre nelle pagine di Evy Johanne Haland 2012
Tommaso Romano - Dal Regno delle Due Sicilie al declino del Sud 2011
Beppe Accarpio - Siciliani brava gente e Genovesi d'adozione- Il Giornale 17 febbraio 2012
LIGURIA
XVIII Cammeo. Da giornalista due cose che non vanno: una grande, una piccola.
1) Il Terzo Valico si farà mai?
2) Ha chiuso la Marinella di Nervi
Franco Manzitti - Terzo Valico - Il Giornale 24settembre 2011
Chiude la Marinella di Nervi Il Giornale 15 gennaio 2013
Amanzio Bormioli - Amare in Libano (Il cuore ad Altare) - 2010
Maria Antonietta Novara Biagini - L'Albero secco (Monterosso)- Il Giornale 9 dicembre 201o
Fabrizio Càlzia - 101 Cose da fare i Liguria almeno una volta nella vita - Il Giornale 4 dicembre 2010
Remo Guerrini - Bleu de Genes. Piccola storia universale dei jeans - Il Giornale 30 agosto 2009
Lelia Finzi Luzzati ricorda la storia dei 150 della Levis & Strauss company Il Settimanale cattolico 2 giugno 1998
Mario Paternostro e Genova al microscopio - Il Giornale 16 gennaio 2010
Michele Cozza - Dialoghi su Etica e Valori - Il Giornale 17 febbraio 2012
Bruno Musso - IL BRUCO Be - Level Rail Underpass for Containers Operations - Il Giornale 13 febbraio 2010
Sulla Punta del Mare di Giacomo Pilati
Sulla punta del mare di Giacomo Pilati racconta dei primi anni sessanta, quando la madre di George, di origini siciliane ma da tempo con la famiglia a New York, viene a sapere dal figlio che vuol sposare Laura, una lontana cugina di Trapani. Ripensa alla città, definita da un poetico detto “in punta di Sicilia, protesa sul mare”, e lo ammonisce: “I siciliani, ma l’hai visto come vivono? Con le finestre chiuse e gli occhi piantati fra le fessure a spiare come fanno gli altri”.
Lui, con una laurea prestigiosa e che vuole imporsi come poeta, dopo sposato per accontentare Laura decide di tornare ad insegnare a Trapani. Si dimette poi da presidente della Commissione di esami di specializzazione, cui è stato nominato per facilitare promozioni di chi verrà inserito in posti pubblici, in comune o altrove. Esplode così: “No, s’interroga come dico io. Un ignorante è un delitto che cammina. Il contrario del futuro. Voi con la vostra scuola piena di asini, e lo strano sono io...La sacra famiglia ve la mettono in testa appena nascete. La famiglia è un covo di vipere, di complicità, di silenzio, di obblighi istituzionali, di favori e di omicidi. In America c’insegnano altri valori. Che se uno è bravo ce la fa, anche se non appartiene a nessuna famiglia”.
Dunque due mondi a confronto: la Sicilia, arretrata nei costumi, l’America infiammata da libertà e democrazia, realizzate in modo superiore allo standard mondiale, un’America percorsa dalla poesia della Beat generation, che vuol cambiare un mondo stantìo.
George, il “poeta”, in Sicilia avverte lo “schifo per il talento, pericoloso perché assomiglia alla libertà”. Ma Laura lo ama anche per il poeta che è in lui e quando, all’ufficio immigrazione ad Ellis Island, l’hanno interrogata, catalogandola da “fascista per aver frequentato scuole fasciste”, risponde di esser nata in un Paese sotto dittatura, che è “il pensiero uguale per tutti”, ma di essere repubblicana e d’aver sposato George perché crede nella libertà e nella poesia”. “Cosa c’entra la poesia?”, si stupisce il funzionario. E lei: “La poesia trasforma i sentimenti in parole, senza paura di nessuno”. Laura per non soffocare il poeta darà a George libertà di tornare in America e lo aspetterà con il loro piccolo Robert, pur piombando in una depressione maniacale.
Un giorno domanda ad un prete: “Mi sa dire dove posso trovare Dio?” E’ in una stanza con lumini accesi ed ex voto, che il prete le ha indicato. Vorrebbe rivedere un attimo solo George. Non si capacita di come, dopo la crocifissione, Maria abbia riavuto il Cristo vivo. “Siamo simili, siamo donne con la sofferenza in fondo agli occhi, amiamo il nostro uomo come nessun altro, pure io voglio il tuo miracolo”, le dice e poi, inascoltata, la brucia.
Mi sembra perciò riduttiva la definizione di Laura “donna innamorata, devota e rassegnata” della Nota Stampa di Mursia, editrice di questo bel libro di Giacomo Pilati. Laura, donna orgogliosa, prima ha deciso che George se ne vada, poi è lei a decidere il ritrovarsi.
Pilati, giornalista siciliano, ha vinto due volte il premio nazionale di giornalismo “Giuseppe Fava” e, oltre ad opere imperniate sulla Sicilia (inclusa la squisita arte culinaria: La cucina trapanese e delle isole), con Mursia ha pubblicato Minchia di re, da cui il film di successo “Viola di mare” di Donatella Maiorca.
La storia d’amore dei protagonisti – come spiega Pilati- s’ispira a quella vera di Nat Scammacca, uno dei maggiori poeti siculo-americani del ‘900, con Nina, moglie sicula. Nat fondò il movimento culturale “L’antigruppo”, dai primi anni Sessanta attivo per un trentennio su “pace, emigrazione, lavoro, atomica, fame nel mondo, dissenso”.
Temi che ricorrono nel libro, specie quello politico, come nel dialogo tra George e un assessore sul “teatrino dei pupi che è la vita pubblica siciliana”. Assessore: “Voi in America lo chiamate business”. George: “No, per noi il business sono gli affari”. Ancora l’assessore: “E da noi sono le amicizie”.
Il libro ha un punto di forza nel linguaggio, immaginifico ma giornalistico, moderno con frasi brevi, affilate come punte di coltello.
Per concludere sulla “Poesia” che resta tema portante, una riflessione di George sugli scrittori da lui preferiti: in America, Ginsberg, Corso, Ferlinghetti, Kerouac, Bukowski; in Italia, Pirandello, Verga, Pavese, Montale. La diversità antropologica? Gli americani fanno sesso con le parole, gli italiani ci mettono il cuore.
Per George prevale il richiamo di cuore e radici: i greci, i normanni, Pirandello, Ulisse. Torna in Sicilia “come un geco, prima nascosto per paura, poi sospinto dal vento di tramontana”. Il richiamo è allo spendido incipit del libro con la descrizione di questi piccoli rettili diffusi in Sicilia che “immobili attaccati al muro, proteggono la famiglia, respingono la sventura”. Maria Luisa Bressani
Memorie Fluttuanti - Ritratti del Novecento di Rita Parodi Pizzorno
A questo testo di denuncia del giornalista Pilati, così importante perché alla Trapani di cui parla, al Porto qualche mese fa furono apposti i sigilli per mafia, faccio seguire un testo su New York e la speranza di una democrazia diversa che la fece amare da tanti italiani nel dopoguerra.
E’ il raggio di sole che al solstizio penetra nella tomba di New Grange in Irlanda, costruita tra Neolitico ed Età del Bronzo: così è l’“Introduzione” di Clara Rubbi a Memorie Fluttuanti – Ritratti del Novecento di Rita Parodi Pizzorno (“Tascabili” dei Fratelli Frilli). Scrive la presidente del Lyceum genovese: “Le memorie fluttuano in un andirivieni tra presente e passato come le onde del mare, il grande protagonista della narrazione”. Si sofferma -ad esemplificare- sul racconto che è cuore del libro, “Un incontro nel tempo passato”, storia di un marinaio della prima Guerra Mondiale, morto nel 1919 a 23 anni. E illumina come un raggio di luce un tema profondo dell’autrice: la possibilità di un contatto con l’Oltre, dove la voce di noi vivi raggiunge chi non è più. Così torna la vita, sconfigge il dolore come non ci fosse frattura tra presente e passato.
I racconti si svolgono tutti in viaggi per mare, viaggi di emigranti o di chi nel dopoguerra andò in America perché sembrava una Terra promessa, ma sono anche viaggi di ritorno alle nostre radici. Vi risalta la volontà, tutta italiana, di far bene: è il senso del ritorno in Italia di Piero nel 1963 con la Leonardo da Vinci, partendo da Manhattan. Nel 1953 era partito da Genova con il Vulcania, adolescente e profugo da Zara dove i suoi genitori pugliesi avevano avviato una grossa industria del pane. Ricorda: “Il nostro pane era il migliore, nel 1937 a Parigi aveva vinto il I Premio”.
Piero torna da cittadino americano. A seguito del servizio militare ha avuto la cittadinanza per cui ha poi potuto iscriversi ad ingegneria meccanica. Durante l’addestramento militare, dove ha anche ottenuto una medaglia da “specialista del tiro”, i suoi compagni venivano da ogni stato dell’Unione, ognuno aveva un proprio accento, quindi era più difficile la comprensione ma erano uniti, affratellati proprio da quella disciplina. Ora, ritornando, il suo cuore vive il tumulto dei ricordi, diviso tra Zara di case bianche, di antiche chiese, e New York con il Central Park, i grattacieli, la Statua della Libertà che gli dà l’emozione di quando la vide la prima volta: “una seconda patria”.
La Statua campeggia anche nel racconto di una famiglia emigrata a fine Ottocento in Tennessee dal Nord Italia. Con la sua torcia accesa in mano era faro per i naviganti, era proprio “la Terra promessa”, in quanto “lavoro e libertà”. In Tennessee c’erano gli indiani che il nonno racconta così ai nipotini: “Le necessità sono uguali per tutti e gli emigrati nel momento del bisogno aiutavano le tribù indiane”.
Delicato, intenso, nobile questo libro di un’autrice che esordì nel ’93 con Prime Poesie (onorate dalla prefazione di Luigi Surdich), continuando con testi uno diverso dall’altro, quindi più avvincenti: Viaggio a Praga, Cronache dell’assurdo, Il teatro delle ombre... Tutti con un comune denominatore: fiducia nel lavoro, nella fatica, in rapporti umani che l’amicizia rende fraterni; fiducia in noi italiani come pure in quel nuovo mondo che tanti accolse. Uno spaccato forse perduto; poi tanto antiamericanismo, bandiere bruciate, sussiego di critica senza ricordi, voglia di non faticare ma di pretendere diritti, a noi riproposti da oltre-oceano.
Maria Luisa Bressani
La figura della Dea Madre nelle pagine di Evy Johanne Haland di Maria Adele Anselmo
La figura della Dea Madre nelle pagine di Evy Johanne Håland, edito dalla Fondazione Thule Cultura di Palermo, un saggio della palermitana Maria Adele Anselmo, è un gran testo per approfondire nostre origini mediterranee, connesse all’Europa intera, ad Anatolia e vicino Oriente. Anche per spaziare nel mondo (Aborigeni, Amazzonia, Giappone, Nord Africa) con somiglianze di riti arcaici, del culto e d’avvicendarsi delle stagioni della natura. Come affermava il rumeno Mircea Eliade, storico delle religioni, al fondo di queste operano gli stessi “archetipi”, immagini e simboli, che esprimono la condizione umana come tale in ogni tempo. Se Eliade è prima sorgente per il saggio, in quanto imprescindibile per gli studiosi odierni, l’Anselmo si appoggia anche alle opere della lituana Marija Gimbutas, a quelle di Ignazio E. Buttitta che ha scandagliato feste agrarie e calendario rituale di Meridione e Sicilia. E soprattutto alla norvegese Evy Johanne Håland, che intervistò nel 2010 ad Atene. La studiosa di Bergen, dove isegnò materie umanistiche all’Università, studiò anche a Parigi alla Sorbona, in Italia compì ricerche sulle festività religiose per conto dell’Istituto Norvegese di Roma con borsa di studio assegnata dallo Stato italiano. Anche “recensore di libri” per il giornale scientifico “Culture and Religion”, di Routledge nel Regno Unito, ha perseguito la “ricerca sul campo”. Con una macchina fotografica e penna per scrivere. Lo stesso metodo della polacca Monika Bulaj, conosciuta dai genovesi in una recente Mostra fotografica al Ducale: in cerca dal Nord all’Est d’Europa delle antiche comunità yiddish e non solo, del loro sentimento del Sacro più avvertibile nella zona del Caucaso. Inciampando su queste montagne Dio, alla Creazione, nel distribuire le lingue, ve ne riversò 300.
Nella nostra aera mediterranea la Religione ha avuto come centro la Dea Madre, capace di generare la vita da sé e con il controllo di vita e morte: madre buona e madre terribile (se rifiuta di nutrirci). Il Dio maschio nasce dopo, imposto dalle tre Religioni monoteiste, presentandosi con le qualità femminili di generare e proteggere la vita dei figli. Il Dio rappresenta una concezione lineare del tempo, inizio/fine, non il “tempo ciclico”, soggetto al dinamismo delle stagioni e raccolta dei semi germogliati, di morte/rinascita.
Non solo, con il monoteista cristianesimo Maria Vergine s’innesta sulle tradizioni della Dea Madre (in Grecia la dea del grano Demetra e Kore, a Roma Proserpina e Cerere). Perde l’aspetto terribile, diventa salvatrice, corredentrice come mette in risalto Silvano Panunzio, in un saggio sempre edito da Thule (1994), ricordato nella sapiente prefazione di Tommaso Romano.
Håland, a sua volta, ha indagato ciò che sopravvive dell’antica ritualità con particolare amore per la Grecia. Affascina il suo ripercorre le feste della Panagia (Maria Vergine). Specie il 25 marzo, l’Annunciazione, anche Festa dell’Indipendenza perché quel giorno, nel 1821, la Grecia si liberò dal “giogo turco”. Il chiamare a protezione Maria ci ricorda che la Repubblica di Genova volle lei come sovrana. Hålanhd ci racconta dell’icona sacra della Vergine, che si crede dipinta dall’evangelista Luca, conservata nell’isola di Tinos. Qui, si recano in pellegrinaggio le coppie sensa figli o le madri con bimbi malati al collo vanno sulle ginocchia (come nell’esplanade di Fatima) per invocare la grazia. La studiosa definisce Tinos “centro della sofferenza e di speranza di tutta la Grecia”. E’ da sperare che il prossimo anno, o poco dopo, quel Paese, che ha dato civiltà al mondo occidentale, si possa liberare degli attuali balzelli.
Hålanhd crede nell’importanza della figura femminile fin dall’antichità e definisce “cosiddetta” la società patriarcale mediteranea patriarcale, portando a testimonianza che fin la scelta della sposa per il figlio maschio, affidata nella tradizione greca al padre, in realtà era fatta dalla madre. Una suocera, da lei ascoltata, ha detto ancora della nuora: “ẽ niphẽ mou”, (la mia sposa).
Del saggio mi hanno affascinato gli studi della lituana Marija Gimbutas, sulle comunità galaniche d’Europa (8000/2500 a.C.): pacifiche, con uguaglianza dei sessi, assenza di sistemi gerarchici, poi sconvolte dalle ondate migratorie dei Kurgans, protoindoeuropei dal Sud della Russia, che importarono violenza, patriarcato, classismo. E poiché Marija è inventrice dell’Archeomitologia, mi ha fatto sorridere, ripensando al detto “E’ nato prima l’uovo o la gallina?” che ritenevo senza risposta, il suo accenno al mito dell’“uovo cosmico” portato dal mare cosmico da un uccello marino. Per questo mito universale fu un uovo (ovulo) origine del mondo.
Maria Luisa Bressani
Siciliani brava gente e Genovesi d'adozione
di Beppe Accarpio
Beppe Accarpio, Primario di Chirurgia a La Spezia e Genova, classe 1938, nato a Bengasi in Libia, originario di Noto (Siracusa), ha pubblicato due romanzi-verità: Siciliani brava gente e Genovesi d’adozione (Nuova Editrice Genovese).
In Genovesi d’adozione l’inizio è con due bambini, Corrado e Salvatore, che a luglio ’43 giocano in strada a Noto, mentre i padri erano su fronti di guerra diversi e nel golfo siciliano erano appena sbarcati gli americani.
Inizia anche con la storia d’amore tra Carmela, una sedicenne del luogo, il cui padre Sebastiano era infermiere sul fronte russo, e un soldato americano Johnny Gamboni di New York. Quando il reparto dell’americano si sposta lui vorrebbe sposare la ragazza ma non hanno i documenti per tempo e ne sottoscrivono uno alla presenza del parroco. Tre mesi dopo lui muore, lei è incinta. Lui è stato uno dei “60mila anglo-americani che persero la vita da noi per liberare l’Italia dal fascismo, l’Europa dalle dittature e l’Italia stessa dall’asservimento a Stalin e al comunismo”, parole dal libro.
Viene anche ricordato il detto scritto nella galleria di Piazza Palermo a Genova dopo la liberazione dai nazisti: “Gli Hockey se ne vanno, le oche resteranno, gli ochini nasceranno e gli oconi le sposeranno”. Era da noi una società chiusa e a Noto, dove origina la storia, il clero locale si disinteressava della diffusa pratica del concubinato e dei figli, dati al brefotrofio, che portando un diverso cognome, poi sposavano chi era dello stesso padre e nascevano neonati, spesso affetti da malattie genetiche.
La storia si sposta sul fronte russo dove Sebastiano, padre di Carmela, è con un compaesano di Noto, Carmelo, proveniente da Sampierdarena, addetto all’infermeria con il suo capitano. Questi, il dottor Sacco, scrisse il libro E’ niente se si torna. Della Russia vengono ricordate le 55 tradotte per alpini che vi andarono, mentre solo 4 tornarono.
A fine guerra la storia si dipana tra Noto, dove rientra dal campo di prigionia in Algeria Pietro padre di Corrado, e Genova dove Corrado (il bimbo che nel ‘43 giocava in strada) verrà iscritto a medicina e dove nel ’46 rientra Carmelo riprendendo il lavoro d’infermiere. La storia diventa un intrecciarsi di vite di emigranti “notinesi” nella Genova dove devono trovar lavoro, studiare, integrarsi.
La prima sorpresa arriva nel viaggio in treno di Corrado per Genova (30 ore) dove incontra una studentessa di Coimbra che gli racconta di Cristóbal Colón, il vero Cristoforo Colombo, un ebreo, esperto navigatore, nato a Cuba in Portogallo. E’ stato lui lo scopritore del Nuovo Mondo e a lui il re di Spagna affidò le tre caravelle, ma dovette sottoscrivere conversione al cattolicesimo. Esisteva presso il Comune di Genova un documento, il Codice 632, certificato di nascita di Colón, dove Cuba (vicino a Lisbona) figurava per sua città natale, ma fu fatto scomparire da un’associazione che teneva i rapporti tra Italia e America. Tutto ciò fu reso possibile dalla convenienza legata al potere temporale dei Papi: il 25 luglio 1492 muore Innocenzo VIII, sulla cui tomba un’epigrafe ricorda la scoperta del Nuovo Mondo, e gli succede Alessandro VI Borgia (padre di Cesare, il Valentino, e di Lucrezia). Ne scrisse Giambattista Spotorno: Origini e Patria del Colombo.
Nel libro di Beppe Accarpio l’amore per la parola scritta (nel precedente volume legata all’informazione dei giornali anglo-americani durante il fascismo quando tale lettura, come ascoltare Radio Londra, poteva costare sei mesi di carcere) diventa un più vasto interesse, legato a testi particolari. Una storia del libro racconta di un notinese che a Bargagli viene a scoprire qualcosa di attinente la “banda dei vitelli”, il tesoro dei tedeschi trafugato, il “mostro di Bargagli” (v. il libro con questo nome di Giorgio De Rienzo).
Un’altra storia, nel capitolo “Amore e morte nei vicoli”, stigmatizza un giornalista che “sporca in morte” la figura di un notinese, ucciso dal patrigno della ragazza con cui conviveva in vista del matrimonio. Il patrigno aveva abusato della giovane che con la convivenza gli si era sottratta, ma il giornalista scrive solo di “terroni, teste calde”, ecc.
In questo libro l’amore per Genova, di cui gli emigranti da Noto diventano “figli d’adozione”. E’ un tuffo nella storia con una sintesi originale del passato che ce lo fa scoprire con occhi nuovi: sia che scandagli le origini di Genova sia il fasto delle tombe a Staglieno. Qualche dubbio invece per i giudizi sulle figure carismatiche dei cardinali Siri e Schuster. E’ vero che molto non ci è stato raccontato, ma la storia si basa su documenti e testimonianze del tempo, verificate e d’encomio a questi cardinali. Il racconto dell’aiuto dato agli “assassini tedeschi” a scappare in Sudamerica (in bibliografia è citato La fuga dei nazisti di Andrea Casazza per Il Melangolo) si colora di fantapolitica.
Ciascuno si addentri da sé in queste vicende ricche d’umanità. A me piace ricordare – perché mi ha affascinato - anche Siciliani brava gente, scritto tre anni prima e che ebbe “Speciale Menzione” all’elitario Premio Erice Anteka. Racconta la storia di Viscienzu (1883/1951), figlio di mugnaio, orfano a 15 anni, che educa da padre il nipote Corrado (lo stesso nome di un figlio mortogli di spagnola) fino agli otto anni quando il genero “Ciccio” torna dal campo di prigionia in Algeria. Era andato in Libia a capo di un’officina militare, poi la moglie era rientrata a Noto, mentre lui non volendo disertare era stato preso prigioniero.
Il libro nasce perché nonno Vince diceva a Corrado: “e tu scrivi quello che ti ho raccontato...abbiamo la nostra dignità... ho il desiderio che possiate vivere facendo sempre del bene... nella nostra terra in passato civiltà rispettabili e nobili...”
Due episodi per presentare Vince. A New York dove emigra nel 1908 rifiuta di testimoniare a favore di un boss siciliano (suo datore di lavoro) e, per salvare la pelle, ritorna in Italia quando l’Ispettore Callagan per il coraggio lo vorrebbe nella Polizia.
A fine Prima guerra mondiale è reduce, con un arto congelato e una medaglia al valore, ma gli è stato pagato il biglietto per il rientro dal fronte veneto solo fino a Genova. Senza soldi chiede il “foglio di via” per tornare a Noto, i poliziotti nicchiano e lui getta sui binari alla stazione Principe panche e di tutto. E’ presente un giornalista. Per timore di ciò che potrebbe scrivere lo accontentano e lui torna nella sua Noto “bianca di tufo, che al tramonto sembra un giardino di pietra color oro”.
Maria Luisa Bressani
Amare in Libano (Il cuore ad Altare)
di Amanzio Bormioli
Colori accesi del Medioriente, nostalgia per la patria ligure dei Maestri vetrai nelle quattordici poesie di Amare in Libano (Il cuore ad Altare) di Amanzio Bormioli (L.Editrice Cairo Montenotte - Savona). Nell’introduzione Rossana Negri, moglie dell’autore, scrive di aver letto a volte giudizi severi: “Chiamano poesia ciò che invece è prosa”, ma ha voluto pubblicarle in ricordo del marito che non è più.
Fortuna e gioia per chi legge. Risplendono della forza dei colori di un uomo che ha sempre dipinto molto, ad acquarello, a china, a sanguigna, come è nella tradizione dei Maestri Vetrai d’Altare. Nel 2004 a Liguria Spazio Aperto nella Mostra a loro dedicata, furoreggiava in rosso un portaombrelli del novantenne Dorino Bormioli a ricordo di un’opera analoga con cui nel 1939 aveva vinto il I Premio all’Esposizione Universale di Parigi. Splendevano opere di Cimbro e Costantino di questa “dinastia” di Maestri liguri. Nelle poesie di Amanzio incontriamo versi coloratissimi per il paesaggio del Libano: “Sole. Sassi arroventati./Terra rossa/solcata da ferite d’ombra”, altrove un “cielo d’azzurro fuso” o il “verde afoso” dove i colori descrivono trasparenza dell’aria, fin l’umidità. Sguardi penentranti d’artista portano in luce l’indole degli abitanti di questa terra dove era stato chiamato a lavorare da Diego Mirenghi che aveva cinque Vetrerie tra Africa e Libano, al servizio di una compagnia indiana. Come spiega la moglie venivano allora dall’incertezza di due anni alla Ferrania in crisi, con uno stipendio appena sufficiente al vivere. In Libano c’è Abu Razi “docile ma non schiavo/ orgoglioso nell’obbedienza”, c’è un’immagine di donna dallo “sguardo sfrontato” tra le pieghe del kefia, come appaiono sfrontati i Fedayn. “Fieri e cenciosi/ trastullo/ di un tragico gioco che v’uccide”. Bambini “nudi tra le mosche” rovistano tra i rifiuti. “Inshallah (Come Dio vuole)” racchiude una filosofia di vita che per ogni madre è di sudore, fame, figli che accrescono la miseria, fino a ridire questo saluto il giorno che la terra l’accoglie in grembo.
Una costante nostalgia va alla Liguria lontana: “La fresca brezza/ che porta dall’Alpe/ un lieve profumo di neve”, “i grandi castagni/ umidi di scirocco”. La stessa nostalgia che, guardando rovine della Roma imperiale, capisce deve aver provato il legionario romano sognando il suo Tevere. Quella nostalgia la scrisse lui stesso nel diario militare del 1944 a Nervia (Ventimiglia) e nel superarla, con il ritorno in patria, sembra illuminare le due foto di una Genova regale come non mai, anche se sono le consuete della Stazione Brignole e di Piazza De Ferrari.
Pregio del libro anche alcuni disegni: la Vetreria Ma-Liban a china nera, a colori il tramonto sfolgorante della copertina. Tra le foto un modellino di nave che Amanzio costruì per il comandante Spezialetti: con lui era nata l’amicizia quando la sua nave percorreva la rotta Marsiglia-Beirut e pacchi, per ricordo o necessità, viaggiavano fino ad Altare. Il 23 marzo 2001 -gioie della vita!- i loro figli divennero entrambi padri per la prima volta e i loro neonati erano vicini di culla al San Paolo di Savona. Nella foto l’adorabile signora Rossana, cui Amanzio dedicò la poesia “Ubi te Caia ego Caio” (la formula di matrimonio che orna qualche antico sarcofago di sposi romani, ma invertita) indica il fez appeso sopra il modellino: Amanzio, bersagliere nel ‘44/’45, lo portava ovunque.
Un tenerissimo libro che fa venir voglia di visitare il Museo di Altare. Con le sue collezioni supera Murano e fu un abate fiammingo nell’XI secolo a portarvi alcuni conterranei che divennero i primi “mastri vetrai”. Insegnarono la loro arte, come in Libano ha fatto Amanzio con Tanus (Antonio), un arabo cristiano poi direttore al reparto decorazioni.
Maria Luisa Bressani
L'Albero secco
di Maria Antonietta Novara Biagini
“Ma in un momento il sole/ lo rivestì di bagliori dorati:/ immagine dell’anima umana/ trasfigurata dalla Grazia divina.” Così è descritto L’Albero secco che dà titolo al libro della genovese Maria Antonietta Novara Biagini, pubblicato da Fede & Cultura (Verona). Un “povero albero” che sarà tagliato il giorno dopo ma per un attimo è stato il più bello del giardino, come può essere ogni cristiano. Nel primo dei 46 brevi racconti è descritta la fede cristiana nella sua semplicità di adesione totale, anche al dolore, attraverso la figura di Padre Pio. E’ rievocato nell’ultima predica quando sembrava non aver più voce, mentre lasciò “un campo arato” e questo nella memoria si anima rivelandoci in ogni zolla il volto radioso di un Santo cappuccino. Bella immagine poetica!
Però nella nostra società il cristiano è considerato male e nel racconto La teoria dell’evoluzione l’autrice ci fa vedere come: “Retrogradi, miserabili, paleolitici i credenti cattolici”. Ma “sopravvissuti a secolarizzazione, laicismo, scienza scientista e rivoluzione dei costumi morali”.
Nel libro troviamo altre due paginette di poesie con versi che ci danno un’altra chiave di lettura della scrittrice esordiente: “Chi ha è, chi non ha non è./ Chi è e non ha non è./ Chi non è ma ha/ potrà essere, forse, chissà.” Parole su “avere ed essere” che nel racconto La metamorfosi, dialogo tra una Cinquecento ed una Ferrari che si sente penalizzata dai limiti di velocità, vengono sviluppate sul tema dell’apparire: nella nostra società vale la “democratica legge del più sveglio, ride il volpone e se la passa meglio”.
Se la scrittrice rivela il dono della poesia, la usa solo come sintesi di un concetto che le sta cuore; per lei conta mettere in risalto aspetti del nostro vivere che, irridendo ai valori antichi e cercando di cancellarli, in realtà li fanno brillare di più. Ci fa ridere delle smanie degli ambientalisti, del darwinismo, delle miserie di un potere ottuso come nella polemica che occupa 16 racconti e una sessantina di pagine dedicate al professor Aemilius Semplicius Honestus, un cristiano dell’antica Roma che dovrebbe finire in pasto alle belve nell’arena ma così non è. Poi questi, l’Onesto, agisce in tempi moderni e sempre contro il “sano paganesimo politicamente corretto, contro il sacro relativismo”. Insidia con lezioni controcorrente dogmi moderni di finta libertà che includono: “corruzione d’innocenti, spettacoli osceni, adulterio e divorzio, aborto e infanticidio, suicidio ed eutanasia, droga e orge”.
Vi si legge la storia del marito della scrittrice Emilio Biagini, professore universitario, che con i suoi libri sapienziali, profondamente cristiani, si è procurato nemici, ma anche l’adesione sincera di tanti allievi che in lui hanno trovato guida alla verità. Un marito che “mentre altri perdono il tempo a scavargli la fossa”, è descritto a Rimazzùu (Riomaggiore nelle Cinque Terre) mentre nella casa d’origine della moglie dorme “come un ghiro”. Dorme il sonno del giusto, aspettando che siano loro, i nemici relativisti, i darwinisti, a cadere nella fossa.
E il ricordo di questo paesino, arroccato su un pendio di fasce terrazzate, ci dà un’altra chiave interpretativa: una forte nostalgia di quel mondo “potabile”, di zoccoli e vendemmie di sciacchetrà o di uva Bosco dagli acini piccoli, resi bronzei dal sole.
D’eccezione il prefatore, Piero Vassallo, che del modo di far satira della scrittrice evidenzia: “Il miele è buono, ma anche il fiele”, riproponendo il motto di Orazio “la satira castiga ridendo i costumi”. Da qui il sottotitolo del libro “Miele e fiele”.
Presentazione il 10 alle 17.30, al Teatro della Gioventù, con Roberto Cassinelli, Paolo Deotto, Guido Milanese, Piero Vassallo e il nostro Massimiliano Lussana. Da non perdere.
Maria Luisa Bressani
Prima di parlare delle bellezze o dei cambiamenti attuali di Liguria e Genova preferisco da giornalista anche qui inserire le "cose che non vanno": una grande e una piccola.
Terzo Valico di Franco Manzitti
Chiude la Marinella di Nervi
Il Terzo Valico, una linea ferroviaria di 53 chilometri con una galleria di 38 in un tratto appenninico non dentro una montagna insormontabile o sotto un braccio di mare. La generazione precedente ai quarantenni d’oggi non è riuscita a farla. “Saranno i quarantenni a cavalcarla?”
Risponde Giovanni Calvini, imprenditore di 40 anni, il più giovane presidente di Confindustria: “Noi lo facciamo non perché siamo più bravi, ma perché non abbiamo alternative”. La domanda gli è stata rivolta da Franco Manzitti nel suo Bucare il Futuro – Terzo Valico, verso la caduta del muro (De Ferrari, 2011). Manzitti, giornalista senza bisogno di presentazioni, fa il punto quasi con “un diritto di primogenitura” nell’informazione. Negli anni Ottanta a rilanciare il progetto economico di un Supertreno con Milano sono stati suo padre, Giuseppe Manzitti, direttore e presidente dell’Associazione Industriali di Genova e Ugo Marchese, professore d’Economia dei Trasporti all’Università.
Concetto base del testo (evidente dal titolo) è il parallelo tra l’attesa dei genovesi e la spinta di libertà determinata dalla caduta del Muro nel 1989: il Terzo Valico come “liberazione” da isolamento, decadenza e disoccupazione.
Nella prima parte, storica, Manzitti spiega il meccanismo studiato da Vittorio Lupi, Commissario Straordinario dell’opera, sui “lotti costitutivi” del progetto, “blindati” per non dar vita a cantieri aperti come villaggi fantasma: un progetto finanziato per la prima parte con 500milioni di euro dal Cipe e fino alla metà del totale dall’Europa. Dovrebbe concludersi in dieci anni benché –con intelligenza- il ministro Brunetta ne auspicasse il traguardo all’Expò 2015. Nella seconda parte del libro quattro interviste mostrano il fermento di una Genova che non s’arrende, in cui se la committenza pubblica non investisse i capitali necessari, potrebbero farlo i privati. Gli intervistati sono: Giovanni Berneschi, presidente Carige, Paolo Odone e Carlo Sangalli, presidenti delle Camere di Commercio di Genova e Milano, Giovanni Calvini, presidente Assindustria.
Calvini con la risposta data fa capire che non c’è tempo per rimandare. Pensa ad una Genova come “quartiere sul mare” di una maxicittà del futuro estesa a Milano. Per attraversare popolose città cinesi s’impiega di più dell’ora ipotizzata nel collegamento tra Milano e Genova. Ricorda le due “attrazioni” odierne di Genova: Erzelli (il più importante insediamento industriale futuro d’Europa) e l’IIT (Istituto di Tecnologia con 450 ricercatori, industria leggera che richiede comunicazioni mondiali). Si sofferma sulle ricadute: operazioni immobiliari, riqualificazione di stazioni e quartieri. La zona Principe che diventa polo trainante del Centro Storico. Industria di turismo, crociere; gli operatori portuali come prima frontiera d’interesse.
Far presto per non esser tagliati fuori dai trend di sviluppo, dai Corridoi Europei dei trasporti, dagli aeroporti. La Camionale per Serravalle fu costruita “a picco e pala in tre anni e mezzo” con gallerie, ponti...
Il “non aver alternative” è dimostrato anche dall’intervista a Paolo Odone con dati sul decadimento di Genova: 861mila abitanti nel 1971, ora 600mila, ma grazie agli immigrati. L’aeroporto nel 1970 staccava 900 biglietti al giorno, ora 200. Il patatrac commerciale e artigianale è stato mascherato fino al 2000 grazie al turn over, ora si constata un “cimitero”. Però c’è chi come Pino Razero punta 200 milioni di euro nell’operazione Erzelli e attiva un porticciolo tra Fincantieri e dighe aeroportuali: grande idea per chi scende dall’aereo e dopo trecento metri sale sulla barca da diporto.
Odone ricorda Prodi che sul Terzo Valico rimandava: “Dica ai terminalisti di portare 500mila teus in più e ne cominceremo a parlare”. Commenta: “Da far cadere le braccia da un capo di governo con incarichi in Europa”. Altri “resistenti” al progetto: il veneto Treu (privilegiava “piste” adriatiche), Di Pietro per ingraziarsi gli ambientalisti.
Proprio sul “vantaggio ambientale” si sbilancia Sangalli, l’intervistato milanese: “questi corridoi fluidificano il traffico e riducono l’inquinamento”. Insiste sui collegamenti “da e per Milano” con una struttura a ventaglio in cui ci possono stare due assi strategici: il Corridoio 5 che collega Lisbona con Kiev e il Corridoio 24 da Genova a Rotterdam, su cui è stata a febbraio la Mobility Conference (organizzata da Assolombarda e Camera di Commercio milanese). Da Expò 2015 spera in sinergie e chances turistiche per la Liguria.
Ma è la prima intervista, a Berneschi, presidente Carige, dove batte fortissimo il cuore per il Terzo Valico. “Si deve fare anche scavando con le mani” afferma. E ancora: “Un imprenditore cinese si sorprende, sbarcando la merce a Genova, di risparmiare quattro giorni e mezzo rispetto ai porti del Nord.” “Nove, tra andata e ritorno” gli ho urlato. “Però, da fonti privilegiate che me lo confermano, Russia e India stanno costruendo due linee ferroviarie per collegare i porti del Baltico al Nord Europa e al Giappone. Tempi di trasporto dimezzati e addio Suez, Genova e porti del Nord”.
Il libro offre risposte sul dove mettere i materiali di risulta, fa nomi di chi sembra pronto ad investire: le autostrade sono state redditizie, aprire cantieri dà occupazione. E i genovesi anziani vorrebbero morire dopo aver visto i figli che tornano a lavorare vicino a casa.
Maria Luisa Bressani
Mercoledì 19 poco dopo le undici una signora di Nervi mi ha raccontato di essere passata alla Marinella sulla passeggiata a mare di Nervi per prenotare il pranzo di famiglia a Natale. Splendido locale la Marinella: personale gentile, rapido nel servizio, focacce e pizze leggere e fragranti, benissimo presentate con sopra gli affettati, prezzi da famiglia. L’unico ristorante della passeggiata dove a Natale si può mangiare in terrazza sul mare, senza che nessuno passandoti vicino guardi cos’hai nel piatto o come tieni le posate.
Ebbene tre uomini stavano caricando i quadri della Marinella su un trolley. “Quando riaprite?” chiede la signora, dopo il paio di mesi di chiusura che aveva impedito al marito di andare lì a prendere il caffé del mattino “perché da nessuna parte incontrava altrettanta gentilezza, uno zucchero vero”. “No, non riapriamo più”, le risponde uno dei tre. Le mostra le chiavi: “Queste le ridiamo al Comune e poi dicono che aiutano gli imprenditori. Ci chiedevano...”, e dice la cifra.
Il giornalista di vaglia correrebbe ad informarsi, ma la sottoscritta, a questo punto, ha solo voglia di abbandonarsi da barbona sul primo scalino: è impotenza dello scrivere!
Se ne va un altro pezzo storico di Nervi. Provo amarezza e potrei solo scrivere di quando a Nervi c’era l’Aura in via del Commercio da cui in certe ore si diffondeva fino al cavalcavia per la riviera un tonificante profumo di cioccolata. Potrei scrivere di tutte le altre fabbriche che hanno chiuso in questi anni, dalla Job delle sigarette alla fabbrica di divani sul torrente Nervi quando ho visto le lacrime del proprietario per l’alluvione primi anni novanta. Avrà chiuso, ma non ho mai avuto il coraggio di tornare a chiedere. Non c’è niente che avvilisca come essere testimone delle lacrime di chi ha avviato un’attività -di cui era orgoglioso- per cui sa non ci sarà più ripresa. Chi ti aiuta? Chi delle pubbliche Istituzioni ha aiutato le persone alluvionate dall’esondazione del Ferreggiano. Un drammatico film, ma è dura realtà, che si ripete.
Chi scrive ricorda ai Parchi di Nervi il Putto dello Schiaffino che da una fontana nell’89 fu ricoverato in Museo. Doveva essere sostituito con un calco in gesso e mai non accadde. La vasca dove prima c’erano pesci rossi e tartarughe, poi solo tartarughe, una festa per i bimbi, ora mostra il cemento asciutto del fondale. E tutta la convallaria, l’edera, messe qua e là per la “riqualificazione dei Parchi” lasciano intravvedere dal folto viluppo qualche aguzza coda di topo. E poi ci sono le buche nei viali asfaltati per facilitare cadute di vecchietti con il bastone e di miniciclisti. Eppure i quattro Parchi con i quattro Musei (anche se non si è mai nemmeno fatta una passerella aerea per portare dalla GAM alla Wolfsoniana facilitando il collegamento) meritano tuttora il soprannome di “Piccola Versailles” per i tesori che racchiudono. E’ vero che molti mai esposti non saranno mai veduti dal pubblico perché costituiscono “la riserva aurea dei Musei stessi” e Genova -come diceva il cardinal Siri- sarà sempre la città dai tesori nascosti. Tanti i quadri donati da artisti di pregio del nostro tempo ma anche per i Musei il libro della storia si è fermato al massimo alla grande guerra e sembra che poi nessuno abbia più dipinto o scolpito.
Alla GAM c’è la stanza di Rubaldo Merello, maestro irraggiungibile per i colori del nostro mare. Se qualcuna delle sue opere girasse in tour promozionale in altri Musei sarebbe il miglior incentivo al nostro turismo.
Però così è: Genova resta nostalgia profonda di Cose perdute. A Nervi il profumo dell’Aura, vicino alla Casa dello studente la fragranza dei biscotti Saiwa. E ricordo parole di un gentiluomo che più non è, il commendatore Biasioli (aveva una fabbrica di dadi da brodo in Nervi), che diceva: “La passeggia a mare di Nervi è la più bella al mondo”.
Per la quipresente che scrive, anche un po’ golosa, la Marinella sarà il rimpianto, a fine pasto, dei bigné alla crema coperti di cioccolato fuso. Ma a voler essere più romantica, quante volte guardandomi intorno ho visto tavoli dove sedevano coppie innamorate con la brezza nei capelli e il mare negli occhi, quante volte famiglie festanti intorno alla torta di compleanno di un nipotino, quante volte colazioni d’affari dove si capiva che l’invitato, arrivato dalle brume padane, avrebbe finito per firmare tutto ciò che poteva legarlo a Genova.
La Marinella un’altra delle tante cose, belle e perdute, nell’indifferenza di chi dovrebbe aiutare gli imprenditori.
Maria Luisa Bressani Ferrero
101 cose da fare in Liguria almeno una volta nella vita
di Fabrizio Càlzia
Un libro per imparare a vedere: 101 cose da fare in Liguria almeno una volta nella vita di Fabrizio Càlzia per Newton Compton Editori. In quarta di copertina alcune delle esperienze segnalate: “Preparare il passaporto per il principato di Seborga”, “Sorbire un caffè al baretto della Foce dove si conobbero i cantautori genovesi”, “Cercare il nome della rosa all’abbazia della Benedicta...”
Un libro che vuol insegnare ai liguri a conoscere la loro terra, con il presupposto che così come la racconta l’autore non l’hanno mai vista, fa venire la mosca al naso, peró dopo averlo sfogliato – avidamente, con curiosità – ci scappa un “Càlzia, sei un grande!”
Racconto qualche suggestione che ne ho tratto leggendo le due o tre paginette dedicate ai vari luoghi.
A Sùvero in Val di Vara c’è un paesello con un Castello Malaspina, feudatari e signori delle terre fra Vara e Lunigiana. Dei Malaspina chi scrive ha avuto modo d’interessarsi forse per quel primo ricordo del dantesco Moroello “vapor di Val di Magra”, ma anche perché a Bobbio, città d’origine di mia madre, esiste uno splendido maniero di questi nobili. Pian piano ho saputo che esistono i Malaspina dello spino secco (i bobbiesi) e dello spino fiorito questi d’alta Toscana e Est dell’estrema Liguria. Ma in queste pagine nessun peso di dottrina: i Malaspina valgono sí, ma tanto quanto la “roverella di Pirolo”, pianta monumentale di 300 anni d’età e 13 metri d’altezza che troneggia su un tornante della strada che porta ai Casoni di Sùvero, valgono tanto quanto l’abetaia di 150 ettari, appena sopra il paese, così fitta da impedire la crescita di qualsiasi tipo d’albero. “A Sùvero un giorno ci andrò”, mi son detta tanto più che non è lontana dal mare delle Cinque Terre e d’estate perfino turisti americani – assicura l’autore – vi salgono a respirare aria di montagna.
Un altro esempio. Sono stata spesso a Savona città dov’è nato mio marito e dove vivevano i miei suoceri. Fare il bagno ad Albisola, mangiare la panissa... Mi tocca ora scoprire dal libro che esiste una farinata bianca di Savona che si cuoce in forno come quella di ceci, ma è più croccante e si può gustare liscia o con l’aggiunta di rosmarino, olive tritate, pancetta. Contare le volte che sono stata a Savona mi è quasi impossibile, eppure questa “delizia” non l’ho mai gustata.
E ancora una scoperta da queste pagine: “Navigare a Colletta il borgo online”. Inizia con versi da Quinto mondo di Jovanotti: “Il quinto mondo è il prossimo livello, soltanto informazioni che nutrono il cervello”. L’autore descrive il borgo spopolatosi nel dopoguerra e rinato come villaggio medievale telematico il cui cuore è l´Internet Café Osteria. In quel luogo si conversa con uomini d´affari australiani, con una famiglia d’imprenditori giapponesi che vive lì una metà dell’anno e l’altra a Londra, tutte persone queste e tante altre nel mondo che hanno scoperto il borgo su Internet. Un cosmopolitismo impensabile!
Dalle notizie di quarta di copertina si viene a sapere che Càlzia alterna l’attività di microeditore con quella di papà. Anche noi come bambini da alfabetizzare gli siamo grati: non viaggeró lontano, ma questa Liguria delle 101 cose da fare, a poco a poco io la conosceró con questa sua guida preziosa.
Maria Luisa Bressani
Bleu de Genes - Piccola storia universale del jeans
di Remo Guerrini
Bleu de Gênes – piccola storia universale del jeans (Mursia) del genovese Remo Guerrini inizia con un ricordo anni Sessanta quando i jeans si vendevano solo in Sottoripa. Vi erano tutti i tre marchi, Levi’s, Lee e Wrangler, ma era “roba blu scuro e dura come cartone”. Allora vestire jeans è stata la libertà portata dal rock o da On the road di Kerouac (1957). Al cinema nel ‘53 aveva spopolato il Selvaggio di Marlon Brando, ispirato alla rissa di Hollister (California), dove 4mila “bikers” si erano sfidati a bevute di birra, entrando e uscendo con le moto dai bar.
Sono spunti da un libro “pirotecnico” per i tanti aneddoti, per le storie delle principali dinastie del jeans, per la descrizione delle tecniche di tessitura o di coloritura del famoso color blu. Il libro soprattutto ripercorre la storia del cotone attraverso le crisi economiche, dalla laniera dell’XI secolo che fu la prima e lo impose, avvantaggiando gli importatori, cioè i mercanti genovesi e veneziani.
Il termine jeans, da Gênes (Genova in francese, come il denim, fratello gemello, deriva dalla francese Nîmes) si usa per la prima volta in Inghilterra. Questa nazione nel Settecento diventa massimo importatore di fustagno (cotone), sia di quello tedesco della Svevia (nel ‘500 aveva sostituito la produzione italiana) sia di quello genovese che aveva superato ogni crisi. In tempi recenti la storia del cotone è riproposta attraverso i risvolti economici della guerra di Secessione Americana, poi come la materia prima dominante nell’Ottocento, fino alle necessità del mondo moderno, indirizzate a maggior ecologia. Ogni anno per l’uso dei pesticidi muoiono 20mila persone, di cui i più addetti alla coltivazione del cotone; con la moda del jeans invecchiato, il metodo della sabbiatura nel 2008 ha provocato la silicosi a 5mila addetti in stabilimenti illegali della Turchia.
Un’altra storia è l’evoluzione del jeans con la moda. Questa tela resistente, che un tempo copriva le merci in porto, fu poi utilizzata per i pantaloni dei lavoratori e dopo la crisi del ’29 diventò in America il modo economico di vestire. Nel ’60 significava stare insieme, nel ’70 implicava uno star separati perché il jeans firmato non era accessibile a tutti, negli anni Ottanta imperversa quello strappato e nel ‘90 con il rap s’impone il “baggy” (senza forma). La Levi Strauss, ritrovandosi invenduti gli stock tradizionali, ricorre ad un budget pubblicitario di 90 milioni di dollari, mentre suo gran successo del passato, per il lancio dei jeans per bambini, era stato il gadget della pistola ad acqua.
Segno particolare del libro: la leggerezza di scrittura. Interessa senza annoiare, qualità che Guerrini ha maturato da lunga professionalità: giornalista direttore di grandi testate, ha pubblicato per primo le spy story della Mondadori, diventando poi autore di Thriller. Questi suoi capitoli scorrono lievi tra suspense e buona informazione.
Maria Luisa Bressani
Week end – Dialoghi su etica e valori (con il linguaggio dell’amore) di Michele Cozza è un libro di “riflessioni, sostanziate da un percorso di vita”; è dedicato alla figlia Sofia (nata quando suo padre per lavoro si trovava in Cina negli anni dell’epica Tienanmen) e alle persone, che l’autore ha scelto di “amare intensamente e illimitatamente”. E’ stato pubblicato da red@zione (www.e-redazione.it) con direttore editoriale Mario Bottaro. Questi anche estensore della prefazione scrive dei due protagonisti, una coppia tanto immersa nel “dialogo” che passano la notte, lui a parlare per convincere, lei a tenergli testa: “Un Pigmalione-Higgins alla George Bernard Shaw che ‘fa lezione’ alla propria Eliza Doolittle, ma sono la stessa persona che si sta guardando allo specchio”. Da questa affermazione per chi non conosce di persona l’autore, nasce un interrogativo che, leggendo, si rafforza: “Eliza” esiste? Donna convinta della bontà del fare più che del parlare, ammira il partner ma conserva una sua essenza indecifrabile e, infine, proprio convinta non è.
Michele Cozza è ingegnere meccanico-nucleare, appassionato di politica e filosofia. Ha lavorato come project engineer e manager per centrali termoelettriche e impianti nucleari del Gruppo Ansaldo, poi al Comune di Genova da dirigente e direttore dello sviluppo economico e commercio; ora, dirigente Filsc, si occupa di sviluppo economico per conto della Regione Liguria. Questa in sintesi la sua vita, ma ciò che ci racconta di sé ha una motivazione: “la nostra memoria siamo noi” ed è da ridire perché “i figli possano decidere del proprio futuro, abbattere le barriere e lasciare recinti preconfezionati”.
Il suo percorso inizia a Rogliano (radici ricordate con nostalgia), quindi ha necessità d’integrarsi, lui bambino d’accento calabrese, in una Genova coinvolta nella migrazione dal Sud. Di rincalzo la sua “Eliza” commenta: “La migrazione svuotò il Sud e sconvolse socialmente il Nord, trasformando l’Italia da società contadina in una delle nazioni più industrializzate del mondo”. L’autore ricorda un po’ di razzismo in quella Genova e una conferma viene dal calabrese Pepy Criaco, consigliere di Circoscrizione per Rifondazione, poi candidato per l’Idv, che rammenta i cartelli fuori dalle case verso Capolungo: “Non si affitta ai calabresi”.
Per parte sua Cozza risolse il problema non lasciandosi intimidire. Ad un compagno del Giorgi che lo prendeva in giro, risponde: “Sono nato in Calabria e ne sono orgoglioso. Vivo a Genova da pochi anni ma la considero la mia città, anzi mi considero più genovese di te”. Gli puntualizza con dialettica da futuro sindacalista (delegato per la CGIL): “Ti ritengo genovese quanto me perché in questa città, abbiamo l’opportunità, studiando, di costruire il nostro futuro...” Il colpo finale: “Io, calabrese, tifo Genoa, tu Inter”.
Non gli è così facile mettere all’angolo la sua “Eliza”. Lei non si lascia incantare neanche dall’elogio sul suo minestrone alla genovese con cui vorrebbe spiegarle la complessità del mondo. Lei pesta il basilico nel mortaio di marmo (lui usa il frullino), lei sceglie solo verdure di stagione e le varia con un “sapere e creatività che sono base della conoscenza”. Se il minestrone ha una ricetta complicata, lei la esegue in modo complesso, che è di più. Lei lo rintuzza proponendogli un week-end “complicato”: da Varigotti (Riviera di Levante, dove sono) andare alla baia del silenzio di Sestri (Riviera di Ponente) per poi prendere a Rapallo il traghetto per San Fruttuoso, dove ascolteranno il concerto di Andy Gravish, profittando prima delle tappe del battello per sostare a S. Margherita e Portofino. Nel libro l’incanto delle nostre Riviere, con il valore aggiunto di offerte culturali di rilievo, e in questo senso si può anche definire promozionale del turismo.
Quando Cozza si affaccia su mondi diversi, come il cinese, (dove ha viaggiato per l’Ansaldo) ci offre riflessioni sulla storia recente. Era il momento di avvenimenti politici che portarono in Europa alla caduta del muro con la riunificazione della Germania ma anche il momento dell’espansione di microelettronica, automazione, informatica della III rivoluzione industriale; della riforma economica cinese con transizione all’economia di mercato. Ora la Cina si è complicata la vita per lo squilibrio economico tra aree costiere e interne, con la massiccia migrazione dalle campagne alle città, con il deterioramento dell’ambiente, con un rapporto squilibrato maschi/femmine causato dalla politica del figlio unico. E la Cina, terra di storia antica e complessa, è riuscita a diventare “complicata”.
Attraverso l’esame di complessità, identità, responsabilità il libro ci ammnonisce, nel precario mondo d’oggi (Occidente incluso), a non cedere a nessuno, mai, l’unica libertà possibile: “la scelta di decidere, per noi stessi, nel rispetto dell’altro”.
Maria Luisa Bressani
Il BRUCO: Bi-level Rail Underpass for Containers Operations
di Bruno Musso
Questo è un altro esempio come Il Terzo Valico di bei progetti che potrebbero rivitalizzre Genova e invece sono sempre ostacolati o mandati alle calende greche.
Il BRUCO: Bi-level Rail Underpass for Containers Operations (Edizioni Celid), di Bruno Musso e del professor Riccardo Roscelli, presenta un progetto supportato da studi tecnici, urbanistici ed economici sulla fattibilità del “Porto di Genova oltre l’Appennino”.
Il BRUCO è un’idea semplice ma geniale: una specie di nastro trasportatore a bassa velocità con avanzamento automatico senza guidatori per speciali vagoni ferroviari con container sovrapposti, a doppia altezza, in un tunnel riservato e con terminal nel punto dell’alessandrino prescelto come grande banchina del Porto di Genova, il suo Porto secco. La scelta è il terminal di Voltri: alle sue spalle il punto più stretto dell’Appennino dove la pianura penetra a Km.20 dal mare.
Oltre alle ben dettagliate premessa e conclusione dei due autori, Musso, armatore presidente del Gruppo Grendi (azienda familiare fondata nel 1828 che nel 1967 costruì la prima nave italiana full container) e Roscelli, docente Vice Rettore del Politecnico di Torino, presidente dell’Associazione SiTI (Istituto Superiore sui Sistemi Territoriali per l’Innovazione), il libro è arricchito da dodici capitoli a cura di 26 docenti e professionisti. Approfondiscono ogni aspetto: dalla futura leadership del nostro Porto nel Mediterraneo, al notevole incremento dell’occupazione nello shipping e nella logistica integrata, dall’inquinamento delle acque del Porto, maggiore con un traffico maggiore per cui indicano metodi neutralizzanti, all’impatto ambientale, definito nullo per Genova, diverso nell’alessandrino, dove da tempo si aspira ad una rivalutazione imprenditoriale, ma i capannoni dovranno sostituire le attività agricole.
Alcuni passi per la realizzazione sono già stati fatti: nel 2008 un protocollo d’intesa tra la Regione Piemonte e la Regione Liguria; un Convegno “Il Gottardo c’è” cui ha partecipato la Regione Lombardia per costituire un comitato di Promozione del “Porto oltre l’Appennino” che renderebbe Genova centro logistico d’Europa del traffico dei container mettendola in concorrenza con i grandi porti del Nord Europa potendo movimentare come Amburgo un traffico di 10 milioni di teu l’anno, più del quintuplo del volume attuale. Sebbene separati dalle Alpi i centri urbani di Germania meridionale, Europa centrale sono più vicini ai porti del Mediterraneo che a quelli che si affacciano sul Mare del Nord e la tratta marittima del viaggio dal Far-East all’Europa si ridurrebbe come minimo di tre giorni di navigazione.
La logistica oggi pesa per il 15% sul PIL nei paesi più sviluppati, il traffico europeo di container negli ultimi anni è aumentato di 30/40 volte e raddoppierà nei prossimi dieci anni. C’è stata la rivoluzione delle dimensioni delle navi porta-container: è aumentata di 15 volte e raddoppierà nei prossimi anni rendendole incompatibili con i porti tradizionali. Il traffico si svolgerà dalla nave “madre” alle navi “figlie” che portano i container in centri di smistamento come Gioia Tauro, Malta, Cagliari, ecc. Dei porti italiani del Nord solo Genova, per la profondità dei suoi fondali, può attrezzarsi all’accoglienza della nave “madre”. A questo fine – è ben evidenziato nel libro - occorre allargare la diga foranea, realizzare un’isola per l’imbarco-sbarco, ampliare il canale di calma tra litorale e banchina.
Nel libro viene anche indicata la copertura finanziaria di questa grande opera con investimento pubblico/privato (e per il pubblico ci sarebbe un autofinanziamento con la gestione dell’infrastruttura). L’analisi dei flussi di cassa dà dati possibili, ma precisi sulla redditività dell’intero progetto.
La sfida del futuro per Genova si gioca di nuovo sul Porto, la sua vocazione storica, ma il treno del progresso stringe i tempi e il Terzo Valico – si dichiara nel libro - ha senso solo se si realizza anche il BRUCO. La “politica dello struzzo” verso il traffico com’è, e che porterà al collasso del territorio (25mila trailer al giorno con congestione della rete autostradale), non paga e i nostri attuali governanti, Burlando e Vincenzi saranno ricordati solo se avranno il coraggio di opere innovative. Ha forse smesso di sognare Marta che da presidente della Provincia non cessava di immaginare Genova come Amburgo?
Maria Luisa Bressani
Dialogo su Etica e Valori di Michele Cozza
Mario Paternostro
e Genova al microscopio
Il seguente testo è qui riportato perché sembra promozionale di tradizioni come il minestrone alla genovese ma anche del paesaggio unico della Liguria e perché ricorda qualche pregiudizio che una volta vigeva, ad esempio su chi veniva dal meridione e Genova è sempre stata città chiusa finché non si stabiliva un rapporto personale di amicizia.
Lelia Finzi Luzzati ricorda la storia
dei 150 anni della Levi Strauss & Company
Sono stata contenta di poter recensire libri della Sicula Terra di cui considero importantissimo il primo che ho qui inserito di Giacomo Pilati, dato che sono stata concepita in Sicilia e portata a nascere a Trieste, città di mio padre.
Sono tornata in Sicilia e vi sono stata fino ai sei mesi quando papà capitano d'artiglieria pesante ha dovuto portare il suo Reparto in Tunisia per la guerra. L'ho rivisto a tre anni e mezzo. In Sicilia non ho mai più potuto tornare però la considero tra i miei luoghi del cuore (e papà in una Lettera la descrive come terra bellissima) insieme alla Liguria dove vivo e alle due città Bobbio dove nacque mia madre e Trieste la mia città natale.
Questo Sito non è solo un amarcord professionale del mio giornalisno lungo più di trent'anni, ma è anche un viaggio per me autobiografico.
Dal Regno delle Due Sicilie al declino del Sud
di Tommaso Romano
Dal Regno delle Due Sicilie al Declino del Sud, autore Tommaso Romano per le Edizioni Thule di Palermo, è un libro per riflettere sul periodo storico che ha come cerniera l’unità d’Italia, un prima e un dopo il 1860. Non a caso, Romano è professore di Filosofia nei licei e direttore della rivista “Spiritualità e Letteratura”.
In veste di storico nel Prologo si presenta in parentela ideale con autori, da cui evidenzio un nome, Carlo Alianello de La conquista del Sud, edito nel 1972 da Rusconi per tramite di Alfredo Cattabiani. La notizia ci porta in un Gotha dell’Editoria, ma cattolico e controcorrente.
In veste di palermitano afferma che il libro esprime il sentimento profondo di un meridionale integrale e che il Meridione non esclude né il Nord, né l’Europa, ancor di più il Mediterraneo. Scrive: “Il mio Sud è civile, da sempre riesce ad essere accogliente, solare, autenticamente umano, una terra che ha pagato e continua a pagare la sua atavica incapacità di apparire protagonista e di supporsi “superiore” nell’eventuale confronto”.
Con il colpo d’ala del letterato, Romano ricorda parole di Dostoevskij: “Per 2000 anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale”. Il suo Sud si colloca in questa visione mondiale; il libro non è solo storia passata cosa che potrebbe interessare meno, ma un acuto Saggio sull’attualità con risposte alla domanda: “Perché da 150 anni parliamo di Questione meridionale?” Sono messi in luce alcuni nodi: “interventi straordinari” elargiti come elemosina, (cosiddette) “politiche di sviluppo”, “capitali clientelari”, “tangenti”. E chiede: “Hanno migliorato l’immediato tracollo del Sud, seguito al dopo 1860?”
“La terribile ferita della mafia e della camorra con gli indimenticabili martiri: Chinnici, La Torre, Borsellino, Falcone, Don Pino Puglisi – precisa l’autore - non si rimargina con le politiche dell’abbandono, la speculazione finanziaria, le ragioni della grande industria, come la FIAT dell’accetta giacobina su Termini Imerese, con larga parte della Chiesa del Sud che ha perso spinta profetica alla verità diventando agenzia sociologica di terzo livello”. Un Saggio presuppone il dibattito. Condivisibile la tesi sulla Chiesa di “accoglienza!”, pensando che la Caritas, a Genova di recente, pagò biglietti di rimpatrio ad immigrati per salvarli da disoccupazione e spirale della criminalità. Convince meno l’ira sulla FIAT, perché l’industria non si può permettere d’essere assistenziale, deve produrre, va a cercare chi vuol lavorare, dove si lavora.
Nel libro il pregio di un’analisi economica sul Sud. Dal 1733 al 1862 della restaurazione della monarchia napoletana il Sud fu retto dal principio di non gravare il popolo di nuovi tributi e dal rispetto della proprietà privata. Ebbe eccellenze d’Istituzioni, dalla Stamperia Reale al primo sismografo al mondo. Ebbe una spettacolare bonifica del Volturno che consentì ai Borboni di distribuire 53mila moggia di terra a 1314 famiglie di contadini e il Tavoliere delle Puglie era amministrato perché, a bassissimo costo, gli allevatori pascolassero gli armenti in inverno.
Appare necessario il revisionismo storico. L’Illuminismo, nel libro, è definito falsamente libertario e viene stigmatizzata “l’ubriacatura rivoluzionaria del 1789” con la reazione dei francesi della Vandea in difesa di religione cattolica e regalità senza tirannia. E penso al critico cimematografico Claudio G. Fava sostenitore della causa di beatificazione di Luigi XVI, che dai testi storici sembra “un bamboccione”.
In Appendice frasi “revisioniste”. Di Giuseppe Ferrari: “Potete chiamarli briganti, ma combattono sotto la loro bandiera nazionale, ma i padri di quei briganti riportarono due volte i Borboni sul trono di Napoli”. Di Bacchelli sul Risorgimento: “Se le plebi parteciparono poco, ebbero parte assai, e dolente e coraggiosa, nel pagarne i debiti”. Al bel libro di Romano il Premio Orgoglio Siciliano (Riesi 2010).
Maria Luisa Bressani
Foto Famiglia Marin Gjaja
In un'Italia sinistrorsa - e talvolta anche sinistra nelle sue manifestazioni violente o nelle sue dimenticanze di lealtà - che finché Obama non divenne presidente Usa era pronta a gridare all'imperialismo americano e pronta anche a bruciar bandiere a stelle e strisce forse il precedente libro di Bianca Pizzorno può aiutare a riflettere che l'America è pur sempre "il sogno americano".
Questa bella famiglia nasce da un signore iugoslavo Niko Gjaja di Spalato che a Pola da studente d'ingegneria con gli amici sedeva nel locale dove si riunivano i giovani intorno ad un unico bicchierino di sljivovica (era necessario per stare in quel locale prendere almeno quella consumazione ma se ne potevano permettere un solo bicchierino in tanti) e se lo passavano intingendovi il dito. Altro non c'era per i giovani d'allora. Anche perciò ma soprattutto non approvando come veniva governata la Jugoslavia primi anni sessanta Niko, divenuto ingegnere, venne a Genova a lavorare in Ansaldo ma presto si spostò in America con la giovane moglie Vesna di Fiume (il cui padre in marina era stato nominato console onorario in Svezia e da uomo colto in un anniversario con la moglie l'aveva portata a vedere le cattedrali europee: un viaggio a ciò finalizzato).
Sui 15 anni del mio Cesare riuscii a rintracciarli e ci scambiammo i figli per vacanze di studio. Continuò nel tempo la nostra amicizia con tutto il dolore di Niko quando ci fu la guerra nei Balcani e conservo una lettera fiammeggiante in cui parla della rapina che fecero nella sua Terra i vari signori di turno.
A volte Marin mi manda foto come questa e ne conservo in cuore l'immagine di quindicenne che scoppiò a ridere alla vista della prima Cinquecento quando andammo a prenderlo perché arrivava con Cesare dalla loro prima vacanza insieme, un campus in America dove Cesare aveva imparato l'uso del computer che poi era considerato come uno strumento del demonio dalla sua insegnante di lettere al liceo King.
Marin che mi chiedeva di fargli uova strapazzate e a me sembrando un cibo troppo banale non lo accontentai mai finché fu in vacanza da noi o che fotografava come fossero opere d'arte i nostri tombini con le piastre che li ricoprono e le scritte delle fonderie da cui provenivano. Marin che quando gli chiesi se fosse più americano o jugoslavo mi rispose allora: "Prima iugoslavo poi americano". Marin che una volta accompagnammo a Fiume dai suoi nonni e ci ospitarono in un appartemento ristrutturato per un giovane di famiglia che si sposava. Era tutto così nuovo che in bagno asciugavo con imbarazzo e condizionata da tutto quel nuovo ogni goccia d'acqua che cadeva dal lavabo.
E ancora Marin cui mettemmo in valigia una piantina d'ortensia che piaceva alla sua mamma in spregio alle leggi che non permettono questi "transiti" di piante in aereo per la possibilità che si diffondano parassiti. Possono propagarsi in un altro ambiente senza difese nate dalla convivenza abituale e noi però avevamo fatto esaminare con attenzione l'ortensia da un vivaista prima di occultarla per il viaggio.
Quanti bei ricordi e sia lui che il fratello maggiore Vojin si sono perfettamente integrati nella società americana con ottimi risultati di carriera anche se nell'anima continuano a sentirsi iugoslavi. Il lavoro del padre si è dipanato tra la General Electric e una società privata di computer da lui costituita, il loro cammino di figli (Marin se si va su LinkedIn risulta direttore della sua Ditta) e Vpjin prima fece incursioni nel campo della cinematografia come regista per la CNN (era appassionato dello scrittore Nabokov) ma poi è stato anche nell'esercito in corpi speciali.
XVI Cammeo I Gjaja una bella famiglia
dalla Yugoslavia all'America
XVII Cammeo: Da giornalista due cose che non vanno.
Il Terzo Valico si farà mai?
Ha chiuso la Marinella di Nervi
Lettera di un amico iugoslavo del 18 dicembre 1998: "Il vivere civile" (Guerra nei Balcani, indirizzata a mio marito)
Il sogno americano codificato nel 1931 dallo scrittore
James Truslow Adams: "Quel sogno di una terra in cui la vita è migliore, più ricca e più piena per tutti, con opportunità per ognuno a seconda delle sua abilità e conquiste".
Non solo, se odierne statistiche mostrano 7 genitori americani preoccupati pensando che i figli avranno poca sicurezza economica nel futuro, però la metà dei teenager intervistati è ottimista: "meglio esser giovani oggi che al tempo dei loro genitori"
1972: Marin e Vojin, americani anche nella praticità elegante del loro vestire da bimbi.
1966: ho visto New York e, rientrando a Milano ho pensato guardando le piccole case scrostate allineate lungo la strada dell'aeroporto, che avrei voluto viverci. E' rimasto un sogno, il mio sogno americano, ma proprio per questo bollo come selvaggi coloro che bruciano bandiere americane